DIALETTICA PER LA PERSONA

Nell'esperienza di uno studente l'analisi dei conflitti esistenziali che minaccia­no la personalità.

Oggi, specialmente tra noi semi­naristi, si fa un gran parlare di personalità, di maturità, e non sem­pre a proposito. In nome della per­sonalità e della maturità si mettono in atto e si giustificano spesso le iniziative e gli atteggiamenti più contraddittori: è per essere, infatti, dei « veri uomini » che si corre die­tro ai miraggi del mondo, si cede alla febbre di evadere, di cercare al di fuori di sé e al di fuori del Van­gelo la soluzione dei propri proble­mi; e cosi ci si autocondanna al supplizio di Tantalo, assalito da una sete eterna e torturato dal vedersi sfuggire l'acqua di bocca ogni volta che credeva di averla finalmente rag­giunta.

Io sono stato uno di quelli che ha sofferto profondamente i proble­mi di personalità e il Signore m'ha donato la luce per scoprire, proprio nel Vangelo, la soluzione, e con essa la completezza, la gioia, la pace. E' per questo che vi dono la mia esperienza. Ho trovato un tesoro e non posso tenerlo per me.

Ciò che vorrei accennare in par­tenza, solo di sfuggita, è che pro­prio dai frutti — per me ricchis­simi sul piano fìlosofico e teologi­co — di questa riflessione, ho ca­pito quanto fosse tarlata dall'intel­lettualismo la concezione che avevo dello studio; ed ho visto che i libri soli, staccati da un impegno con­creto di vita, possono darci tutt'al-più la « scienza » ma non la sa­pienza, che è dono dello Spirito: ed ho sperimentato come lo sforzo di mettere in ogni istante della mia vita Dio al primo posto, e di amar­lo totalmente in ogni fratello, sia una sorgente inesauribile di luce che apre orizzonti infiniti, dona la capacità di andare all'essenziale e ci indica, per cosi dire, il « Nord » che ci permette di orientarci sem­pre con sicurezza e di trovare, in ogni situazione, la linea di Dio. E specialmente oggi, nella « giungla » di idee e di impostazioni spesso cao­tiche e contraddittorie in cui ci pone una larga fetta della teologia e della cultura attuali, avere « l'ago magnetico » della nostra anima sem­pre polarizzato su Dio è una ga­ranzia sicura. Chiedo soltanto di te­nere presente che ciò che comunico non è solo la mia esperienza, ma anche la mia riflessione sull'espe­rienza: è per questo che sarò co­stretto ad usare un linguaggio forse un po' astratto e teoretico. Inizio con una analisi della situazione in cui mi dibattevo quando cercavo di individuare le cause profonde dei miei problemi di « personalità ».

Limitatezza e rivolta

Molti al mio posto si sarebbero contentati di tutto quello che Dio m'aveva dato, ma io no. Ero sano, robusto, intelligente, ma non mi ba­stava. Avrei voluto essere di più, molto di più. Mi accorgevo di ave­re molti limiti: non ero un buon sportivo, ad esempio, ed era una delle croci che mi pesava di più. E tutti questi limiti, tutte queste realtà che io avrei voluto essere, ma che non ero, non li accettavo e mi ribellavo. Era da questo conflitto, scatenatosi dentro di me, tra ciò che io volevo essere (io ideale) e ciò che io ero concretamente (io reale) che derivavano tutte le mie difficoltà. Mi ero costruito, secondo i criteri del mondo, un modello di uomo perfetto e volevo assoluta­mente raggiungerlo, ma poi mi scon­travo con la mia realtà: io non ero cosi. Di qui la lacerazione intcriore, il senso d'inferiorità, perché per un verso vedevo che molti erano ciò che io non ero, e per altro verso mi vedevo deformato da inibizioni, da atteggiamenti stonati nei rapporti con gli altri, dalla stessa sofferenza che nasce da ogni dissociazione in­teriore.

Ad un certo punto mi decisi a sanare in radice questa situazione. Vidi chiaramente che una soluzione sarebbe stata quella di eliminare una di queste due tensioni: o per­fezione o il mio limite. Infatti, dal momento che era proprio quel con­flitto a originare il mio dramma, sarebbe bastato toglierne di mezzo una per porre termine alla lotta e trovare finalmente la pace. Tentai di battere la prima via: eliminare il mio desiderio di essere di più, di essere diverso da ciò che ero. Sa­pevo che, storicamente, era la so­luzione data dal buddismo e dallo stoicismo al problema del dolore: siccome la sofferenza nasce dal de­siderio non realizzato, per elimi­narla bisogna annullare il desiderio. Qui è la pace. Anche il buon senso popolare era su questa linea: è la massima del « contentarsi »: basta ciò che si ha, senza cercare altro. Questo tentativo fu un fallimento: la tensione verso la perfezione, ver­so l'essere-di-piu era più forte di me, indistruttibile, e le sue radici affondavano fino al centro della mia anima. Ho compreso più tardi che era Dio stesso che aveva innestato nelle profondità della mia persona questa ansia di perfezione e che in ultima analisi la tensione verso l'essere-di-più era tensione verso l'Essere. Per questo un « vero uo­mo » non può essere un « rassegna­to », uno che si è barricato nel pro­prio limite e non guarda al di là; un uomo che ha rinunciato a cercare la perfezione ha rinunciato a Dio e per­ciò si è autodegradato ad essere un « mezzo-uomo ». Bisognava che cam­biassi strada.

Mi tuffai allora nello sforzo di su­perare i miei limiti, convinto che, se lo avessi voluto fermissimamente, ci sarei riuscito e alla fine sarei diven­tato come desideravo. Così mi sotto­posi, fra l'altro, a faticosi esercizi di ginnastica: basta tener duro, mi di­cevo, e posso diventare il migliore atleta: è solo questione di volontà e di tenacia. In fondo riponevo una fiducia sconfinata nelle mie possibili­tà: ero contaminato, spinto anche dal mio carattere, dallo stesso mor­bo che affligge tanta parte della nostra civiltà tecnico-scientifica: il mito del super-uomo, la fede che non c'è limite invalicabile per l'uo­mo: poter fare a meno di Dio e un giorno trionfare su ogni non-essere, e diventare come Dio. E' la stessa tentazione del paradiso terrestre.

Questo atteggiamento, anche se produsse gualche miglioramento, portò delle conseguenze estrema­mente negative: innanzi tutto mi adiravo con me stesso, attribuendo­mi la colpa di non essere ancora riu­scito a diventare come volevo; poi mi portava ad evadere dal presen­te per rimandare tutto al futuro: « quando diventerò così, allora farò questo o quello... ». Però ad un certo momento mi sono reso conto che questo atteggiamento era falso: ci sono dei limiti che non si possono superare: siamo come « isole d'es­sere » in un mare di non-essere che non riusciremo mai ad attraversare.

Mi convinsi che ognuno di noi ha come un « territorio d'essere » li­mitato da confini ben circoscritti, da una muraglia senza porte né vie d'uscita. C'è chi ha un territorio più grande, chi uno più piccolo, e cer­tamente è possibile sfruttarlo bene o male, coltivarlo o lasciarci cre­scere le erbacce, ma tutti siamo con­dannati a restare entro quel con­fine, al di là del quale c'è il nulla. E' il carcere del limite: si può guar­dare al di là delle sbarre, desiderare d'uscire, ma ogni evasione è impos­sibile.

In fondo è la parabola dei talenti: c'è chi ne ha cinque, chi due, chi uno solo. Allora, dal momento che era fallito il tentativo di mettere a tacere il desiderio e alcuni limiti si rivelavano insormontabili, non mi rimaneva che « adattarmi » alla situazione e scegliere altre « tatti­che »: una fu quella della fantasia. Mi eostruivo un monda dove io ero e facevo ciò che nella realtà non ero e non potevo essere. Era una com­pensazione artificiale, un'evasione dalla realtà. Si possono immaginare le conseguenze catastrofiche del mio vagare in questo mondo fantastico: ero al di fuori della concretezza del­l'attimo presente e i miei problemi rimanevano, ed io bruciavo energie e tempo che avrei potuto impiegare utilmente per trafficare i miei ta­lenti. L'altra « strategia » era quella d'essere « furbo »: dovevo farmi be­ne i conti in tasca, vedere a fondo ciò che ero e ciò che non ero, poi cercare di camuffarmi presentando­mi agli altri solo con le mie vesti buone, tentando di nascondere per quanto possibile i panni sporchi. Era mettermi chiaramente in un rapporto sbagliato con gli altri: in verità avevo paura che mi giudi­cassero e mi rifiutassero: per que­sto cercavo di abbagliarli con i miei aspetti positivi, lasciando che mi credessero altro da quello che ero. Ma se questa tecnica del « mascheramento » poteva ingannare gli altri, non ingannava però me che ne sentivo l'amarezza. Cominciai a capire che l'unico modo di usci­re dalla mia crisi era quello di ma­nifestarmi e di agire per quello che ero, senza tecniche né maschere; eppure avevo ancora paura d'esse­re « etichettato » e scartato. Era un circolo vizioso. Fu allora che il Signore, attraverso la vita d'unità passata alla Scuola Sacerdotale di Grottaferrata mi mostrò la strada per una autentica completezza e mi diede la forza di cominciare a per­correrla.

Accettarsi e farsi dono

Il punto di partenza era quello di accettare la coesistenza in me di quelle due tensioni: il voler essere e il mio essere concreto. Ma questo significava accettare necessariamen­te il loro conflitto e col conflitto la sofferenza che l'accompagna. Ma capivo anche che non bastava accet­tarmi: dovevo anche donarmi perché ognuno di noi è necessariamente in comunione con gli altri e non può realizzarsi senza o, peggio, contro gli altri. Dovevo farmi dono cosi come ero, cominciare ad amarli come membra mie, smettendo di conside­rarli dei giudici da ingannare, perso­ne da dominare, nemici da vincere. Ma fare questo significa soffrire, perché il mio egoismo e quello degli altri mi spinge a mettere i « cate­nacci » alle mie porte: vincersi co­sta, e costa durissimo. Ma la chiave di soluzione è proprio qua: nell'ac­cettare la sofferenza e nel sopportar­la senza lasciarsene dominare.

Questo non significa essere maso­chisti: è giusto e naturale l'istinto di repulsione verso la sofferenza, perché l'uomo non è fatto per soffri­re. Dico soltanto che non bisogna lasciarsi condizionare dalla paura della sofferenza e farsene schiavi. Occorre affrontarla di petto e vin­cerla: questa è fortezza, e la for­tezza è maturità.

Bisogna insomma essere uomini veri ed autentici, anche se costa. Finché per paura di soffrire verremo a patti col nostro egoismo e non ci impegneremo fino in fondo a do­narci, ad agire nella coerenza a ciò che crediamo, saremo condannati ad un'eterna schiavitù, al vuoto, al­l'immaturità. Perché questo e il paradosso della sofferenza: se af­frontata e dominata con fortezza, nel momento stesso in cui ti lace­ra, ti costruisce, ti irrobustisce, ti rende più autentico; se sfuggita affonda ancora più profondamente i suoi artigli nella tua carne e ti distrugge. Su questa terra la sof­ferenza è una realtà, misteriosa e umanamente assurda, ma una real­tà. O si affronta e si vince o ti lasci vincere: non c'è alternativa. Sta a noi dargli un segno positivo o ne­gativo. Così nella misura in cui mi sforzavo di tradurre in vita, mo­mento per momento, questo mio im­pegno di autenticità, sperimentavo come sia duro essere sé stessi fino in fondo, ma nello stesso tempo sen­tivo la gioia.

Tante difficoltà e complessi si di­leguavano come nebbia al sole; mol­te forme di comportamento e di valutazione, che prima credevo asso­lute, si rivelavano impalcature di cartone. Mi rendevo conto di quanti idoli falsi ed inutili mi ero costruito nell'animo e come, per tanti anni, avessi sacrificato loro tempo ed e-nergie. Fare piazza pulita di queste sovrastrutture interiori mi costa­va parecchio, ma vedevo come sia meraviglioso essere semplici, guar­dare la realtà senza lenti defor­manti.

Ma il Signore mi condusse oltrequesto livello che poteva offrimi una maturità solo umana e che la­sciava senza risposta problemi più angosciosi.

Scacco e vittoria

Era da un po' di tempo che ave­vo capito come il problema del li­mite, del non-essere, fosse non sol­tanto un mio problema personale, ma avesse dimensioni cosmiche. Ogni creatura, proprio perché crea­tura, è limitata: è un granello d'es­sere sospeso nel nulla, ed è solo quel filo che la tiene legata a Dio, che gli impedisce di precipitare nel vuoto infinito. Ogni creatura è come un raggio di sole che si posa su una parete scura: è una macchia di luce i cui contorni sono definiti proprio da tutto quel buio che la circonda. Un albero, ad es., non-è un uccello, non-è un sasso, ed il suo essere albero è proprio definito dal non-essere un uccello, un sasso: il suo non-essere è infinitamente più del suo essere. Questo confine tra l'essere e il non-essere diviene co­sciente nelle creature intelligenti: ma in esse, insieme alla coscienza del non-essere, vive una tensione in­sopprimi bile verso l'essere. E' per questo che ogni creatura sarebbe condannata ad un'angoscia metafisi­ca, senza possibilità d'uscita, se ri­manesse asserragliata in se stessa o se venisse abbandonata da Dio.

La creatura non è autosufficiente: da sola si dissolverebbe nel nulla o, se Dio la lasciasse esistere, sarebbe attenagliata dalla coscienza della sua assurdità e da una disperazione senza rimedio. Nell'uomo, inoltre, al suo non-essere metafisico, si è so­vrapposto, col suo peso schiacciante, il non-essere del peccato: l'uomo vede il peccato inondare e rovinare il suo essere già cosi limitato: cono­sciamo le piaghe che corrodono l'u­manità e l'urlo di dolore e il grido di aiuto della storia verso Dio.

Al problema del non-essere e del male non c'è una risposta umana esauriente: o si fissa Dio e si in­voca da lui la salvezza o c'è la disperazione.

E' quanto ha messo drammatica­mente in evidenza un largo strato della cultura moderna che espri­me, nei suoi rappresentanti più sensibili, il senso del nulla, dell'as­surdo, dell'angoscia (Sartre, Heideg-ger, Camus). Dopo il razionalismo, illuminismo e l'idealismo che ave­vano esaltato l'essere, l'uomo, la nostra epoca, specie attraverso l'esi­stenzialismo (maturato anche dall'e­sperienza delle due guerre mondia­li), ha fissato i suoi occhi sul non­essere ed ha riscoperto la drammati­cità costitutiva della situazione u­mana, ed avendo perso il senso di Dio, si è fatta la disperata mes­saggera del nulla e dell'angoscia.

Nella storia, come nella nostra vi­ta, succede sempre così: siamo sulle mura che circondano la nostra « isola d'essere »: se guardiamo den­tro e vediamo le città, i campi, le nostre opere, ci esaltiamo e ci facciamo Dio; poi guardiamo fuori, vediamo lo sterminato oceano del nulla che ci circonda e allora ur­liamo la nostra solitudine. Troppo spesso ci si dimentica di guardare in alto. Non poteva essere che Dio a risolvere il problema del non­essere, del peccato, della sofferenza: egli ha dato una risposta degna di se: Gesù crocifisso e risorto.

Sulla croce Gesù ha sentito il suo corpo dilaniato dalla sofferenza ed ha provato la sconfinata amarezza di sentirsi abbandonato dal Padre: in quella sofferenza, in quell'angoscia che urla « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? », c'era tutto il non-essere del cosmo, c'era tutto il peccato, il dolore, la disperazione degli uomini; perché Dio « l'ha reso peccato », lo ha caricato di tutto il nostro non-essere; e pertanto non c'è un limite, una lacrima, un dolore che non sia inchiodato con Gesù in croce e che per questo non porti impresso in sé il suo volto sofferen­te. « E Gesù, gridando a gran voce, disse: Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio. Ciò detto spirò». E' il suo supremo atto d'amore: Gesù nella sofferenza si fa dono al Padre, si affre con quel carico im­menso di dolori, si abbandona in un gesto infinito di fiducia al Padre. Questo è il momento centrale della storia del cosmo: l'universo intero gravita attorno a questo punto: in quel non-essere offerto per amore è in gioco il destino del creato. Ma il Padre risponde: nella risurrezione egli esalta l'umanità di Gesù costi­tuendola nella pienezza dell'essere: Gesù è il « Kurios », il Signore che ha nelle sue mani tutte le ricchezze e il potere del Padre.

Il mistero della morte e risurre­zione di Gesù è il punto centrale del cristianesimo: è qui che Dio ha rivelato la sua onnipotenza e la sua gloria e ha dato scacco al non­essere, al peccato, al dolore. Per­ché proprio in Gesù crocifisso e abbandonato egli ha reso il non­essere, offerto, la fonte dell'essere.

Per questo Gesù è risorto. Dio ha vinto, e la sua vittoria è al di là di ogni logica umana. Ormai il non-essere e il dolore sono stati sconfitti: non dobbiamo più tremare e cadere nell'angoscia davanti ad essi: la risurrezione ci dà la cer­tezza che proprio il non-essere e il dolore, vissuti nella donazione di Ge­sù, divetano in noi la vera sorgente della perfezione, della luce, della vita.

Amando, il cristiano grida al mon­do il suo trionfo sul non-essere. In Gesù abbandonato la povertà, il vuoto, il dolore, la debolezza, resi dono al Padre, sono diventati la no­stra ricchezza, la nostra gioia, la nostra forza. E' un assurdo, è con­tro la logica del mondo, ma è la logica di Dio.

La rivoluzione della croce è la chiave di volta della storia e del­l'universo: in essa tutto assume un significato ed una logica, anche se misteriosi perché divini; senza di essa non c'è che l'assurdo e l'an­goscia.

Vidi allora che dovevo convertir­mi al Vangelo e rovesciare radical­mente le mie prospettive e i miei valori. Prima ero giunto a capire che, per essere maturo, dovevo vin­cere e sopportare il mio limite e la mia sofferenza; ora capivo che non bastava « sopportare » la sof­ferenza, ma dovevo amarla perché proprio essa era la mia ricchezza. Quando ho capito questo ho avuto in mano la chiave per essere, in ogni situazione, un cristiano, e perciò un uomo.

Ho capito che Dio è giusto, e che la sua giustizia supera infinitamen­te la nostra: la felicità, la maturità, la perfezione non possono essere privilegio di pochi; ma ogni uomo, anche lo storpio, il povero, il ma­lato, il rifiutato, hanno la strada a­perta alla pienezza dell'essere, per­ché tutti hanno la possibilità di amare nella croce.

Nel Vangelo ho trovato la rispo­sta radicale ai miei problemi: li ho scoperto la chiave della mia auten­ticità. So che aver capito tutto que­sto non basta: devo vivere secondo la logica della croce ogni momento: non si può decidere una volta per tutte; solo il dono di me e del mio. limite, rinnovato in ogni « adesso », è la fonte del mio crescere. E so pure che se ad un certo momento abbandonassi questo sforzo e mi convertissi ai valori del mondo, rica­drei in una situazione peggiore di quella da cui ero partito.

Gesù abbandonato è il mio teso­ro: ora so che posso e debbo essere perfetto come il Padre non solo nonostante i miei limiti, ma grazie ai miei limiti, se li rendo amore.

Pino Petrocchi (III Teol. - Roma)