cristiani anzitutto

appunti di vita comunitaria

Non è una novità sentire di gruppi di seminaristi che tentano, in modi diversissimi, esperimenti di vita comunitaria. Anche la nostra esperienza, vissuta alla scuola sacer­dotale di Grottaferrata assieme a trentacinque sacerdoti non costitui­sce pertanto un'eccezione, ma si in­serisce tra i vari tentativi di un rin­novamento attraverso il quale si tende a un rapporto uomo-Dio più autentico e personale. Tuttavia pen­siamo utile mettere in comune con tutti voi il nucleo centrale di quello che Dio ci ha fatto conoscere e so­prattutto ci ha fatto vivere. Non nascondiamo un certo timore nel parlare: sarebbe più facile dire: « vieni e vedi ». Se parliamo è per­ché sentiamo di aver fatto un'e­sperienza che forse è utile comu­nicare.

Ognuno di noi potrebbe dire la propria esperienza personale; ci limiteremo alle impressioni di al­cuni mettendo contemporaneamen­te in rilievo quello che costituisce il fondo comune della nostra vita comunitaria.

Una pluralità di motivazioni ci aveva spinti a partecipare alla scuola: chi veniva per orientarsi meglio alla propria vocazione, chi per conoscere a fondo la spiritua­lità del Movimento. Dal primo mo­mento però abbiamo visto chiaro che l'unica cosa da fare era ama­re: cucinare, lavare la biancheria, pulire il pavimento, guidare una macchina, raccontare ad un altro la propria vita, suonare la chitar­ra, partecipare a una lezione. E tut­te erano occasioni per scegliere Dio in ogni istante, perché biso­gnava amare in ogni momento. Si trattava insomma di vivere.

 

Questi mesi hanno segnato una tappa nella mia vita. Non è stato facile, specie quando sentivo che dentro di me tutto crollava. Ero abituato a usare del mio tempo in­dividualmente, senza pensarci trop­po; qui non avevo scampo, mi tro­vavo a vivere costantemente con altri a fianco, e poiché ci erava­mo impegnati a vivere gli uni per gli altri, il mio tempo diventava loro, un bene da mettere a loro servizio. Di fatto mi trovavo rego­larmente con piatti da lavare, la­vori da sbrigare, il pranzo da pre­parare. Confesso che più di una volta avrei voluto lasciare tutto. Mi sembrava di perdere anche il sacerdozio, perché prima di tutto dovevo vivere da cristiano. Questa, in breve, è stata per me la dialet­tica della Scuola. Ma, per grazia di Dio e per la testimonianza dei fra­telli, nei momenti in cui mi pareva che tutto crollasse, avvertivo che più in giù non potevo andare e che li ero nel punto giusto per poter co­struire la mia vita su Dìo e non sulle mie forze.

(Josè)

 

Spesso leggendo S. Paolo e pen­sando alla sua statura cristiana, ho provato una certa invidia. Lui, sulla via di Damasco, aveva rice­vuto una grazia decisiva, mentre io mi ritrovavo ogni giorno a do­ver continuare il mio cammino pas­so passo, senza sbalzi. Anche ora, ripensando a questi sei mesi vis­suti gomito a gomito con tanti amici, li vedo inserirsi armonica­mente nella mia vita; non è stata una esperienza fuori del normale, e tuttavia ho l'impressione che es­si, inavvertitamente, sono stati per me una piccola Damasco. Quello che mi mancava era un incontro vero con Dio, l'inizio di un rap­porto vivo con Lui. E' quello che ho trovato in questi mesi. E la mia Damasco è stata la vita di unità con gli altri. In un primo momento il vivere costantemente per i fratelli mi dava l'impressione di venire disintegrato e annullato in me stesso. Non avevo più tem­po per curare il giardino della mia personalità. Poi, lentamente, sotto questa impressione di vuoto, ho avvertito in me una realtà profon­da, liberante: la nascita della vera personalità, cioè quel disegno che Cristo vuol realizzare in me. E la strada per questo innesto in Cri­sto sono stati gli altri. Ora porto con me una convinzione, sperimen­tata, che la comunione con Gesù è profondamente legata alla comu­nione con gli altri, perché è l'altro il banco di prova del mio amore, è il fratello che mi fa diventare amore.

(Luigi)

 

Conversando ci accorgiamo che un denominatore comune della no­stra esperienza, pur con sfumature differenti, è questo: « ho incon­trato Dio perché l'ho amato nel fratello che mi stava accanto ».

Questo incontro vivo con Dio ha gettato una nuova luce sul mio sa­cerdozio. Nella mia vita, da quando sono entrato in seminario, tutto sembrava chiaro: chi ero io, chi erano gli altri, cosa dovevo essere. Fino a quando, anche per l'avvici­narsi di alcune scadenze concrete, mi sono trovato in una maniera nuova di fronte a Dio, col quale non avevo ancora regolato i miei conti fino in fondo. Il risultato è stato un buio totale: c'era un certo rapporto tra me e Dio, ma man­cava la totalitarietà, e per questo sentivo tutto vuoto.

 

(Dieter)

Questo accenno al sacerdozio ci riporta ad un'altra comune espe­rienza. Per tutti noi questi mesi non sono stati un cammino plato­nico. Tra le esperienze più concrete che ci raccontiamo stanno quelle che fanno vedere i laboriosi ten­tativi per superare gli attriti delle nostre diversissime personalità, ma­turate in differenti esperienze e con modi del tutto personali di vedere la vita, di concepire il Cri­stianesimo, il sacerdozio stesso e tutta la scala dei valori. Si aggiun­gano le crisi di buio normali in ogni cammino di crescita. Questi incontri con la croce sono stati i momenti più fecondi della nostra vita di unità. Nella sua luce ci è sembrato di capire esistenzialmen­te le parole di Gesù: « siate uno perché il mondo creda », e « ama­tevi gli uni gli altri, come io vi ho amato ». La vita, l'unità nasce­vano come frutto di un amore forte fino alla morte.

Le parole esprimono male il rea­lizzarsi in noi dell'esperienza del seme che è stritolato e muore; ve­dendo che dalla volontà costante di superare nell'amore tutto ciò che vi era di imperfezione e negativo scaturiva la luce in noi e la comu­nione con gli altri, quella scelta totalitaria di Dio che sentivamo di fare è divenuta la scelta di Gesù nel suo abbandono e questo è ciò che ha dato più pace e più gioia alle nostre anime. Sentiamo infatti che solo su di lui può poggiare il nostro sacerdozio, e questa verità è entrata così forte nella nostra anima che si può dire è tutto per noi.

In definitiva, cosa hanno signi­ficato questi sei mesi per il nostro gruppo proveniente da nove semi-nari diversi?

Per me la scuola è stata un vero seminario, un maturare alla scuota stessa di Gesù che cercavamo sem­pre di tenere tra noi con il reci­proco amore. In questo tempo in cui le parole e i libri non si con­tano e dove riesce sempre più arduo cogliere, tra tante voci, quel­la autentica, non desideravo altro che mettermi in ascolto della Pa­rola, e Lui è spiritualmente presen­te dove due o più sono uniti nel suo nome. E soltanto questo incontro con la Parola mi poteva dare l'equi­librio nella confusione e pluralità di idee che ci circondano, dal momento che non si trattava di essere progressista e retrogrado, ma di essere evangelico. Cosi ho visto la vita diventare studio e lo studio sostanziarsi di vita.

(Gaetano)

 

In questi mesi ho cercato la con­cretezza: di essere amore più che di parlarne. In questa vita di stret­to contatto con gli altri venivano subito in luce i talenti di ognuno, e questo mi procurava tensioni, conflitti di personalità. Solo l'amore concreto mi ha aiutato ad essere sempre fuori di me, a donarmi ai fratelli, a far miei i problemi, i dolori, le gioie degli altri. E' stato l'inizio della libertà; dimenticando me stesso, o meglio non lasciando vivere il mio io, Cristo mi ha riem­pito di sé, e in lui è il « centuplo ».

(Enrico)

 

Effettivamente, per tutti è stato un incontro con la parola di Dio, con Dio stesso; non con un Dio astratto, freddo e senza vita, ma con il Dio cristiano: fuoco, luce vita, « che illumina chi lo ama ». Conseguente è stata la compren­sione della vita di comunità; dove non c'è il « tuo » e il « mio », né materiale né spirituale. Abbiamo intravisto quello che dovrebbe es­sere la vita nei rispettivi seminali da dove venivamo.

L'unità poi ci ha fatto capire la Chiesa: non c'è niente in essa che ci possa essere indifferente, come una realtà staccata da noi, tale da poterla giudicare e manovrare a piacere. Abbiamo sentito che essere una cosa sola ci porta ad amare appassionatamente la Chiesa che è noi cristiani, che è « me con gli altri » e « gli altri con me ».

Concludendo, possiamo dire che l'esperienza fatta non è stata un alternativa o un rifiuto del semi­nario, ma solo una opportunità di maturare in profondità, prima del sacerdozio, la nostra vocazione cristiana. Ora ritorneremo nei se­minari, ma con una convinzione profonda: che la crisi dei semi­nali è prima di tutto una crisi di vita; e noi vogliamo vivere. Il re­sto verrà di conseguenza.

(Josè e Luigi)