Nel nostro tempo solo dei cristiani con un’esperienza viva del vangelo e in comunione tra loro sono credibili

 

I movimenti ecclesiali:

una speranza!

di Enrico Pepe

 

Dopo alcuni anni trascorsi a Roma, l’autore dell’articolo ritorna in Brasile per partecipare a San Paolo ad un convegno nazionale di seminaristi. Passato il boom della teologia della liberazione, quale realtà ecclesiale incontrerà in questa terra tradizionalmente cristiana ma tanto martoriata dalla problematica sociale?

 

Senza radici e senza futuro

Leggo in un articolo del noto teologo José Comblin1 che in questi anni sta sorgendo in America Latina "una nuova generazione, senza continuità con le generazioni anteriori. I figli non sono affatto interessati alle lotte, alle speranze e ai pericoli vissuti dai loro genitori. Non s’interessano della religione dei padri e non sentono nessun obbligo verso di essa. Per loro la parola liberazione è vuota di senso o viene intesa come liberazione individuale da ogni sorta di obbligo o di limite. I figli di coloro che inventarono le comunità ecclesiali di base non ne vogliono più sapere. Una generazione dunque che non ha alcun interesse per il passato". Allo stesso tempo questa generazione – sempre secondo Comblin – non ha alcun interesse neanche per il futuro né nel campo della politica né in quello della famiglia: quel che vale è procurarsi il piacere del momento presente. Quest’analisi che può sembrare spietata non vale anche per la vecchia Europa? Un giovane sacerdote di Milano, don Paolo Zago, seriamente impegnato nella pastorale giovanile, ci descrive la situazione in modo simile. Riporto qualche stralcio particolarmente incisivo del suo scritto." La vita dei giovani è dentro un divenire contraddittorio, o meglio dialettico, fatto di desideri e frustrazioni, in una storia di luci e di ombre, di attese e di delusioni; ricevono quotidianamente messaggi che spingono a cercare soddisfazioni, il più possibile immediate, ai propri desideri. "Tutto e subito quando ne ho voglia", è lo slogan di uno stile abbastanza diffuso. È proprio questo uno dei motivi che portano i giovani a vivere tanti fallimenti. Essi in fondo vorrebbero una gioia duratura, ma rifiutano una prospettiva di sviluppo che richiede tempi lunghi. Da qui la ricerca di sensazioni forti e immediate, che li facciano sentire pieni e sazi ora. Quale la loro reazione di fronte alla fede ereditata per tradizione e riproposta dalla chiesa? Normalmente il disinteresse; qualche volta si lasciano catturare più dalla sensazione che dalla convinzione. Anche se alcuni dicono di credere, credono solo a ciò che piace loro in quel momento. La componente fondamentale del loro sapere è la sensazione. I cinque sensi hanno una rilevanza preponderante. Si pensi a cosa significhi per loro la musica (udito), il toccarsi reciprocamente nel rapporto di coppia (tatto), la televisione e i film d’evasione (vista), la ricerca della moda ad ogni costo, dei profumi (olfatto), la passione per il cibo o il bere con i fenomeni conseguenti (gusto).In questo contesto l’annuncio di fede rischia di essere un messaggio detto in un linguaggio che prima di essere rifiutato è inascoltato, perché per loro è semplicemente inascoltabile! È come parlare ad una persona che sta sotto le cuffie del suo walkman a pieno volume. Anche se essi conoscono intellettualmente le verità della fede, sperimentano di non riuscire a metterle in pratica; anche se i concetti possono apparire belli, le sensazioni sono più affascinanti e soprattutto per qualche tempo riescono a saziare i desideri e a soddisfare gli istinti". E il mio amico milanese conclude con questa domanda: "Come dire Dio ai giovani di oggi?".

 

Una domanda ineludibile

Non è che queste letture m’incoraggiassero molto. Avrei incontrato giovani di ogni parte del Brasile, figli del nostro tempo e della loro terra, carichi di tutti questi problemi e di altri ancora. Pensando a loro, mi ponevo anch’io la stessa domanda: "Avremmo trovato la strada per dire Dio?". L’aereo intanto sta per atterrare a Rio de Janeiro e accanto a me viaggia una coppia di sposi in viaggio di nozze. I due giovani naturalmente sono immersi in ben altri pensieri: gente in gamba a quanto pare e ancora credenti nel valore della famiglia. Mi sono permesso di avvertirli che nelle strade di Rio, come in quelle di Roma, girano tanti ladruncoli. La sposa mi ha guardato con un sorriso sornione e mi ha risposto: "Non c’è pericolo: noi due siamo napoletani!". Non ho potuto trattenere un sorriso di compiacenza ed ho pensato che anche in una società che ha perso tanti i valori c’è sempre chi sa sopravvivere, conservando intatta la propria cultura e dignità. Arrivo a destinazione nella Mariapoli Araceli a una cinquantina di chilometri dalla metropoli di San Paolo. È un villaggio con circa 400 abitanti, un piccolo bozzetto di società, una delle varie cittadelle del Movimento dei focolari sparse nei cinque continenti, che mostra quasi plasticamente come sarebbe il mondo se i rapporti fossero improntati al vangelo.

 

La sorpresa del giornalista

Qui un gruppo di sedici seminaristi già sono all’opera per accogliere i colleghi che arrivano da ogni parte del Paese. Nel Sudamerica è tempo di vacanze estive e fa molto caldo. Un giornalista di una rete televisiva con la camera puntata domanda ad un seminarista: "Come mai avete rinunziato alle vacanze per venire a questo congresso?". La risposta è semplice: "È molto importante per noi costruire un futuro migliore per il nostro popolo. Da tempo stiamo preparando quest’incontro, perché abbiamo scoperto uno stile nuovo di vita basato sul Testamento di Gesù: "Che tutti siano uno". Ora vogliamo comunicare questa scoperta ai nostri colleghi di tutto il Brasile". L’intervista continua, snodandosi su vari aspetti e suscitando l’interesse del giornalista e della sua troupe. Ne nasce un servizio così interessante che il giorno dopo il direttore lo manda in onda su tutto il territorio nazionale. Suscita stupore l’impegno e la serietà di questi giovani che riescono a raccogliere ben 300 coetanei per fare insieme un’esperienza molto impegnativa. Il giornalista è tornato con i suoi amici durante il convegno per continuare le sue interviste ed ha detto che in vita sua non aveva mai incontrato tanti seminaristi così sereni. Per lui rappresentavano una grande speranza per il futuro della chiesa in Brasile.

 

L’apporto dei movimenti carismatici

Tornando all’articolo del teologo Comblin, ad un certo punto si legge: "Le strutture della chiesa cattolica, anche quelle delle comunità ecclesiali di base, non hanno più la capacità di trasmettere o generare la fede. Né la catechesi, né la preparazione ai sacramenti, né la vita parrocchiale riescono a trasmetterla. Tutte queste strutture suppongono la fede, ma non sono preparate per suscitarla. Oggi solo i movimenti carismatici riescono a far nascere la fede e a trasformare la vita dei loro convertiti". Non avrei il coraggio e l’autorità per fare affermazioni così forti, ma forse Comblin ha ragione. Infatti molti di questi 300 giovani che ho di fronte, sono stati colpiti da qualcosa che ha trasformato radicalmente la loro vita cristiana ed è avvenuto a contatto con uno di questi movimenti carismatici, il Movimento dei focolari, suscitando in loro la vocazione o ravvivandola. Generalmente è accaduto durante una Mariapoli, quando hanno visto con i propri occhi una porzione di popolo di Dio vivere il comandamento nuovo dell’amore, "la legge fondamentale dell’umana perfezione e perciò anche della trasformazione del mondo". E in questo ambiente hanno capito che il vangelo è vero e che vale la pena seguire Cristo anche nel cammino impegnativo del sacerdozio.

 

Sperimentare il vangelo

Tra di loro c’è un gruppo che sta facendo un’esperienza interessante nella Fazenda da esperanza, nella città di Guaratinguetà, nelle vicinanze del santuario di Nossa Senhora Apparecida. È un centro di cura per tossicodipendenti. I seminaristi al mattino frequentano l’Istituto teologico e per il resto del giorno sono a servizio dei giovani in ricupero. La tecnica? Vivere insieme a loro il vangelo. È arrivato un giorno un giovane per osservare l’ambiente prima di iniziare il trattamento. Ha trovato tutto molto bello, troppo bello per crederci e, prendendo da parte uno dei giovani, gli ha chiesto in confidenza: "Dimmi la verità: come fate poi a procurarvi la dose?". E si è sentito rispondere: "Qui noi neanche pronunziamo la parola droga. Siamo già al di là del problema. Il nostro impegno non è procurasi la droga, ma vivere la Parola". Proprio così: fare un’esperienza concreta di vangelo vissuto nel servizio quotidiano ai fratelli, calarsi in una delle piaghe più sconvolgenti del nostro tempo e portarvi la salute. E la gioia del donarsi supera ogni egoismo, secondo quel detto di Gesù registrato negli Atti degli Apostoli: "C’è più gioia nel dare che nel ricevere". I seminaristi lavorano in questa Fazenda insieme a molti altri volontari (persone consacrate ed altre sposate) e fanno qui il loro tirocinio di formazione. Sembra utopia? Andate e vedrete. Sono numerosi, infatti, i pullman che fanno visita alla Fazenda da esperança. E cosa incontrano? Una nuova speranza, appunto, per il nostro mondo, perché anche oggi Gesù passa sanando tutti attraverso l’amore concreto di persone che credono. E perché credono non solo con la testa ma anche con le mani e con tutto il loro essere, trasmettono la fede che sana le più tragiche piaghe della società. Rifacendomi al mio amico milanese direi che qui i cinque sensi sono realmente messi all’opera, non per cercare soddisfazioni effimere e superficiali, ma per servire l’altro e crescere insieme. È un cammino ascetico impegnativo e gioioso allo stesso tempo.

 

La comunità forma i suoi pastori

Ma torniamo ai nostri seminaristi raccolti a convegno. La cittadella, in cui trascorrono questi quattro giorni, è per loro una continua sorpresa. Ascoltano esperienze di vangelo vissuto da ragazzi e ragazze della loro età, da intere famiglie, da persone consacrate a Dio pur restando laiche. Ad uno di loro viene un dubbio: "Sarà poi vero? Se fosse vero, in fondo si tratta di persone un po’ scelte. Come fanno a trasmettere questo stile di vita ai poveri?". Ed avanza una domanda che ha il sapore di una sfida: "Potremmo ascoltare una delle donne che lavorano in cucina?". La richiesta viene subito accolta. Arriva una ragazza che proviene dalle favelas di Recife e racconta la sua storia con una dignità che non ha nulla da invidiare a chi sta studiando teologia. Ed è stato l’amore concreto di altre ragazze che le ha ridato nuova vita, nonostante tutto il calvario al quale la società dei consumi l’aveva sottoposta. La conclusione dunque è semplice: se ci amiamo, possiamo trasformare il mondo. I seminaristi capiscono a volo che l’autentica pastorale oggi deve andare dritta all’essenziale: testimoniare la fede con le opere, non individualisticamente ma insieme. È la testimonianza dell’unità che converte. Non basta predicare, occorre offrire una comunità viva che accolga. Molto interessante è stata poi la testimonianza di due fratelli che dirigono una grande industria legata all’economia di comunione. Un seminarista ha posto una domanda: "Se un giorno doveste fare una scelta: o chiudere l’industria per fallimento o tenerla in vita sacrificando i dipendenti, cosa scegliereste?". La risposta: "Un’industria per noi cristiani ha senso solo se serve la persona umana; altrimenti bisogna chiuderla". Conosco personalmente la lunga storia di questi due fratelli e penso che san Francesco d’Assisi, se fosse stato presente, avrebbe riconosciuto in loro il suo ideale aggiornato ai nostri giorni e pienamente vissuto. La carità non solo trasforma le persone, ma può cambiare anche le strutture. Per questo il vescovo Angelico Sandalo Bernardino, rappresentante della Conferenza episcopale, ha esortato i seminaristi a far esplodere nei seminari quel fuoco che in questi giorni era stato acceso nei loro cuori a contatto col Cristo vivo in mezzo a loro. Forse un altro elemento da prendere in considerazione è il fatto che in questi giorni i seminaristi hanno avuto la possibilità di stabilire spontaneamente un contatto molto limpido col mondo femminile: mamme, fidanzate, vergini consacrate o alla ricerca – come loro – della propria vocazione, ma tutte impegnate nel rivivere per quanto è possibile la figura di Maria, sono vissute gomito a gomito con loro nello stesso ambiente. Nella cittadella si respirava la purezza. Uno di loro ha detto che tutta la giornata, anche nei momenti di svago, era avvolta nella preghiera: si respirava Dio, lo si toccava con mano. Un seminarista del nordest del Brasile, ispirandosi al Sinodo dell’America che si era appena concluso, ha lasciato scritto: "Da alcuni giorni chiedevo a Dio che in queste vacanze mi concedesse un’esperienza col Cristo risorto per suscitare in me nuovo ardore. In questo convegno ho fatto questa esperienza che però ha superato ogni mia aspettativa. Qui non ho ascoltato una teoria, ma ho toccato con mano un nuovo cammino di santità. Quest’anno avevo studiato La città di Dio idealizzata da sant’Agostino. Qui l’ho contemplata, ma con un nome nuovo: città di Maria!".

 

La parrocchia e i movimenti

Mentre assistevo allo svolgersi del convegno, mi domandavo: "Cosa avviene fuori della cittadella e fuori del mondo giovanile?". Ero curioso di vedere cosa sta accadendo in una normale parrocchia. L’occasione mi è stata data dal parroco del posto, un sacerdote diocesano che cerca di vivere la spiritualità dell’unità. Pur non avendo tanto tempo a disposizione, sono riuscito a trovare un’oretta per accogliere il suo invito e soddisfare la mia curiosità. È una parrocchia creata una ventina d’anni fa con 15.000 abitanti ed oggi ne conta 30.000. Situata nella grande periferia di San Paolo, ha tutte le caratteristiche positive e negative delle città satelliti. Qui è molto vivo il Movimento pentecostale cattolico che raccoglie più di 500 membri attivi. La loro vita morale – mi confida il parroco – è esemplare, la loro preghiera intensa ed edificante ed hanno un amore particolare alla chiesa. Aumentano continuamente di numero perché, avendo un profondo spirito di famiglia, sanno accogliere gli altri. Inoltre, avendo sviluppato una forte sensibilità per le cose di Dio nella preghiera, valorizzano i sacramenti. Nella parrocchia sono una presenza viva e operosa. Meno numerosi ma non meno vivi sono i membri del Movimento parrocchiale, diramazione del Movimento dei focolari. In questa domenica mi sono incontrato con una sessantina di loro: adulti, giovani, ragazzi. Erano riuniti per meditare questa Parola della Scrittura da mettere in pratica durante il mese: "Lo Spirito viene in aiuto della nostra debolezza" (Rm 8, 26).Dopo aver letto il commento di Chiara Lubich, hanno cominciato a raccontare spontaneamente le loro esperienze. Una famiglia ha preso in casa un bambino abbandonato e, non trovando i genitori, hanno pensato di adottarlo. Quando ormai egli si era adattato nella nuova famiglia ed era amato e considerato un figlio, ecco apparire la sua vera madre. Un distacco doloroso per la coppia, ma "con l’aiuto dello Spirito, abbiamo cercato solo il bene del bambino e l’abbiamo ridato alla madre tutto rinnovato". Più dolorosa è l’esperienza di un’altra famiglia. Ce la racconta il papà: "Abbiamo sempre educati i nostri figli nell’amore e tra noi c’è stata sempre armonia. Quest’anno la più grande si preparava al matrimonio in un clima molto sereno. Il suo fidanzato è un ragazzo in gamba ed ambedue hanno sempre goduto la nostra piena fiducia. All’improvviso ci viene comunicata una notizia inattesa. Lei sta aspettando un bambino. È stata una bomba a ciel sereno, il più gran dispiacere della nostra vita. Ma anche qui "lo Spirito è venuto incontro alla nostra debolezza": mia moglie ed io abbiamo rivolto il nostro pensiero al bambino. Egli deve essere accolto in un ambiente familiare sereno e deve sentire subito tutto il nostro amore. Abbiamo detto questo anche ai suoi genitori ed insieme, secondo le nostre povere possibilità economiche, stiamo preparando la celebrazione del matrimonio". Nella parrocchia c’è una forte colonia di giapponesi e due di loro sono in questo gruppo. Una racconta in poche battute la sua conversione al cristianesimo quand’era bambina. Aveva una profonda sete di Dio e sentiva una grande attrazione verso la chiesa. Il buddismo in cui era cresciuta le appariva bello perché inculcava il rispetto per gli antenati, per ogni essere umano e per il creato, ma lei desiderava qualcosa di più alto, di più personale: era la sete di Dio che lo Spirito accendeva nel suo cuore. Espresse questo suo desiderio al padre e questi le facilitò tutto, fino ad aiutarla nell’imparare le preghiere dei cristiani. Le raccomandava solo di non abbandonare mai le cose belle imparate nel buddismo, come il culto degli antenati. Oggi lei vede la religione dei suoi padri come una preparazione al cristianesimo e questo le è di aiuto nei suoi contatti con i giapponesi che hanno così radicata nel cuore la cultura buddista. Anche nell’ambiente normale di una parrocchia i movimenti ecclesiali possono dare un contributo determinante. "Non è pensabile – continua nel suo scritto Paolo Zago, il mio amico milanese – dire Dio oggi attraverso una pastorale solo di pulpito o legata in modo freddo e formale ai sacramenti. È necessario puntare su dinamiche comunitarie, percorsi che conducano alla creazione di una chiesa comunione. Ma una tale chiesa non la si crea mettendo in atto altre strutture, magari originali e moderne. Solo una spiritualità collettiva, dono dell’azione dello Spirito, potrà rendere fecondo oggi l’annuncio del vangelo". Concordo pienamente. Se sappiamo dare il giusto posto alle nuove energie che lo Spirito sprigiona dal seno della sua chiesa, anche le strutture ecclesiali potranno diventare evangelizzatrici e la parrocchia ritornerà ad essere "la famiglia di Dio, una fraternità animata dallo spirito d’unità" (LG 28) o – come amava dire Giovanni XXIII – "la fontana del villaggio alla quale tutti accorrono per dissetarsi".

Enrico Pepe

1. Reino de Deus: utopia profética de Jesus na vivência cristã hoje, in: Vida Pastoral, novembro-dezembro de 1997, p. 2-7.