PERSONALITÀ E COMUNIONE
Pino Petrocchi
Un argomento serio ai cui si parla e si
sparla molto è la personalità. C'è il
rischio di rimanere storditi da tutte queste voci. E' come alla stazione: se
non stai ben sveglio per distinguere l'annuncio che fa per te, va a finire
che perdi il treno o prendi quello sbagliato. A me è successo proprio
questo. E' dopo la scottatura che ho capito che vale la pena mettere bene a
fuoco le nostre idee per capire quale, tra tutti
queste voci, è quella vera.
Tutti gli «
ideali » di personalità in fondo non sono che variazioni fatte
su due temi fondamentali: cioè possono essere tutti ricondotti a due
modelli-base.
La personalità egotistica
E' il modello che riscuote l'approvazione
incondizionata del nostro uomo vecchio e, proprio perché trova una profonda risonanza nella nostra
volontà di potenza, esercita su di noi un fascino profondissimo. E' una
trappola nella quale sono caduto e tantissimi altri, come me, ci sono finiti
o ci finiscono dentro. Essere una forte personalità, si dice, significa
affermarsi sugli altri e dominarli;'significa
riscuotere ammirazione, essere un « leader », possedere la
capacità di tenere in pugno la situazione e di piegarla alla
propria volontà. E' l'ideale dell'uomo titanico, superdotato, che
emerge dalla massa e si impone. E' la
personalità misurata sul successo e sull'ammirazione da parte degli
altri.
Si diventa egocentrici: l'asse di
gravitazione del cosmo è il proprio «
io », ogni sforzo tende a risucchiare gli
altri in questa orbita perché ne diventino satelliti. Ogni azione allora
acquista la stessa traiettoria di un « boomerang » : ritorna sempre sull'« io ». Se nell'altro non
si ricerca che se stesso allora Sartre ha ragione di dire che « amare vuoi dire
farsi amare » (1).
Forse, cosi a bruciapelo, questa forma
di egocentrismo può sembrare
esagerata. Eppure io ho vissuto tante volte il mio rapporto con gli altri secondo questa prospettiva. Il pensarsi e
farsi centro dell'universo è così istintivo e radicato in noi che
siamo tutti, più o meno consciamente, « tolemaici » per
natura. Per convincersi di questo basta fare un
esame di coscienza senza anestetici. La società consumistica in cui
viviamo provvede poi a gettare legna sul fuoco e ogni giorno ci «
bombarda » col mito del superuomo, del divo, del campione,
dell'arrivato: il non plus ultra della personalità è incarnato
dal « vip » (very important
person) e dal « number
1 ».
Ma l'egoismo è una bomba che esplode in mano. Proprio chi fa di tutto per far
colpo sull'altro, per farsi grande ai suoi occhi, finisce per diventarne il
servo. L'egocentrico infatti è come un narcomane: si droga con
l'opinione degli altri e non può più farne a meno. Allora arriva
a vendere anche se stesso per un briciolo di gloria. Non esiste una forma
più nera di alienazione e di schiavitù. Chi semina egoismo raccoglie
angoscia. Se le cose stanno così Sartre
l'azzecca quando fa dire ai suoi personaggi: « il boia è ciascuno
di noi per gli altri due »(2) e « l'inferno sono gli altri »
(3). Il punto d'arrivo di chi crede di formarsi una personalità
affermandosi sugli altri è perciò un « io » a pezzi,
angosciato e nevrotico: partito a cavallo è tornato a piedi!
Anche la psicologia moderna, la filosofia e
il « buon senso » comune sono
unanimi nel diagnosticare che l'egotismo è una malattia della personalità. Infatti « da qualunque
punto di vista si analizzi la psicologia della (personalità)
nevrotica, si arriva sempre a un denominatore comune: l'egoismo »(4).
La personalità autentica
Se ogni atteggiamento egoistico è condannato all'autodistruzione allora
bisogna farsi furbi e imboccare la direzione opposta: si tratta di non vedere
più l'altro in funzione di noi, ma vivere noi per l'altro. La personalità è proporzionale alla
capacità di amare: « l'essere è amore, un essere
è nella misura in cui ama » (5). Con questo s'è detto tutto
e non s'è detto niente, perché si può sempre obiettare:
« ma di che marca d'amore parli?». Non è necessario infatti essere degli specialisti per capire che non
c'è un prodotto più sofisticato e reclamizzato di questo. Oggi
sotto l'etichetta amore si contrabbanda tutto. Perciò, se non si vuol
fare un discorso equivoco, occorre stabilire qua l'è l'amore genuino.
L'unica verifica sicura è data dall'assaggio:
è il sapore che ti rivela la qualità buona. Se non l'hai sperimentato
mai in prima persona non sarai in grado di riconoscerlo.
Ma fermo restando tutto questo, penso che
almeno si possano indicare alcuni segni che ne garantiscono l'autenticità.
Io credo che amare veramente significhi donarsi
e aprirsi all'altro per entrare in comunione con lui. Donarsi con ciò che si è e
si ha per arricchire quel « tu » che ci è dinanzi: un
dono che è al di là di ogni interesse. Amare è volere
il bene dell'altro. Ma, dato che l'uomo è uno « spirito incarnato
», il dono di sé non può limitarsi ad una dimensione,
quella spirituale o quella materiale soltanto. Amare è un darsi per
creare una comunione totale (che coinvolga l'uomo completo, con tutto il
suo essere e il suo avere) nella quale l'« io » e il « tu
» si ritrovano uniti nel « noi ». Ma amare è anche un
aprirsi, cioè farsi ricettività ed
ascolto nei confronti dell'altro, perché non c'è comunione
dove c'è amore a senso unico.
Se l'analisi è giusta possiamo affermare che la « genuinità e
la perfezione dell'amore sono direttamente proporzionali alla
capacità di donarsi e di « farsi » l'altro: in una parola,
di entrare in comunione. Riprendendo il filo del discorso vorrei aggiungere
che anche gli psicologi sono d'accordo nel dire che la « statura »
di una personalità si misura col metro dell'amore. Tanto è
vero che si definisce persona mentalmente sana solo quella « capace di
amare e di condividere l'amore di un'altra » (6) e si afferma che
costruirsi « dipende dal l'imparare a fare sempre
di più con gli altri e per gli altri » (7).
La personalità è grande tanto quanto è capace di farsi
comunione.
Chi ama guadagna sempre
Non è
vero d'altronde che il nostro
amore costruisce qualcosa solo quando trova la
risposta dell'altro.
Questa mentalità ci porterebbe a proclamare fallimento e ad alzare bandiera bianca tutte le volte che sbattiamo il naso
contro l'incomprensione e l'ingratitudine.
No. «
Se tu doni amore, sei tu stesso che ci guadagni
» dice Agostino (8). Infatti « la carità è
sempre bilaterale, anche quando l'altro non dà niente, perché ci
fa il dono di promuovere noi stessi nel bene amandolo » (9).
La ragione « metafisica » di questo fatto è che l'amore, prima
ancora che una legge antropologica e psicologica, è una
legge dell'essere. « Chi dice che il fondo dell'essere è la
materia, chi lo spirito, chi l'uno: hanno tutti torto. Il fondo dell'essere
è la comunione » (10).
Amare è sapersi perdere
L'amore, insomma, implica non il possesso,
bensì l'affermazione dell'altro:
quindi esige un uscire da sé, un dimenticarsi per cercare innanzitutto
il bene dell'altro. Comporta in altri termini un
perdersi. Questa è una legge naturale necessaria, tanto che S. Tommaso
ne ha potuto dare la dimostrazione filosofica (11). Ma prima ancora
è un'esperienza universale e costante: « non si vive nell'amore senza dolore» (12). Non fa meraviglia
allora che chi prende le cose sul serio e si butta a vivere per l'altro prima o poi si trovi davanti un problema.
Perdersi... ma fino a che punto? In altri termini qual è il limite
oltre il quale rinunciare a se stesso per essere comunione diventa masochismo e
alienazione? E' un problema che ha fatto rompere la testa a tanti
pensatori, per quanto la risposta l'abbia data il V. T.: « ama il
prossimo tuo come te stesso ».
Fin qui la cosa può essere ammessa e giustificata dalla nostra
ragione. Ma Gesù è venuto a portarci un comandamento nuovo e
a quelli che lo accettano e lo seguono ha dato un'altra misura.
La misura di Gesù
«
Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi » (Gv. 13, 34). Come io... perciò non basta amare l'altro come
sé stessi, ma più di sé stessi, pronti anche a «
donare là nostra vita per i fratelli » (1 Gv. 3, 16). La ragione,
per quanto cerchi di alzarsi sulla punta dei piedi, non riesce a vedere il
perché, la logica di questo discorso. Se non arrivasse in aiuto la Fede
a farle riconoscere Dio nell'altro,
ci affogherebbe dentro.
A questo punto per essere più concreto vorrei dire la mia esperienza. Quando ho capito
che tutto il cristianesimo si sintetizza nel comandamento nuovo, mi sono
lanciato a vivere, deciso a compromettermi completamente per Gesù
nell'altro. Cosi quest'anno, dopo l'esperienza della Scuola Sacerdotale, mi
sono ritrovato a vivere, con tutte le carte in regola, con altri cinque
compagni. E, dato che « acqua e chiacchiere non fanno frittelle »,
la prima cosa che abbiamo fatto trovandoci insieme
è stato di mettere in comune anche le nostre cose e il
portafoglio, rinunciando a quel senso di indipendenza che la
gestione autonoma di
questi beni ci garantisce.
Mi sembrava di aver fatto un passo eroico e invece non era che l'inizio. Sì, perché i guai sono cominciati quando mi sono accorto che vivere secondo lo
stile di Gesù mi costava molto più caro. Rinunciare «
all'uomo vecchio », ai proprii beni
materiali, mettersi a disposizione dell'altro, in fondo non sono cose
ultra-difficili.
Il brutto è
venuto quando mi sono accorto che per vivere la
comunione mi toccava perdere proprio tutto, anche il mio « io
», i miei talenti... Allora mi sono sentito imbrogliato: « la
mia personalità, che avrebbe dovuto crescere proprio nella
comunione, dove va a finire? ».
La personalità e il Dio Uno e Trino
La risposta l'ho trovata nella vita
trinitaria. Mi son detto: siccome siamo fatti a
immagine e somiglianza di Dio, allora la nostra
personalità è vera nella misura in cui rispecchia l'essere di
Dio.
La teologia delle relazioni afferma che nella
Trinità ogni Persona esiste perché
è « ad ». Il Padre, cioè, (lo stesso vale per il
Figlio e lo Spirito Santo), è « Io » divino in quanto non
vive per se stesso, ma è dono totale. Se per ipotesi assurda Egli
volesse isolarsi anche un solo istante, si annullerebbe. « Il Padre
senza il Figlio non può essere Dio, né possedere la natura
divina; parimenti Padre e Figlio senza lo Spirito Santo » (13). Il
Padre è Personalità assoluta proprio perché è un
infinito darsi in pura e radicale comunione. « Se il Padre si riservasse
anche una minima porzione di realtà senza comunicarla, ciò
costituirebbe per lui la morte » (14).
In Dio dunque ogni Persona E' perché Non-E' per se stessa;
è la vita perché è la Morte di ogni autoaffermazione
individualistica.
La conclusione di tutto il discorso non
poteva essere che una: il mio « io » sarebbe
cresciuto vigoroso e sano proprio nella misura in cui mi sarei perduto per Dio
nell'altro. Adesso mi sembrava pensino evidente
che l'unico binario « per diventare perfetto come il Padre che
è nei cieli » era di farmi « vuoto » d'amore.
Questa è la via di Maria. Costruire al di fuori della comunione
è non costruire; conservare qualcosa per sé, come Anania,
significa farlo fradiciare. E' la dialettica del Vangelo:
« chi cercherà di mettere in salvo la propria vita la
perderà e chi la perderà la conserverà » (Lc. 17, 33).
(1)« L'Etre
et le Néant,
(2) Huis-Clos. I, 5, Théatre, Paris 1948, p. 147.
(3) Ibid.,
p. 182.
(4) F. Caprio, II vero Psichiatra, ed. Longanesi,
1969, pp. 102, 114.
(5) G. Mardiner, Conscience et amour,
essai sur le « nous »,
(6) F. Caprio, op cit., pp. 67, 245.
(7) Ibid.
(8) Citato da A.D. Sertillanges, L'Amore, ed. La Scuola, p. 58.
(9) M.F. Sciacca, La
Libertà e il Tempo », ed. Marzorati, 1965,
p. 106.
(10) J. Daniélou, Trinità e Mistero dell'esistenza, ed. Queriniana, 1969, p. 37.
(11) Sent. III, d.
27, I ad IVum.
(12) Imitazione di Cristo, IH, 5.
(13) M.B. Scheeben, / Misteri
del Cristianesimo, ed. Morcelliana, 1960, p. 118.
(14) M. Schmaus, Dogmatica
Cattolica, ed. Marietti, III edizione, vol.
I, p. 416.