L'ultimo Evely
E' notevole che un autore di libri di spiritualità torni di moda, che un predicatore di ritiri spirituali trovi un linguaggio per l'uomo d'oggi, un linguaggio vivo, fresco, attuale, che suscita interesse, che provoca riflessioni, che chiede cambio di mentalità, e che riesce a tradurre il messaggio evangelico per il mondo d'oggi.
Parliamo di Louis Evely.
Come si spiega questa sua « presa » presso i giovani? Evely risponde alle aspirazioni e esigenze profonde degli uomini della nostra epoca alla luce del Vangelo; è sensibile ai segni dei tempi, dalla socializzazione fino alla secolarizzazione.
Evely analizza e assume le idee fondamentali di movimenti spirituali, sociali e intellettuali del nostro tempo: « E' un compito doloroso e infinito, ma essenziale per il nostro tempo. Noi inventiamo la spiritualità dell'epoca, noi viviamo il nostro problema: essere pienamente uomo, rimanere solidale con tutti gli uomini e con il cosmo intero, e nello stesso tempo essere pienamente aperto, offerto, dato a Dio. I grandi cristiani del nostro tempo hanno tutti incontrato e approfondito questo problema: Santa Teresa del Bambino Gesù, Maurice Blondel, il padre de Faucauld, Teilhard de Chardin ».
Ora, quali sono le aspirazioni spirituali degli uomini d'oggi? La sete di fraternità, di fratellanza universale, la ricerca di una Chiesa viva. Chiesa-comunità, Chiesa-comunione.
« II dramma del nostro tempo, generoso ma disperato, è la ricerca di una fraternità senza Padre. Ma è più tragico vedere i sedicenti cristiani che costruiscono una paternità senza fraternità, che desiderano essere figli del Padre senza essere fratelli degli altri figli ».
« Il solo volto che il Cristo può mostrare agli increduli d'oggi, è quello delle nostre comunità fraterne. Vedendoci qui alla messa, vedendoci fra poco uscire, a messa finita, faremo venire a qualcuno voglia di raggiungerci, di rassomigliarci? Siamo capaci di esercitare questa attrattiva che, agli inizi del cristianesimo ha convcrtito il mondo: "Vedete come si amano! "? Se così fosse, farebbero ben presto le Chiese a unirsi e il mondo a convenirsi! ».
« Là dove due o tre sono riuniti in nome mio, io sono... chiunque vede due o tre che si amano veramente, costui vede Dio, è Dio che gli viene rivelato. L'unica testimonianza della presenza dello Spirito di Dio fra noi consiste nel senso di fraternità che vi avremo stabilito. Lì, lo si potrà gustare. Dio è amore, scambio, abbandono, fiducia reciproca, gioia di essere uno in molti, fraternità ».
All'apologia, al ragionamento, bisogna sostituire la testimonianza. Oggi si vuole vedere e toccare. « La nostra epoca ha bisogno d'incontrare una vera Chiesa: un ambiente dove il Cristo è risorto, dove il suo amore è vivo, dove Egli ridiventa presente e visibile in mezzo ai suoi. Una società di adulti che si amano e che amano gli altri, che sono poveri, dolci, pieni di affetto e sensibili come quel Cristo risuscitato che ha convertito san Tommaso ».
Condizioni fondamentali per concretizzare ; questa comunione sono la preghiera' e la povertà: sono due temi che ritornano sempre nei suoi scritti.
L'autore svela la preghiera in tutta la sua ricchezza, ad esempio come incontro con Dio: soltanto se abbiamo incontrato Dio, possiamo incontrare gli altri da parte sua.
« Non ci può essere vera fraternità senza la preghiera. E' Dio che deve mandarci verso i nostri fratelli... ».
L'altra condizione consiste nella povertà: è il punto di partenza della vita cristiana: prima di tutto la povertà di spirito, « l'esperienza della nullità. Nessuno ha conosciuto Dio se non si è riconosciuto in pari tempo debole, povero e peccatore ». « La migliore definizione che mi sia stata data della povertà è questa: il povero è colui col quale tutti si sentono a proprio agio ». Ogni ricchezza, anche ricchezza spirituale, isola, rompe la comunione.
« Applicate questa definizione della povertà alla Chiesa: immaginate una Chiesa povera, una Chiesa in cui tutti veramente si sentono a proprio agio ».
Abbiamo riportato alcune idee fondamentali di Evely. Si potrebbe anche dire: nulla di nuovo. Oggi queste idee, in quanto idee, sono state abbastanza generalizzate nella mentalità cristiana (meno quanto a vita) da tutta la teologia della secolarizzazione e della morte di Dio: il merito di Evely, comunque, sta appunto nell'averle popolarizzate e proposte con un certo mordente. Ma c'è da domandarsi se il primo Evely non abbia ceduto alla tentazione, nelle ultime opere, di solleticare vaghe aspirazioni romantiche dei lettori con una teologia che non sembra più teologia bensì proiezione di stati d'animo e desideri equivocamente mistici e certamente utopici.
Ad esempio, l'aspirazione alla comunione, alla comunicazione, si rivela pure quando parla della posizione dei laici nella Chiesa, della posizione della donna nel matrimonio, nella società e nella Chiesa. Qui, però, cade purtroppo nell'equivocità, usa uno stile ironico, schiacciante, fa affermazioni ambigue, e purtroppo scivola verso una teologia giornalistica, superficiale, alle volte quasi infantile. Questo riguarda sopratutto i suoi scritti più recenti.
« Infatti la decadenza del laicato nella Chiesa è stata rapida, progressiva, profonda. Il nostro cristianesimo si è completamente clericalizzato ».
« Si può dire in un certo senso che Cristo non aveva voluto fondare una « religione ». Egli voleva adoratori in spirito e verità. Ai pagani che rinfacciavano loro di non avere sacrifici e templi, i primi cristiani ribattevano fermamente che essi avevano un solo sacerdote, Cristo, in cui tutti sono sacerdoti, che essi erano il vero tempio di Dio, fatto di pietre vive, e che il loro sacrificio non era di tori e di mucche ma un sacrificio di lode, spirituale, reso in ogni tempo e in ogni luogo da tutta la vita. Ma nel volgere di poco tempo il cristianesimo ha gareggiato col paganesimo, ha avuto i suoi templi, i riti, le cerimonie, l'incensò, i digiuni e le feste, e soprattutto i suoi specialisti, i chierici, che si sono impadroniti di tutto ciò che apparteneva al popolo di Dio ».
Ebbene, è vero che dopo la Riforma protestante, dopo il Concilio di Trento, la Chiesa si è chiusa, accentuando molto gli aspetti strutturali combattuti dai riformatori (parrocchie, sacramenti, sacerdozio ministeriale, legge, disciplina, voti ecc.) ed è anche vero che il laicato non ha trovato ancora il suo vero posto nella Chiesa.
Però si manca notevolmente di senso storico (la realtà dei condizionamenti culturali, sociali, politici è un fatto praticamente necessario anche per la comunità dei fedeli, anche per i cristiani del ventesimo secolo!) se si esige oggi che lo stesso processo di secolarizzazione avrebbe dovuto esser fatto nei primi secoli del cristianesimo. In realtà Gesù Cristo non ha introdotto — se vogliamo — una nuova « religione » come insieme di cerimonie, pratiche e riti religiosi: ha annullato la religione ebraica, portando una nuova realtà, una nuova fede; ma d'altra parte il cristianesimo non può non essere una fede incarnata, e incarnarsi vuol dire strutturarsi in qualche modo nel tempo e nello spazio, in una cultura o in un'altra, assumendo condizionamenti che nessuno di per sé vuole, ma che sono imprescindibili e condizione stessa del vivere; e perciò è antistorico pensare che i primi cristiani potessero sottrarsi agli influssi socio-culturali del proprio tempo. E questo vale per ogni epoca. Siamo uomini. Rimarremo sempre limitati, condizionati, in cammino, mai arrivati. La tentazione di una Chiesa « pura », « spiritualista » è cominciata coi montanisti e finirà alla fine dei tempi; ma anche la realtà della dialettica storica continuerà, anche — affermiamo — la dialettica fra sacerdozio ministeriale e regale. Siamo continuamente alla ricerca della perfetta comunione, della piena comunicazione fra tutti i membri del popolo di Dio, e fra tutti i popoli e tutte le razze.
Si ha l'impressione, insomma, che Evely, come altri d'altronde, in nome di un perfezionismo umano avveniristico dimentichi totalmente di essere uomo soggetto a condizionamenti psicologici anch'essi storici, e che proponga per sé e per gli altri delle finalità utopistiche, che sono sempre comodi alibi per chiunque non si accetti come essere problematico, in continua tensione fra non essere ed essere, più tentato di involversi che di evolversi. Le strutture non sono per lo meno un tentativo naturale escogitato dalla « vita » per impedire l'involuzione e la morte di sé?
Come saggio di utopia nonché di equivocità di linguaggio basta citare questi brani:
« Ritroveremo la longevità dei patriarchi... e questo non è niente; un giorno raggiungeremo l'immortalità adamitica!
« Un giorno l'uomo potrà non morire più. " L'ultimo nemico a essere eliminato sarà la morte " (I Cor. 15, 26).
« La vita in sé è fatta per durare sempre. Si muore soltanto per " accidente ". Naturalmente ora questo " accidente " è generalizzato, ma è inevitabile che in circostanze ideali di nutrimento e di ricambio, sembra che non ci sia ragione perché un tessuto degeneri....
« Un giorno si morirà liberamente, si cesserà di mantenersi in vita quando si giudicherà di aver vissuto sufficientemente quaggiù, di aver compiuto il proprio compito e di potere (o dovere) cedere il posto agli altri. Cristo è il primo uomo libero, il primo che sia morto liberamente... ».
Ora, l'equivocità è una truffa bell'e buona. Confondere la « vita » presa in senso cosmico assoluto con la mia vita individuale che finirà fra pochi anni, confondere l'ordine biologico con quello spirituale e ontologica, prendere il dato biblico (cf. le citazioni in un contesto totalmente arbitrario) in pura funzione biologica... ebbene, chi vuol fantasticare, fantastichi pure, ma non è lecito confondere fantasia e realtà.
Come non è lecito confondere i « segni » con le realtà. Per Gesù la verginità e il matrimonio sono segni di realtà spirituali più alte e più vere. Per san Paolo, idem. Per i Padri della Chiesa, idem. Quando si legge:
« Insisto su ciò perché ho molta esperienza; la esperienza religiosa, secondo me, è esattamente l'esperienza coniugale », la confusione è totale. E simile equivocità la ritroviamo là dove parla del sacramento, dell'eucarestia, del sacrificio, della fede, dell'amore, e altrove dove profetizza la fine dell'era del celibato:
« Finora i religiosi si erano riservati, modestamente, gli "stati di perfezione ". Ma la povertà, la castità e l'obbedienza coniugali non valgono forse quelle dei religiosi? e il matrimonio non è forse tirocinio e approfondimento dell'amore che è la sola perfezione? Il " grande sacramento " per mezzo del quale due esseri si promettono di amarsi fedelmente in Cristo non è forse una professione di fede e un voto che valgono quanto la consacrazione religiosa? ».
Verrebbe da domandarsi se Teresa del Bamino Gesù o de Foucauld, da lui citati come « grandi cristiani del nostro tempo » avrebbero potuto essere ciò che sono stati per l'umanità se avessero fatto « la professione di fede » a un marito o a una moglie.
Ripeto: l'equivocità è una truffa. E dispiace davvero trovarla in Evely.
Anton Weber