Semplificare

Siamo troppo complicati. Lo sia­mo interiormente. E in definitiva ci piace esserlo perché è di moda. Quando poi ne sentiamo il disagio per il disorientamento che inevi­tabilmente la molteplicità delle idee o delle sensazioni provoca in noi, troviamo un facile alibi alla no­stra falsa coscienza nelle strutture in cui viviamo. Come se fossero esse la causa dell'interiore compli­cazione e non invece la moltepli­cità che è in noi a crearle.

E' di moda il pluralismo in cam­po ideologico, e non è che sia male essere aggiornati sugli sviluppi del pensiero scientifico sociale filoso ­fico e teologico; il male è che le idee non trovano unità dentro di noi, e si accavallano, si respingono, si elidono e tornano ad affiorare come verità indiscutibili al momento in cui servono a giustificare un no­stro comportamento, a mascherare di modernità delle esigenze pura­mente egoistiche.

Molto sì parla oggi di strumenta­lizzazione col significato negativo che giustamente vi è legato quando si intende usare un valore oggetti-vomente più alto come mezzo per raggiungere finalità meno elevate; e in realtà, ad esempio, è autentico stravolgimento di valori sacrificare una persona per soddisfare l'avidità di qualcuno. Ma non è minore a­berrazione sacrificare o manipolare la verità, o andare a pescare nella molteplicità delle idee quella teo­ria che avalli i desideri del nostro « vecchio uomo » o regali giustifica­zioni alla nostra volontà di potenza.

E' che si è perso il senso del va­lore della « parola » come verità, come logos; si sono moltiplicate le parole quando s'è capito che la Parola, il Vangelo, era scomoda da vivere. E periodicamente l'umanità si anima della velleità antica di co­struire una torre che tocchi il cielo, e cade nell'incomunicabilità del lin­guaggio. Ma non torna alla Parola, raccatta i detriti e torna a sovrap­porli in architettura diversa, parole su parole. Non desiderio di verità, ma volontà di potenza. Poiché la Verità già ci è stata data, ma noi non vogliamo accettarla, orgogliosi come siamo di costruircela da soli.

Se le energie che sprechiamo nel cercarla altrove le spendessimo per viverla; se invece di moltipllcare le parole per teologicizzare il Vangelo e discuterlo, il Vangelo lo vivessi­mo, ritroveremmo la semplicità, la comprensione, la comunicabilità e la comunione.

E' di moda l'avidità di esperienze. Fabbriche, kibbutz, simposi ecu­menici, religiosità orientale, vita di gruppo... Sono indubbiamente espe­rienze positive che potrebbero arric­chire se venissero unificate dalla persona che le fa, integrandole in sé come valori parziali; mentre spes­so succede che sono le esperienze a trascinare la persona, a farle perde­re l'unitarietà.

Tanto più che non sono le espe­rienze che contano: la fame dell'a­nima (voglio dire della persona) non si sazia neanche se fosse possibile sperimentare tutto. Sarebbe bene so­stituirle con la esperienza. Perché non è che tu diventi più sociale se lavori in fabbrica: è che sul la­voro ti socializzi se ami. Non è che ti perfezioni partecipando alla vita di gruppo: è che nella vita di gruppo ti integri e ti perfezioni se ami. E cosi via.

L'esperienza di cui si ha fame on­tologica è lo « sperimentare Dio ». E Dio non è nella molteplicità, bensì nella semplicità che è amore. Dio lo trovi facendo la sua Volontà, che è la volontà di Gesù espres­saci nel suo comando: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi ». E' cosi che sì può avere la vita e continuare a dire al mondo « la Parola ». E' attuando questa Parola che fai l'esperienza fonda­mentale, l'esperienza di Dio.

Tutte le altre cosiddette esperien­ze non sono altro che possibili oc­casioni ove ci si può esercitare.

Silvano Cola