COMUNIONE IN ATTO TRA I GEN'S

- esperienze -

 

Risparmi che scottano

Seconda giornata di lavori al Cen­tro Mariapoli di Rocca di Papa. I seminaristi presenti, più di 200 da tutta Europa, sono impegnati in un incontro che loro stessi costruiscono. E' il momento in cui alcuni di loro mettono sul banco le proprie espe­rienze. Parla Marco che viene da To­rino: « Con altri tre faccio vita di comunione in una parrocchia della città. Continuiamo i nostri studi di teologia e seguiamo un gruppo di ragazzi che si preparano per il se­minario maggiore. Nella nostra vita, già da un pezzo, è maturata, per la sua logica evangelica, la comunione dei beni. Le nostre entrate ordinarie sono i soldi che ci danno i genitori e quelli che riceviamo per attività particolari. L'introito più consistente, tuttavia, era la busta che Roberto, fino allo scorso anno operaio alla Fiat, ci portava ogni mese. Tutto questo aveva permesso di accanto­nare un certo fondo che garantiva economicamente il nostro avvenire. La sicurezza economica era però un piano che avevamo fatto noi. In que­sti mesi infatti, proprio per la vita di comunione che c'è tra noi quat­tro e con altri seminaristi del Pie­monte, siamo venuti a conoscere il caso di S., un seminarista che per difficoltà familiari oltre che studiare doveva pure lavorare. Da questo mo­mento, il nostro « fondo » ha inco­minciato a bruciarci nelle mani. Per­ché pensare all'avvenire e non prov­vedere invece a quel nostro fratel­lo? Avvertivamo, è vero, il rischio di rimanere a nostra volta squattri­nati, soprattutto Roberto, che dopo aver lasciato il lavoro per iniziare la teologia, doveva continuare ad auto­mantenersi. Il fatto più urgente tutta­via era che S., per motivi di salute, non poteva più continuare a studia­re e lavorare, e l'unità che avevamo con lui ci domandava coerenza.

Così il nostro fondo è finito per lui...

Questo passo era per Dio — con­tinua Marco — al quale affidavamo il nostro futuro, e, per adesso, vera­mente non ci è mancato nulla. Ad esempio è avvenuto che alcuni ami­ci che lavoravano in fabbrica con Ro­berto, colpiti dalla sua testimonian­za, quando hanno saputo che voleva farsi prete, spontaneamente hanno deciso di tassarsi ogni mese per aiutarlo ».

 

Una questione di famiglia

Fatti di questo genere sono il se­gno di una situazione nuova che la comunione, fraternità vissuta, por­ta in luce. Quando si cerca di vive­re così, diventa una cosa normale che seminaristi, anche se sparsi in seminari diversi, si sentano coinvol­ti allo stesso modo dalle proprie co­me dalle altrui necessità. E si com­prende pure come, nella comunione vissuta, venga saldata anche quella frattura che sembra dividere e con­trapporre l'attuale alle precedenti generazioni di preti.

Ha colpito, durante lo stesso ra­duno, l'esperienza raccontata da Lu­cio, che studia teologia a Napoli. Anche lì, con situazioni diverse, la stessa realtà di fondo: gruppi di teo­logi che nei vari seminari della Campania si impegnano, oltre a vi­vere la piena comunione a livello di gruppo, a incontrarsi mensilmen­te tra loro. Occorrerebbe una macchi­na per facilitare gli spostamenti e aiutare il lavoro di Lucio che man­tiene il collegamento. Per dei semi­naristi è un problema serio. La cosa viene conosciuta dai sacerdoti, coi quali corre il legame della stessa vocazione al sacerdozio, realizzata e vissuta in unità. Diventa una que­stione di famiglia che invita tutti a provvedere. Si vede che realmente la macchina occorre, e dalle tasche dei sacerdoti escono i soldi per acquistarla. Cosi ora, già da un me­se, una cinquecento rossa contribui­sce  sulle strade del Napoletano a costruire quella comunione dalla qua­le è uscita.

 

Non conta la quantità

Ma la comunione non è una que­stione di quantità: non importa se posso dare tanto o poco. Non im­porta nemmeno se il mio contributo è una gioia o un dolore, un suc­cesso o un fallimento. Importa che io dia tutto, ciò che sono e ciò che ho, anche se questo tutto è nulla, miseria o limite: importa che io dia me stesso.

Josef, un seminarista svizzero, ci scrive: « E' proprio nel contatto con gli altri che mi accorgo dei miei li­miti. E questo mi fa soffrire. Ieri, ad esempio, c'era un raduno del mio gruppo. Dovevo continuamente lottare contro la sensazione che in fondo io, lì, ero un peso morto, per­ché incapace di dare un contributo. Non mi sentivo all'altezza della si­tuazione: troppo carico di limiti per stabilire un rapporto autentico con gli altri. Non so cosa è successo: a un certo punto mi è sembrato chiaro che se era un fatto normale la per­cezione dei miei limiti, non lo era la chiusura che, per questo, stavo assumendo. Mi son detto: è ora di smetterla di guardarmi allo specchio per commiserarmi. Così ho cercato di non pensare a me e di ascoltare chi parlava, un ascolto in cui dona­vo, cosi come ero, tutto me stesso. Quando ho fatto questo passo la mia presenza nel gruppo è diventata diversa: ero in sintonia con gli al­tri e mi accorgevo di alimentare an­ch'io quella comunione viva che si era stabilita tra noi ».

 

L'esperienza di Felix

Scoprire la comunione come prin­cipio di vita è stato per me trovare veramente la « perla » del Vangelo. Ma questa perla va anche pagata. Me ne sono accorto subito, nella vita del nostro gruppo, iniziata mesi fa.

Ci voleva una conversione inferio­re: cioè la fedeltà a quella scelta per­sonale, fatta da ognuno di noi, che ci aveva portato come le persone di cui parlano gli Atti degli Aposto­li a vivere insieme: la scelta di Dio. Questo equivaleva a dire che ognuno doveva potare tutto ciò che non era secondo Dio. Questo staccar­si da ciò che si è e si ha, assume sempre, a seconda dei tipi, tinte di­verse. Per uno consiste nel mettere a disposizione i suoi beni materiali; un altro invece fa fatica a perdere la pretesa di poter usare il suo tempo come gli pare. Per me invece il fat­to d'inserirmi in questa piccola co­munità metteva allo scoperto quanto fossi ancora attaccato alla mia men­talità svizzera, un po' diversa da quella latina dei miei amici. Ci te­nevo troppo al mio carattere, ma forse ancora di più alla mia personalità « soprannaturale », cioè a quel­lo che di Dio mi sembrava di aver già realizzato in me.

Cosi ho capito ed è stato un capire a volte doloroso che non potevo dire « mio » proprio niente, nessun bene materiale o spirituale, naturale o soprannaturale, ma che dovevo rinunciare a « possedere » an­che me stesso e la mia « storia », se volevo entrare veramente in comu­nione con gli altri. La vera comunione infatti non è soltanto funzionale una struttura sociologica o par­ziale per certe cose o certi mo­menti ma è così totalitaria da chie­derci una spogliazione radicale dì noi stessi. Ma le difficoltà non ci fanno ingranare la marcia indietro, costi quel che costi. Infatti per quel poco che già siamo riusciti a mettere in pratica, abbiamo gustato quella pre­senza di Gesù fra noi, che ci fa essere un cuor solo e un'anima sola.