Alle radici dell'ingiustizia

- esperienza -

Guardando al mio passato vedo che tutto il succedersi apparentemen­te confuso degli avvenimenti rivela in realtà un cammino ben preciso, stabilito da Dio, per condurmi ad una conoscenza e ad un amore sem­pre più puri.

L'aver trascorso la mia infanzia in uno dei quartieri più popolari di Torino ha fatto sì che il senso della lealtà, della giustizia ed il desiderio di lottare per qualcosa, si incul­cassero in me in modo profondo.

L'incontro con l'Azione Cattolica fu il mio primo incontro con Dio: ad essa dedicai tutto il mio tempo libero. Proprio perché avevo trascor­so i primi anni della adolescenza in stretto contatto con gli altri ragazzi del mio quartiere, conoscevo molto bene le difficoltà e i pericoli che il crescere in mezzo alla strada nascon­deva. Per questo mi dedicai all'ora­torio e, organizzando tornei di cal­cio, adunanze ed altre attività paral­lele, cercavo di collaborare a disto­gliere i numerosi ragazzi della zona dalla strada. Molti venivano, gioca­vano, magari partecipavano anche al­l'adunanza, ma tutto finiva 11 e ogni volta non restava che l'amarezza del fallimento. Allora, con un altro ami­co, fondammo un reparto Scout. La cosa, per la sua novità, attirò al­cuni, specialmente i più scalmanati. Ce la misi tutta per conciliare lo studio con le numerose attività, ma ben presto le difficoltà mi misero in urto con il caporeparto e abban­donai tutto: i mezzi erano validi, le strutture efficienti, ma tutto ciò non soddisfava le esigenze della mia anima.

Entrai allora nella S. Vincenzo. I problemi sociali nella mia zona sono schiaccianti: anche se sembra incre­dibile, intere famiglie sono denutri­te, la maggioranza dei capofamiglia sono sottoccupati o disoccupati e numerosissimi sono gli ammalati. I casi che incontravo nelle visite set­timanali sconvolgevano la mia sensi­bilità e risvegliavano in me l'antico spirito di lotta. Organizzammo un « Armadio del povero », per procu­rare indumenti a coloro che ne era­no privi, ed insieme ad alcuni com­pagni di scuola organizzai una mas­siccia raccolta di carta nella zona; mi interessai inoltre alla sensibilizza­zione dell'ambiente. Ma i problemi restavano e schiacciavano le nostre misere forze. Io, come cristiano, que­sti problemi li sentivo, per questi problemi mi arrabbiavo, e quello che più mi faceva soffrire era che gli altri sembravano ignorarli.

Anni prima avevo conosciuto il Movimento dei Focolari; la loro spi­ritualità mi attraeva, ma il mio trop­po attivismo mi aveva impedito di approfondirla per cui giudicavo l'at­teggiamento dei suoi aderenti assen­teista ed esaltato. Continuavo a fare tante cose e in esse cercavo di ca­lare Dio, ma in fondo ero sempre io che facevo e disfacevo, che mi arrabbiavo predicando la carità, che creavo disunioni predicando l'unità. Anche a scuola, l'ambiente borghese ed assenteista che imperava a di­spetto del carattere religioso dell'isti­tuto, mi mise profondamente in cri­si. Erano i tempi della contestazio­ne, ed io per essere coerente anche in questo settore polemico a non finire, mi urtai con altre persone, deciso in nome del mio idealismo a calpestare tutto e tutti-

Intanto l'adolescenza con i suoi ideali era sempre più lontana; lo scontro con la realtà della vita sgre­tolava ad una ad una le mie con­vinzioni e un profondo scetticismo prendeva il posto del primitivo idea­lismo. L'agonia lunga e dolorosa di una persona che mi era molto cara cominciò ad insinuare in me l'im­pressione sempre più viva che Dio non fosse Amore, ma solo un pa­drone spietato. La realtà intorno a me non faceva che confermare que­sta mia tesi; tutti soffrivano: la povertà, le malattie, la mancanza di amore schiacciavano me e gli altri col loro peso, per cui la felicità pa­reva sempre più lontana ed utopi­stica; l'unica cosa che mi rimaneva era cercare di godere le piccole cose che la vita può dare. Fu in questo periodo, dopo gli esami di abilita­zione, che mi recai in Danimarca, per lavorare nelle comunità dei cen-ciaioli di Emmaus. Non era una espe­rienza nuova per me, e in realtà non mi interessavano i fini umani-tari che quel movimento si propone; mi interessava solo di evadere dalla realtà quotidiana che si presentava sem­pre più vuota. Furono giorni in cui cercai di vivere la libertà più sfre­nata, succhiando avidamente tutto ciò che ogni singolo giorno mi poteva dare, senza più pensare a Dio, ai miei principi morali e a tutto il resto. Il continuo vagabondare, l'in­contrare gente nuova, paesi diversi, riempivano talmente le mie giornate che non restava il tempo di pensare.

Varcata però la frontiera italiana mi accorsi che le belle foreste sve-desi, il calmo mare danese, i canali di Amsterdam, i monumenti di Pra­ga, le serate nei night clubs, erano destinati a diventare ricordi, che ben presto la realtà di tutti i giorni avrebbe offuscato. In tutto questo mio peregrinare avevo incontrato una civiltà, quella scandinava, che aveva risolto gran parte dei problemi so­ciali che travagliano l'Italia; là c'era un discreto grado di benessere, ma tutto ciò non valeva a farmi dimen­ticare quegli occhi vuoti, quei volti nauseati di tutto, quei giovani ubria­chi e drogati che là avevo visto, segni tangibili di una ricerca disor­dinata della libertà che quasi sempre portava al suicidio morale è talvolta anche fisico.

Gli « Hippies » che avevo avvici­nato nelle città del Nord erano la condanna più appariscente di quella società e, più in generale, del si­stema di vita tipicamente borghese. Essi hanno lasciato tutto ciò che molti di noi stanno ancora cercan­do; taluni, pur essendo istruiti, di­ventano barboni, perché la società che li circonda, abbagliante nel suo benessere, è in realtà povera, terri­bilmente povera di valori. Per con­tro, in Cecoslovacchia, avevo cono­sciuto un regime sociale totalmente diverso, ma l'amarezza che leggevo nei volti chiusi e diffidenti di quella gente, la sete di libertà che anima­va i loro discorsi, in fondo confer­mavano che anche là c'è la ricerca di un bene superiore che per loro si chiama libertà e progresso, ma che in realtà non è questo. Tutto questo bagaglio di esperienze non fe­ce che accentuare in me la dispera­zione e la convinzione che non ci fossero risposte a questi perché. Fu a questo punto, quando ormai la mia anima era vuota di tutto, quando le energie venivano meno, che Dio mi venne in aiuto.

Fu il riscoprire quelle persone del Movimento che vivevano autentica­mente il Vangelo. Il percepire una realtà profonda dietro ai loro volti sereni mi fece credere, con volontà cieca, che dietro al buio c'era la Luce.

Quando decisi di rinnovare il mio atto di fede, ricordo che nel mio cuore c'era il gelo più profondo: solo la volontà mi sorreggeva, per­ché capivo che quello era l'unico appiglio. Poi, col tempo, le cose e i problemi si chiarirono: i sacramenti riassunsero un significato, l'apparen­te assenteismo dei Focolarini dai pro­blemi che travagliavano il mondo mi si rivelò invece come una lotta spie-tata alle radici dell'ingiustizia, nella donazione quotidiana ai fratelli, nel­la contestazione globale del proprio io, nella testimonianza che, nell'uni­tà cui Cristo ci ha chiamati, c'è la soluzione a tutto, perché in essa è la stessa vita della Trinità che scen­de tra gli uomini. Tra le altre cose la riscoperta del cristianesimo mi por­tò a riesaminare il mio rapporto con una ragazza danese, alla quale ero sentimentalmente legato. Capii che il mio non era amare, ma attaccamen­to a quello che lei riusciva a dare a me stesso, per cui capii anche che l'amore più vero richiede un distac­co assoluto dalla persona amata, ri­chiede il superamento dei nostri sen­timenti per essere veramente dono per gli altri. Nell'estate dell'anno suc­cessivo questo ultimo ponte col pas­sato crollò.

Ma subito dopo aver distrutto, Dio costruisce. Infatti, proprio in quel periodo mi recai al mare a riposare con la comunità di Vallo Torinese. Alla sera del giorno del mio arrivo, tornati dalla spiaggia, moriva folgo­rata Maria Orsola. Davanti al suo cadavere ci tornò alla mente che in più occasioni, tempo prima, aveva detto di esser disposta a dare la vita perché i giovani si buttassero in una scelta più autenticamente cristiana: forse Dio l'aveva presa in parola. Mentre con la respirazione artificiale cercavamo disperatamente di ridarle la vita, capii che in realtà era lei a donare la Vita a me e sentii che il suo sacrificio non doveva essere vano. La morte di una persona cara ci fa sempre meditare, specialmente quando è cosi improvvisa; ma quella volta alla meditazione segui in me un pas­so immediato dell'anima che sentiva di non dover più perdere tempo in compromessi e che era giunta l'ora di mettere veramente Dio al primo posto. Questo so che è lo scopo del­la mia vita; e il modo con cui Dio chiede a me di concretizzare questa scelta mi pare sia il sacerdozio.

Roberto