Genesi di un nuovo presbiterio

« Noi abbiamo iniziato cosi: lo scorso novembre si era tenuto al Centro Mariapoli di Rocca di Pa­pa un convegno di sacerdoti e c'era un bel gruppo di siciliani. L'incontro ha inciso profondamen­te nell'anima di tutti, lasciandovi, con il ricordo di una forte espe­rienza d'unità, l'impegno di conti­nuarla.

« Tornati in Sicilia abbiamo in­cominciato con degli incontri set­timanali, e sperimentando in essi una grazia particolare, li abbiamo continuati con fedeltà. Però erava­mo anche tanto impegnati nelle parrocchie. Io sono parroco e gli altri pure parroci o viceparroci. Gli incontri erano alla sera, dopo aver finito tutti i nostri impegni di lavoro; e per dare possibilità ai sacerdoti di venire ci si sposta­va: una volta si andava ad Avola, un'altra a Florida, a Siracusa, o in altre città. Scoprivamo, stando in­sieme, che tante cose si risolve­vano, cose che o per mancanza di tempo o perché non si poteva fare quella unità che si doveva, rima­nevano insolute. Una volta abbia­mo scoperto che un sacerdote non si faceva vedere per tutta la set­timana perché, senza i soldi della bolletta, gli avevano tagliato i fili del telefono, e perché la macchina aveva avuto un investimento ed era ferma dal carrozziere, in attesa di essere pagata. Un altro non riu­sciva a risolvere una situazione in parrocchia e noi — dopo una cena fatta verso un'ora abbastanza tar­di — pigiati in macchina, cercava­mo una linea che non veniva fuori.

« Tutto questo era per noi una indicazione continua che ci eviden­ziava la necessità di poter avere stabilmente Gesù in mezzo a noi, che è luce e sapienza, come frut­to della nostra unità: il presbite­rio.

« Una sera — era martedì, il gior­no in cui ci incontriamo — ci siamo ricordati della preghiera di Gesù: " se due di voi sulla terra si mettono d'accordo per doman­dare qualunque cosa, sarà loro concessa dal Padre mio che è nei cieli " (Mt. 18, 19). Eravamo in set­te — la cena da poco terminata — e abbiamo pregato: " ma se Tu vuoi che i sacerdoti vivano insie­me, se vuoi esprimerti al mondo attraverso la loro unità, perché non ci dai la possibilità di averla stabilmente nel presbiterio? ".

« E così abbiamo trovato vicino alla parrocchia di uno di noi un appartamentino. L'abbiamo affitta­to costatando che era pure facile trovare i soldi: eravamo sette, ba­stava mettere ciascuno cinque mi­la lire al mese.

Il due maggio io e il mio vice­parroco abbiamo lasciato le fami­glie, ci siamo presi i bagagli e sia­mo andati in questo appartamen­to, dove non c'era niente. Solo un tavolo, sei posate, due letti. Ci siam detti: " dobbiamo iniziare”.

Ma la cosa più tremenda è stata quando le nostre mamme ci han­no visto uscire con le valigie, con le lenzuola, per andare in un'altra casa. Mi ricordo che la mamma mi ha detto — è da quindici anni che sono sacerdote e per quindici anni sono sempre stato con lei —: « Ma questo l'avresti dovuto fare quindici anni fà, non adesso! ». An­che il papà dell'altro sacerdote, quando ha visto il figlio scendere le scale con la valigia, si è messo a piangere e ha detto: « Ma vera­mente te ne vai?».

Ma per noi ormai era necessa­rio andare perché sentivamo che qui stava la salvezza dell'unità dei sacerdoti, ed era per noi chiaro l'ideale della nostra vita: nell'es­sere insieme vivere costantemente la carità scambievole.

Siamo arrivati là e ricordo che la prima sera è venuto anche un sacerdote di Avola (25 km di di­stanza) e per alloggiare lui uno di noi ha dovuto ritornare in casa per dormire, perché avevamo due letti ed eravamo in tre. Ma la mat­tina dopo lui lasciava un biglietto che diceva: « Carissimo Paolo, nel­la casa manca tutto, però io ci ri­tornerò sempre perché qui c'è una cosa che le nostre case, le nostre parrocchie, il mondo non possono dare: c'è Gesù ».

Noi volevamo anche la conferma di Dio e ci siamo detti: « se Dio vuole che iniziamo questa esperien­za di unità fra sacerdoti, lui ci deve mandare tutto. Ed è arrivato tutto: sette letti, quanti siamo noi che pernottiamo, le coperte, le len­zuola, le reti, tutta la cucina con tutto l'arredamento. La prima se­ra che abbiamo mangiato manca­vano due posate e dei bicchieri cosi che ci siamo serviti del me­stolo e di alcune tazzine; però c'e­ra una gioia in quella tavola che chi non l'ha provata non può ca­pirla.

Quello però che più mi ha rivo­luzionato è stato l'atteggiamento della comunità parrocchiale. Veden­doci fare questo, non è che ci ha giudicato; ha detto: « questi avreb­bero tutte le comodità, se stesse­ro nelle proprie famiglie; noi stes­si dopo il lavoro facciamo in fondo una vita borghese, mentre loro de­vono farsi da mangiare, devono pulire i piatti, scopare la casa... ». Questa è stata una testimonianza cosi forte che i parrocchiani — i quali vanno all'essenziale più di quanto pensiamo — ci hanno da­to tutto.

Siamo in sette; due, stabili, la­voriamo in parrocchia fino alle 21,30, e poi siamo nella casetta fi­no alle 7,30 del mattino. Arrivati a casa facciamo tutto quello che fa una famiglia quando si incon­tra dopo una giornata di lavoro; mentre prepariamo la cena, men­tre si apparecchia io chiedo al vi­ceparroco: « Paolo, come è anda­ta? », perché durante la giornata ognuno ha le sue specifiche atti­vità e questo, invece, è un momen­to in cui si è assieme. Possiamo dire che le ore più belle, quelle in cui la nostra anima si è fatta una, le abbiamo avute mentre pre­paravamo la cena o il pranzo, e tante cose si sono risolte — nella verità — in questa unità cosi sem­plice, fatta di piccole cose. Ci di­cevamo una sera: « trovarsi qui per una qualche cosa umana è da pazzi; in canonica avevamo tutto. Siamo qui per amarci, per strin­gere tra di noi un vincolo che de­ve essere più forte del vincolo na­turale, se no è più logico tornare a casa».

Ogni sera poi, ne arriva un al­tro da - venticinque chilometri; ce­na e rimane con noi, ci porta la vita della sua parrocchia e se ne ritorna con questa carica di Gesù in mezzo.

Gli altri quattro ogni settimana passano un giorno in questa casa. Cosa facciamo? La cosa più im­portante che ci siamo prefissi di fare, ed è la ragione d'essere del nostro presbiterio, è amarci a vi­cenda, è il « farci uno », e ci si fà uno stando il più possibile insie­me, saltando magari il riposo o la­vorando di più, senza togliere nien­te al nostro ministero sacerdotale.

Tra le tante esperienze, signifi­cativo è che i sacerdoti che ven­gono a visitarci trovano la norma­lità di una famiglia che vuole vi­vere, senza schemi, il naturale con il soprannaturale.

Un sacerdote che aveva rotto col parroco e col vescovo per princi­pi diversi, venuto un giorno a vi­sitarci, alla fine ha sentito di an­dare a riconciliarsi prima col par­roco, e poi col vescovo. E, riferen­doci la gioia del vescovo alla no­tizia della ristabilita unità col par­roco, noi abbiamo concluso che per questa realtà, il presbiterio, val la pena affrontare tutte le dif­ficoltà e mantener fede all'unico Ideale, Gesù Abbandonato, chiave di tutta questa gioia, di tutta que­sta vita.

Paolo Gallo