NEL PRESBITERIO: DINAMICA INTERNA

La nostra esperienza non ha nulla di eccezionale, di particolar­mente grande; ci sembra tuttavia un'opera di Dio, e per questo sen­tiamo di poterla comunicare.

E' da un anno circa che faccio vita comune con il viceparroco e devo subito dire che questa è una delle esperienze più profonde nella mia vita sacerdotale.

Mi spiego. Io sono individua­lista un po' per costituzione e un po' per formazione. Durante il se­minario, soprattutto negli anni di liceo — chiamati allora gli anni decisivi della nostra esistenza — io avevo letto e sottolineato con cura un libro di don Gnocchi, che mi pare si intitolava: « La restau­razione della persona umana ». Devo dire che praticamente ho cercato di costruire la mia perso­nalità umana e sacerdotale pro­prio su questo libro, che ho vera­mente divorato, e su questi prin­cipi ho impostato gli anni di teo­logia e i primi anni di sacerdozio.

Don Gnocchi, in quel libro, di­ceva cose veramente belle, ma forse in una chiave particolare — almeno io l'avevo interpretato in una chiave particolare, diciamo nella chiave di un certo indivi­dualismo —.

Quando usci il decreto « Presbi­terorum ordinis », subito l'ho pre­so male, soprattutto quel capitolo che riguarda la vita di unità dei presbiteri; l'ho preso cioè facendo delle riserve, in particolare per quanto riguarda la terza forma, la più perfetta della vita comune, che è la coabitazione. Mi sono detto: « come sacerdote diocesa­no non sono obbligato a questa forma di vita, e se proprio avessi voluto far vita comune, sarei en­trato tra i Cappuccini...

Ma — gioco di Dio — proprio in quel periodo ho conosciuto que­sto movimento dei Focolari, e in esso il movimento sacerdotale, e direi che da quel momento Dio ha iniziato una terapia tutta partico­lare dentro di me: la terapia della « disintossicazione » da un falso concetto di personalità.

La terapia è continuata alla Scuola Sacerdotale; ma è certo che la cura più disintossicante è stata la vita comune col viceparroco. Vi dico brevemente cosa è stata e cosa è attualmente questa espe­rienza di comunione con Pio. E' una cosa anche molto semplice: « è un continuo diuturno eserci­zio di carità». Questa è la nostra esperienza.

Fin dai primi giorni ho dovuto iniziare questo esercizio, quando ho saputo chi sarebbe venuto da me. Lo conoscevo già da prima, e sapevo come lui fosse tanto aper­to ai giovani, e sentisse l'urgenza di fare comunione con tutti... e avevo un po' paura di quest'uomo. Però ho cercato di vederlo subito con fede e dalla prima sera, il giovedì santo 1970, ci siamo detti: « l'unica cosa che vogliamo fare è amarci l'un l'altro, volerci vera­mente bene, in modo che ci sia Gesù in mezzo a noi, Gesù Sacer­dote ».

E abbiamo coniato anche uno slogan: « Né quello che vuole Giu­lio, né quello che vuole Pio, ma quello che vuole Dio ».

Amare, amarsi, volersi bene, so­no tante belle parole, ma soprat­tutto un grande mistero di dolo­re, e poi anche di amore, di gioia.

Qui ho veramente riscoperto co­sa vuol dire amare. Ne avevo una idea molto vaga prima, peggio an­cora avevo la presunzione di sa­per amare. Sacerdote da più anni, dedito alla cura d'anime, credevo veramente di essere un prete in grado di amare. Poi ho visto che non avevo capito niente di cosa vuol dire amare sul serio e da allora il segno sensibile di come doveva essere il nostro amore è diventato Gesù Crocifisso.

Per noi, forse più per Pio che per me, perché lui è cappellano e io parroco, amare vuol dire per­dere sé stessi, pronti a donarsi completamente all'altro perché ci si realizzi secondo il piano che Dio ha su di noi. Io dovevo met­termi come in un atteggiamento di venerazione davanti a lui, o me­glio, davanti al Dio presente in lui, e lui, da parte sua fare la stessa cosa.

Ecco un episodietto, una scioc­chezza. Ricordo che, a Natale, ave­vamo preparato insieme l'omelia. Era il primo Natale che celebra­vamo nella nuova parrocchia, e normalmente è il parroco che tie­ne l'omelia, che fa gli auguri alla comunità. Anche don Pio, tuttavia, aveva questo vivo desiderio, di co­municare alla comunità il mistero del Natale. Allora l'ho lasciato pre­dicare alla prima, alla seconda, al­la terza e anche alla quarta Messa. E sono stato in chiesa a sentire lui, per fargli unità.

Poi c'è stato un bel commento da parte di alcuni parrocchiani, che ora non sto a riferire. Un fat­terello piccolissimo, che però ci ha fatto capire cosa vuol dire amare.

C'era poi questo: don Pio è un giovane molto dotato, anche per le specializzazioni... io invece di specializzazioni non ne ho; sono un parroco normale del Trentino. In parrocchia la differenza si no­ta; però, e questo è bello, tutto si è andato armonizzando nella nostra vita comunitaria, per cui non mi bloccava il fatto che lui fosse più intelligente e più dotato, che presentasse meglio la Parola di Dio, e riuscisse di più tra i gio­vani; il mio compito era fare in modo che lui si esprimesse sem­pre meglio, anche se non sempre ci riuscivo.

Un'altra cosa ancora: nella no­stra vita di presbiterio ho capito anche che amare l'altro vuol dire cercare di non confonderlo con Dio, in altri termini amarlo senza mai appoggiarsi a lui. E' un aspet­to interessante della nostra espe­rienza che ho scoperto in questi ultimi mesi. So che il Concilio dice che la forma più perfetta di unità fra i sacerdoti è la coabita­zione... però a un certo punto io ho avvertito che anche questa for­ma di unità non mi riempiva com­pletamente e lo dicevo anche al Vescovo nel Consiglio Presbiterale: « sento che neanche il presbiterio più perfetto riempie pienamente il mio cuore, e qualche volta vor­rei evadere da questa unità». Tut­to questo però si è rivelato una grazia, perché ho capito che quella è una situazione provvidenziale nella quale tu senti il limite di tutte le persone e di tutte le cose. E' Dio che opera questo perché vuole svuotarti completamente da tutto e riempirti di sé.

Penso allora che il prete, il quale vuol vivere in presbiterio, in uni­tà, deve a un certo punto saper stare in piedi da solo, deve saper stare solo come Gesù in croce.

Un giorno queste cose le ho det­te a don Pio, e lui non s'è offeso, e poteva anche farlo. Al contrario un giorno mi capita dalla libreria — questo cappellano contestata­rio — con un'immaginetta, nella quale sta scritto: « sento una voce che mi chiama verso l'infinito». Era una conferma che ci eravamo capiti anche su questo punto, tan­to delicato, nella vita di unità.

Concludendo direi: la nostra non è una vita molto facile, anche per­ché siamo caratteri diversi, però possiamo dire una cosa: che ve­ramente noi due ci vogliamo be­ne, e di questa esperienza di uni­tà tra preti, prima mai fatta, rin­grazio Dio.

Giulio P.