coscienza collettiva

Riconoscersi limitati e parte di un unico corpo sociale è per l'uomo condizione assoluta per avere la vita. Tanto, si dipende dagli altri anche se non lo vogliamo o ci rifiutiamo di crederci. Ma è più onesto riconoscerlo e più cristiano accettare questa dipen­denza.

L'apologo di Menenio Agrippa sulle membra del corpo che si mettono in sciopero e rischiano di far morire la persona è forse il primo abbozzo di sana sociologia, popolare insegnata per immagini. San Paolo lo riprende cinque secoli dopo per approfondirne la verità e per universalizzarla in una dimensione teolo­gica dove la stessa fenomenologia del sociale la si vede inserita in una società divina e da questa dipen­dente. « E l'occhio non può dire alla mano: io non ho bisogno di te; né il capo può dire ai piedi: non ho bisogno di voi» (I Cor. 12, 21); «nessuno dunque si gioii degli uomini, perché ogni cosa è vostra... e il mondo e la vita e la morte e le cose presenti e le cose future, tutto è vòstro; e voi siete di Cristo e Cristo è di Dio » (I Cor 3, 21-23).

Gesù non ha mai rinnegato la dipendenza sua dal Padre. La Chiesa come corpo non ha mai rinne­gato la propria dipendenza da Cristo. Noi di fatto rinneghiamo troppo spesso la nostra dipendenza reciproca e così facciamo a pezzi il corpo di Cristo per un falso concetto di personalità che ci fa « affer­mare» la nostra autonomia individuale, che ci fa assolutizzare la nostra coscienza individuale magari anche in opposizione alla coscienza collettiva del corpo che è la Chiesa.

Questa è pura presunzione, poiché — dice Paolo — nessuno deve avere di sé un concetto più alto di quello che dovrebbe avere sapendo che « individualmente siamo membra l'uno dell'altro» (Rotti. 12, 3.5). «Non disfare, per un cibo (per una tua convinzione perso­nale) l'opera di Dio... Tu, la convinzione che hai, serbala per te stesso dinnanzi a Dio», poiché dob­biamo piuttosto cercare «le cose che contribuiscono alla pace e alla mutua edificazione » (Rom. 14, 20.22.19).

Una difficoltà evidentemente esiste e non sfugge neppure a Paolo: da una parte il principio etico uni­versale che « tutto ciò che non viene da convinzione è peccato » (ibid. 23); dall'altra la verità esistenziale della soggettività della propria convinzione indivi­duale che difficilmente non lascia adito al dubbio («Ma colui che sta in dubbio...», ibid.). Esisterà un principio di soluzione per questa antinomia, oppure l'uomo è condannato a vivere nel continuo contrasto tra la coscienza propria e quella collettiva?

La soluzione c'è, ma forse non al di fuori della teologia sociale di Paolo. Anche il corpo di Cristo, nella sua fenomenologia, è storico e si va « edifi­cando » verso la statura perfetta del Cristo totale. E' una maturazione progressiva nel tempo, ed è collet­tiva. Questo «corpo» ha una coscienza, ed è la coscienza collettiva di un corpo in crescita. Questa coscienza matura evidentemente per l'apporto delle varie coscienze individuali allo stesso modo che il corpo intero si sviluppa «mediante l'aiuto fornito da tutte le giunture e nella misura del vigore d'ogni sin­gola parte» (Ef. 4, 16). Ora mentre lo Spirito che anima e illumina il corpo è oggettivo, ossia non è la somma delle luci individuali, ogni luce individuale proveniente dallo Spirito viene recepita soggettiva­mente, e in tanto diventa oggettiva in quanto si perde (si integra) nella Luce del corpo.

Se viene a mancare questa integrazione, le varie luci particolari — che pure sono luce — diventano tenebra per se stesse e per il corpo sociale, perché creano altri « centri di attenzione »: si perde l'unita dello Spirito e si viene « sballottati come bambini (è l'infantilismo del rimanere attaccati alla propria sog­gettività) e portati qua e là da ogni vento di dottrina » (ibid., 14). Sono degli errori seducenti — prosegue Paolo — e altrettante frodi nei confronti di tutto il corpo poiché, pur essendo particelle di verità, rifiu­tando di perdersi nell'«unico Spirito di verità» non si lascia purificare e totalizzare.

Ma come si riconosce la coscienza collettiva, lo Spirito, nella Chiesa di oggi, ad esempio, dove trionfa il pluralismo in fatto di fede e di morale?

Ebbene, se Gesù non avesse po­sto un Pietro a fondamento del­l'unità della Chiesa, se non avesse pregato per l'indefettibilità della sua fede e non l'avesse incaricato di confermare in essa i suoi fra­telli; voglio dire che se Gesù non avesse dato al magistero di Pietro il compito di esprimere la coscien­za collettiva del corpo di Cristo come centro d'unificazione delle co­scienze individuali, ci avrebbe bef­fati nel farci credere all'«ut omnes ».

Silvano Cola