VITA COMUNE E COMUNIONE
a cura di José
Durán y Durán
Nelle settimane scorse ho avvicinato studenti di teologia di ben
sei nazionalità diverse d'Europa, prendendo, come tema della nostra conversazione, la comunione dei beni
spirituali e materiali.
Mi sembra che la diversità delle loro
risposte ed esigenze offra un quadro abbastanza reale, su scala internazionale,
della situazione attuale nei confronti di un aspetto cosi centrale ed
importante della vita cristiana, non solo per quelli che dovranno esserne i
testimoni più genuini, ma per tutti i cristiani.
Alla prima domanda se ci sia un rapporto tra esigenza di comunione
e la crisi esistente nei seminali, la risposta ha preso le mosse dalla
constatazione che nelle diocesi non esiste autentica comunione; la situazione
diventa, poi, più seria se si considera che ci « sono
molte difficoltà: oltre ai preti divisi tra loro, col vescovo e coi laici,
c'è il fatto che non abbiamo mai vissuto questa comunione». In
altri paesi, invece, la comunione viene confusa con
« l'impegno sociale della Chiesa ». «Il prendere
coscienza della crisi, della ambiguità, e dei tentativi che travagliano
l'attuale struttura ecclesiale è importante, ma non basta. Per evitare
che queste difficoltà continuino " in
eterno ", credo sia necessario cominciare a cambiare mentalità
fin dal seminario. Perciò vi chiedo: come vivete tra
voi la comunione?»,
« Una certa
comunione che ho avuto occasione di sperimentare fuori è diminuita quando mi sono inserito in seminario. Qui ognuno segue
i propri interessi di studio. Si avverte una fuga».
«Mi sembra che qui
non sia possibile avere una comunione profonda fra tutti eli studenti, e inoltre sarebbe un
illusione cercarla., perché, oltretutto, ci manca il tempo ».
« Qualcosa
però si fa. In seminario c'è la possibilità che ogni
studente abbia un impegno concreto per il bene
della comunità. Poi la responsabilità non ce l'ha
soltanto il rettore. Ci sono degli studenti e prefetti che insieme col rettore
sono responsabili per la vita comunitaria ».
« Si può
parlare di comunione tra noi in quanto partecipiamo insieme alle messe
celebrate in Seminario e cerchiamo di essere aperti l'uno verso
l'altro. Ma non credo che siamo una comunità nel senso propriamente cristiano ».
E' evidente che la parola « comunione
» assume qui un significato puramente esteriore, organizzativo,
tecnico. In seminario la vera comunione sembra impedita dagli interessi
individuali di studio, dalla mancanza di tempo, dal numero massimo che
compone la comunità, dalla paura di perdere qualche valore personale,
dal non sapere con sicurezza in quale misura si dovrebbe realizzare e,
inoltre, perché « oggi più che mai è
possibile nascondersi dietro una maschera ».
Allo stesso tempo, però, gli studenti
hanno coscienza che questa comunione è una meta, alla quale, come
cristiani, si deve arrivare; « che bisogna smetterla di fare teorie,
ed è ora di incominciare da noi stessi ».
Come realizzate in concreto la comunione dei beni spirituali?
« Per prima
cosa abbiamo cercato di cambiare la struttura delle pratiche spirituali
del seminario. Adesso non si fanno più, come una volta, atti comunitari
in massa; ma si sono creati circoli secondo i corsi. Questo è
stato un segno della esigenza che tutti noi sentiamo, di creare una
comunione. Abbiamo inoltre sentito di doverci trovare in piccoli gruppi
spontanei. L'importante, in questi gruppi, è di essere insieme;
fare meditazione, o qualunque altra cosa, insieme ».
« Un'altra
iniziativa è stata la creazione dei cosiddetti "gruppi spirituali"
che si radunano qualche volta ogni mese: li ognuno
parla della propria esperienza spirituale, senza fare disquisizioni esegetiche ».
Nei vostri incontri spirituali, vi fermate alla comunicazione di
esperienze o andate oltre, fino alla comunione anche dei beni materiali?
«Mi sembra che
questo problema non si ponga ancora, perché non siamo abbastanza
maturi. Dobbiamo creare una comunione inferiore e soltanto in forza
di questa potrà avere senso quella più
esteriore, materiale. Ci vuole ancora un bel pezzo di strada per arrivare
fin li ».
« Penso che
questo non sia nemmeno necessario, perché ci sono differenze, ma
tutti hanno almeno il sufficiente ».
« una
difficoltà per la comunione dei beni materiali è che io dipendo
economicamente dai genitori, perciò non posso disporre dei miei
soldi... Più tardi, quando sarò forse
viceparroco, avrò un mio stipendio, di cui potrò disporre
liberamente. Adesso lo posso fare soltanto parzialmente ».
Ho cercato allora di sapere come si attua, in questi
incontri, la comunione dei beni materiali, anche se parziale.
Hanno risposto: « se qualcuno vuole qualcosa da me,
gliela devo dare »; « devo essere aperto alle
necessità dell'altro »; « dobbiamo esercitarci per
una comunione futura
che riguarderà anche le cose materiali »;
«e posso rispondere con amore soltanto quando
rinuncio a qualcosa di mio... ».
Mi sembrava non bastasse. Ho detto chiaramente che per me era
importante che la comunione fosse fatta totalitariamente non soltanto da «
mezzo uomo », cioè limitata al piano spirituale.
Come potrebbe il sacerdote, chiamato ad essere costruttore
della comunità, realizzare intorno a sé un'autentica comunione
cristiana senza che egli stesso l'abbia sofferta
e vissuta prima? Affermavo poi, di non credere tanto facile passare da preti ad
una comunione totale senza essere stati
già da prima totalitari, anche se nell'ambito delle
possibilità di studenti. Quello che conta, in definitiva, da seminaristi
non è tanto la quantità ma la
qualità della comunione.
A questo punto mi sono trovato ad essere io l'intervistato, dato
che mi presentavo come uno studente di teologia che fa vita in comunione
con altri cinque.
«Mi prendete di
contropiede — ho risposto — ma posso dirvi
egualmente quanto stiamo realizzando.
Noi ci troviamo in una condizione
simile alla vostra, perché riceviamo o una borsa di studio o
una certa somma dai nostri genitori. Tutto è cominciato dal momento in
cui ci siamo accorti che la nostra comunione si era realizzata solo su un
piano occasionale: ci limitavamo ad essere insieme senza però
arrivare ad una comunione nell'ambito delle
nostre possibilità di studenti, ma totalitaria.
All'inizio però non siamo partiti da una comunione dei
beni materiali, ma da quella dei beni spirituali, perché se tra di noi non c'è prima di tutto « la mutua e
continua carità » non ha nessun senso essere insieme. Solo
cosi siamo arrivati a mettere anche le nostre cose in comune.
In noi si è attuata una progressiva
maturazione che ci sta facendo tuttora scoprire nuove mete da raggiungere.
Così, fino a che ognuno di noi non ha effettuato la sua decisione
personale di seguire Gesù, siamo restati
nell'atteggiamento del giovane ricco.
Solo quando ciascuno ha acquisito una coscienza comunitaria
scoprendo l'altro nella radicalità delle sue
esigenze spirituali e materiali, e cominciando a sentirlo parte di
sé, è venuta meno spontaneamente la tendenza di distinguere
il « mio » dal « tuo ».
E' caduta, perciò, la difficoltà della dipendenza
economica dalla famiglia, cosi come il timore dello sfruttamento da parte di
chi apportava poco o mente.
Abbiamo fatto l'esperienza simile a quella della prima comunità
cristiana, nella quale ciascuno anzitutto accoglieva il messaggio del
Vangelo e aderiva con la propria vita al Cristo. In un secondo momento,
dice la Scrittura, « mettevano i loro beni ai piedi degli Apostoli
». Sforzandoci di fare cosi anche noi,
vediamo che possiamo arrivare molto più in là di quanto
abbiamo fatto finora negli ambienti in cui ci siamo trovati.
Allo stesso tempo stiamo scoprendo che questa vita è
possibile in tutti gli ambienti e anche con cento e più persone,
soltanto che questa comunità dovrebbe vivere in un modo nuovo.
Si tratta evidentemente di una tra le molte esperienze che si stanno facendo, ma sin dall'inizio abbiamo cercato
di eliminare ogni pregiudizio
che impedisse di preparare le
basi d'un futuro presbiterio.
Non ci interessa paragonare la nostra vita con quella di una «casa
di studenti » per concludere «... tutto sommato, siamo meglio
noi»: questo è un alibi per sfuggire alle
responsabilità di autocontestarsi. Noi dobbiamo piuttosto
prendere come modello sul quale « misurarsi » il cenacolo.
E nemmeno ci passa per la testa l'obiezione che ognuno di noi
si è trovato in una comunità senza averla scelta. Anzi, partiamo dalla verità che come
cristiani ci troviamo sullo stesso piano. Ogni cristiano non sceglie i
cristiani con i quali vuole realizzare qualcosa, cosi come avviene tante volte
in Seminario dove si creano dei gruppi per interessi particolari, per
simpatie; ma i cristiani si trovano tra loro perché vogliono portare
avanti il Vangelo. E ancora meno ci è possibile, per realizzare la comunità,
aspettare di conoscere gli uomini con cui viviamo, vedere come pensano, come si
comportano, quali siano le caratteristiche delle loro nazioni e dei loro
ambienti culturali. No, la comunità si costruisce proprio nell'atto
di donarsi ».
José Durán y Durán