La comunione fraterna: strada maestra per la pastorale

 

Così vivo il sacerdozio

di Georg Pfender

 

L’autore è un prete diocesano svizzero che non aveva mai pensato che un giorno sarebbe andato a lavorare nelle Filippine: un’esperienza che si è poi rivelata un vero dono di Dio per lui.

Nella nostra parrocchia avevamo iniziato un gemellaggio con la diocesi di Alaminos, Pangasinan. Il vescovo, Jesús Aputen Cabrera, che ci visitava ogni anno, ad un certo momento mi ha chiesto se ero disposto ad andare nella sua diocesi dove i sacerdoti sono pochi. D’accordo col mio vescovo ho accettato l’invito. Mi sono proposto di vivere innanzitutto l’unità col vescovo del posto. Egli mi ha nominato parroco di una “piccola” parrocchia con 13 villaggi. Era una realtà molto diversa da quella da me vissuta fino a quel momento, ma mi sono sentito subito a mio agio, anche se trovavo difficoltà con le tre lingue indigene del posto.

L’unità col vescovo

All’inizio tutto è andato molto bene: io cercavo di assecondare i suoi desideri, mettendo in pratica le direttive diocesane. Era anche bello per me costatare che nei raduni mensili di formazione per i sacerdoti, ogni cosa era vista insieme tra noi e col vescovo, e in questo modo nella diocesi si andava avanti su una stessa linea di rinnovamento.

Dopo un po’ di tempo si è presentata una difficoltà. Una cosa molto delicata nel nostro contesto è il denaro. La diocesi è molto giovane e perciò mancano tante strutture. Il vescovo riceve aiuti dall’Europa e dagli Stati Uniti. Anche la mia parrocchia in Svizzera collabora. Avevo notato però che c’erano tra i sacerdoti alcuni dubbi su come veniva impiegato il denaro. Ne sentivo parlare qua e là. Questo creava un problema per me: da una parte volevo essere in piena unità con il vescovo e dall’altra sentivo anche la necessità di un senso di giustizia e di trasparenza nel campo dell’economia. Dentro di me cresceva una certa tensione. Cosa fare? Parlarne col vescovo? Ma chi sono io per dirgli queste cose? Dove va a finire la fiducia?

Una notte mi sono svegliato e ho sentito che non potevo andare avanti con questo dubbio che stava diventando un giudizio. Mi dicevo: questa situazione non è forse un volto di Gesù crocifisso e abbandonato, sposo della mia anima? Ho deciso allora di amare l’Abbandonato con tutto il cuore: ho subito sperimentato una grande pace. Mi sono detto che al mattino, dopo la messa, sarei andato a trovare il vescovo.

Così ho fatto. Volevo aprire la porta per entrare nella segreteria. Ma la porta si apriva come da sé e davanti a me c’era lui. Mi ha salutato come se mi stesse aspettando e mi ha invitato nel suo studio. Abbiamo potuto parlare apertamente di tutto e chiarire ogni cosa.

Ho capito un po’ quanto sia difficile per lui amministrare l’economia: accontentare tutti usando una carità oculata, amministrare il denaro con trasparenza senza lasciarsi ingannare, venire incontro alle necessità urgenti e agli imprevisti senza perdere d’occhio le finalità di chi ha dato aiuti, ecc.

Uscendo avevo la gioia nel cuore e l’unità piena col vescovo.

L’unità con gli altri sacerdoti

Il nostro vescovo ha scelto come motto del suo episcopato: «Che tutti siano uno». In tutto quello che fa cerca di lasciarsi guidare da questa parola chiave della preghiera sacerdotale di Gesù. Così ha cercato di alimentare lo spirito di famiglia fra i sacerdoti, le suore che lavorano in diocesi, i laici responsabili nei diversi ministeri e il popolo.

Si è tenuta un’assemblea diocesana per trovare una linea pastorale comune per ascoltare la gente. Si sono formulate tante domande per capire meglio la situazione positiva e negativa del popolo, “le luci e le ombre”. Inoltre si pregava, si meditava, si scambiavano esperienze concrete. Alla luce della spiritualità di comunione si è esaminato il materiale elaborato dai fedeli nei villaggi già prima dell’assemblea. Alla fine il vescovo insieme con il Consiglio ha tracciato una linea pastorale comune da attuare in tutte le parrocchie.

Anch’io ero felice di questo lavoro e cercavo di collaborare il meglio possibile. Non mancavano le difficoltà, perché per alcuni sacerdoti non era facile entrare in questa nuova linea, che esigeva una certa rinuncia ad un modo di fare piuttosto individualistico.

Nel nostro vicariato, per facilitare una maggiore comunione tra noi cinque parroci e con i nostri collaboratori laici, abbiamo deciso di trovarci noi sacerdoti ogni mese in una parrocchia diversa, per una semplice cena.

In in clima spontaneo e distensivo è stato più facile conoscerci meglio e condividere i pesi e le gioie di ognuno. Questo contatto personale ci ha aiutato molto anche nel lavoro: nelle confessioni degli studenti, nella celebrazione dei matrimoni, nei funerali; e, quando uno doveva assentarsi, era normale che l’altro lo sostituisse per qualsiasi evenienza in parrocchia.

Ciò ha portato frutti anche nella pastorale giovanile. Abbiamo organizzato nella piazza della città una serata chiamata U-nite = notte d’unità. Ognuno dei parroci portava i suoi giovani. Abbiamo invitato anche alcuni membri della parte giovanile del Movimento dei focolari (i gen), già conosciuti dai nostri parrocchiani, che hanno aiutato le diverse parrocchie nel preparare canti, danze ed esperienze. Dopo questo momento ricreativo è stato presentato un punto della spiritualità di comunione in forma adatta a loro, lanciando la Parola di vita: una frase breve e compiuta della Scrittura da mettere in pratica nella vita quotidiana. Siccome la festa si svolgeva in piazza, sono venuti anche degli adulti attratti dall’atmosfera che vi si respirava.

Queste U-nite hanno dato un grande impulso ai gruppi giovanili delle diverse circoscrizioni parrocchiali perché tanti giovani, cercando di vivere la Parola, si sono inseriti spontaneamente nella propria parrocchia ed alcuni hanno scoperto la propria vocazione. Il loro comportamento ha avuto un riflesso nelle scuole e alcuni maestri, notando il profondo cambiamento nei loro alunni, si sono interessati anch’essi a questo stile di vita.

Abbiamo pensato allora che la formazione di laici con responsabilità nella comunità era meglio farla a livello di vicariato: si conoscevano meglio, si sentivano arricchiti dallo scambio delle esperienze e imparavano gli uni dagli altri. Avevamo trovato la strada giusta per vivere insieme, loro e noi, il Vangelo, scambiarci le idee che nascevano e aiutarci nell’attuare i programmi pastorali suggeriti dalla diocesi o germogliati dalla vita stessa delle nostre comunità.

Ovviamente abbiamo fatto tutto in sintonia col vescovo, che ci ha incoraggiati ad andare avanti.

L’unità col Consiglio pastorale
della parrocchia

Un’altra esperienza l’abbiamo vissuta nel Consiglio pastorale. Ci eravamo messi d’accordo che le nostre decisioni sarebbero state prese all’unanimità in modo che ognuno si sentisse responsabile e potesse poi portare avanti il suo compito come espressione di un corpo, di Gesù presente in mezzo a noi uniti nel suo nome.

Un giorno ci siamo radunati. Sentivo che c’era nell’aria qualcosa che disturbava. La responsabile della segreteria della parrocchia aveva fatto uno sbaglio, attribuendolo però agli altri. Cominciava una discussione vivace, tirando fuori anche cose successe nel passato. Ho invitato tutti a metterci davanti a Dio, perché ognuno di noi ha fatto degli sbagli e tutti insieme dobbiamo buttarci nella misericordia divina. Poi ho chiesto di ascoltare bene la segretaria. Questa ha cominciato a difendersi e alla fine ha dato la colpa a me. Ho ascoltato con calma, vedendo veramente Gesù in lei. Quando ha smesso di parlare, le ho chiesto con molta calma: «Ma sei proprio convinta che sia vero quello che hai detto?». Mi ha fissato negli occhi, poi ha cominciato a piangere e dopo un po’ di silenzio ha riconosciuto che non era vero, che a sbagliare era stata lei a causa dei tanti problemi che ha in famiglia.

Si è creato un momento di forte unità e lei, sentendosi capita dagli altri, si è calmata. Il raduno è andato benissimo. Io ero molto felice, perché nel nostro ambiente normalmente non è facile discutere le cose in modo così aperto e in pubblico. Era stato un frutto della comprensione e dell’amore di tutti. Questo è stato possibile solo dopo alcuni anni nei quali avevamo cercato di vivere insieme la Parola di Dio.

L’ecumenismo

Nelle Filippine la maggioranza della populazione appartiene alla Chiesa cattolica romana. Ci sono però tante altre denominazioni cristiane. Anche nella mia parrocchia c’è questa varietà. Proprio di fronte alla mia canonica c’è un tempio dell’Assemblea di Dio.

Da tempo avevo il desiderio di visitarlo. Un giorno sono andato e il pastore mi ha accolto con tanta gentilezza e mi ha detto: «L’aspettavo. Spesso ascolto le sue omelie e ho visto che lei vive quello che insegna».

Dopo esserci presentati a vicenda siamo entrati in un profondo colloquio, raccontandoci della nostra vita, della nostra esperienza di fede. Ci siamo lasciati colla convinzione di rivederci ancora.

Alcuni mesi dopo c’è stato un forte tifone che ha distrutto e danneggiato tante case nella nostra provincia. Migliaia di grossi alberi di mango sono caduti, provocando danni ingenti. Anche il tempio della Chiesa Indipendente Filippina – una porzione di Chiesa staccatasi nel passato da quella cattolica – era rimasto senza tetto e senza finestre. Erano passati mesi senza che fosse fatta alcuna riparazione, perché mancavano i mezzi.

Un giorno andando in un villaggio per celebrare la Messa sono passato proprio accanto a quell’edificio. Era in condizioni così desolanti che mi ha toccato il cuore. Una voce dentro mi diceva: «Non ho più casa...». Mi sono ricordato di aver ricevuto proprio alcuni giorni prima una provvidenza in denaro. Perché non darla a questi fratelli?

Il giorno dopo ho comunicato la cosa al presidente del Consiglio pastorale della nostra parrocchia, ma questi sul momento mi ha risposto che non gli sembrava opportuno, avendo noi stessi tanti bisogni. Ho spiegato che se noi fossimo nella loro situazione, saremmo ben felici se qualcuno ci aiutasse. Inoltre avevo l’impressione che quella voce che sentivo dentro di me venisse da Dio. Fatto sta che poi sia il presidente che tutti i membri del consiglio, quando sono stati da me bene informati, erano così entusiasti dell’idea che hanno voluto venire con me a portare la nostra offerta. Non avendo trovato il responsabile della parrocchia in casa, abbiamo lasciato il dono al sacrestano.

Il giorno dopo il responsabile di quella parrocchia e il suo Consiglio sono venuti a ringraziarci. Li abbiamo invitati ad una merenda: c’era aria di festa. Siamo diventati amici. Ci hanno chiesto di andare a una loro festa. Abbiamo accettato. Ora il clima fra i fedeli delle nostre due comunità è migliorato: si cammina verso la fraternità senza confusioni.

In seguito ho manifestato al responsabile di questa comunità il desiderio d’incontrarci mensilmente per mantenere viva la nostra amicizia. Era subito d’accordo. Quando gli ho accennato che anche il pastore dell’Assemblea di Dio era interessato a venire, siamo andati insieme a fargli l’invito. In seguito altri due pastori si sono aggiunti.

Nei nostri raduni mensili ho cercato di fare il vuoto dentro di me per ascoltare bene tutto quello che ognuno diceva. Ho proposto di non fare discussioni teologiche, ma piuttosto puntare su come vivere la Parola di Dio per poi scambiarci le nostre esperienze al riguardo. Tutti erano d’accordo.

Avendo saputo che nella mia comunità tanti cerchiamo di vivere la “Parola di vita” commentata da Chiara Lubich, hanno voluto seguire il nostro esempio, facendomi notare che essi potevano accettare ogni commento della Lubich, perché «si tratta proprio di Vangelo e va bene per tutti».

È cresciuta sempre più tra noi la fiducia mutua. In questo clima è stato facile preparare insieme la “preghiera ecumenica” in occasione della festa civile della nostra cittadina. La cerimonia si è svolta alla presenza del sindaco, di tutti i maestri e gli impiegati del municipio e con una buona partecipazione di popolo.

Georg Pfender