Benedetto XVI: per uno stile di vita presbiterale

 

Costruire la casa di Dio nel mondo di oggi

 

Insegnamenti di Benedetto XVI

a cura di Mario Bodega

 

Sono ormai diversi gli incontri tra Benedetto XVI e gruppi di sacerdoti. Colpisce sempre la sua disponibilità a lasciarsi interpellare in un sincero atteggiamento di ascolto, con un’attenzione ad ogni interlocutore, senza fretta, col sorriso sulle labbra, accogliente e rassicurante. Il suo approccio è già di per sé messaggio e testimonianza di un sacerdozio “mariano”: di chi si considera «umile servitore nella vigna del Signore». Riportiamo di seguito stralci salienti di due di questi interventi.

Riconoscere i nostri limiti:
è Dio a guidare la Chiesa1

Le parole di san Gregorio Magno (…) – che ognuno conosca «infirmitatem suam» – valgono anche per il Papa. Anche il Papa, giorno per giorno, deve conoscere e riconoscere «infirmitatem suam», i suoi limiti. Deve riconoscere che solo nella collaborazione con tutti, nel dialogo, nella cooperazione comune, nella fede, come «cooperatores veritatis» – della Verità che è una Persona, Gesù – possiamo fare insieme il nostro servizio, ciascuno per la sua parte. In questo senso, le mie risposte non saranno esaustive ma frammentarie.

Tuttavia, accettiamo proprio questo: che solo insieme possiamo comporre il «mosaico» di un lavoro pastorale che risponde alla grandezza delle sfide. (...).

Ma, devo dire, che ognuno di noi ha momenti in cui può scoraggiarsi davanti alla grandezza di ciò che bisognerebbe fare e ai limiti di quanto invece può realmente fare.

Questo riguarda di nuovo anche il Papa. Che cosa devo fare in quest’ora della Chiesa, con tanti problemi, con tante gioie, con tante sfide che riguardano la Chiesa universale? Tante cose succedono giorno per giorno e non sono in grado di rispondere a tutto. Faccio la mia parte, faccio quanto posso fare. Cerco di trovare le priorità. E sono felice di essere coadiuvato da tanti buoni collaboratori. E solo con questa rete di collaborazione, inserendomi con le mie piccole capacità in una totalità più grande, posso e oso andare avanti.

E così, naturalmente, ancora più un parroco che sta da solo, vede che tante cose ci sarebbero da fare (...). E può fare solo qualcosa, “tamponare”, fare una specie di “pronto soccorso”, consapevole che si dovrebbe fare molto di più. Direi, allora, che la prima necessità di noi tutti è di riconoscere con umiltà i nostri limiti, riconoscere che dobbiamo lasciar fare la maggior parte delle cose al Signore.

Oggi, abbiamo sentito nel Vangelo la parabola del servo fidato (Mt 24, 45-51). Questo servo – così ci dice il Signore – dà il cibo agli altri al tempo giusto. Non fa tutto insieme, ma è un servo saggio e prudente, che sa distribuire nei diversi momenti quanto deve fare in quella situazione. Lo fa con umiltà, ed è anche sicuro della fiducia del suo padrone. Così noi, dobbiamo fare il possibile per cercare di essere saggi e prudenti, e anche avere fiducia nella bontà del nostro “Padrone”, del Signore, perché alla fine deve egli stesso guidare la sua Chiesa.

Noi ci inseriamo con il piccolo dono nostro e facciamo quanto possiamo fare, soprattutto le cose sempre necessarie: i Sacramenti, l’annuncio della Parola, i segni della nostra carità e del nostro amore. (...).

Direi, quindi, che la Chiesa ci dà, quasi ci impone – ma sempre come una Madre buona – di avere tempo libero per Dio, con le due pratiche che fanno parte dei nostri doveri: celebrare la Santa Messa e recitare il Breviario. Ma più che recitare, realizzarlo come ascolto della Parola che il Signore ci offre nella Liturgia delle Ore. Occorre interiorizzare questa Parola, essere attenti a che cosa il Signore mi dice con questa Parola. (...).

Come donare Gesù 
presente nella Parola

Le parole di Gesù, degli Apostoli e anche dell’Antico Testamento, sono spirito e vita: in esso il Signore parla anche oggi. Penso che dobbiamo “sfidare” i teologi – il Sinodo lo ha fatto – ad andare avanti, ad aiutare meglio i parroci a preparare le omelie, a far vedere la presenza della Parola: il Signore parla con me oggi e non solo nel passato. Ho letto, in questi ultimi giorni, il progetto dell’Esortazione apostolica post-sinodale.

Ho visto, con soddisfazione, che ritorna questa “sfida” nel preparare modelli di omelia. Alla fine, l’omelia la prepara il parroco nel suo contesto, perché parla alla “sua” parrocchia. Ma, ha bisogno di aiuto per capire e per poter far capire questo “presente” della Parola, che non è mai una Parola del passato ma dell’ “oggi”. (...).

Prima ascoltare la Parola    
e poi annunciarla

Ars celebrandi: anche qui direi che ci sono dimensioni diverse. La prima dimensione è che la celebratio è preghiera e colloquio con Dio: Dio con noi e noi con Dio. Quindi, la prima esigenza per una buona celebrazione è che il sacerdote entri realmente in questo colloquio. Annunciando la Parola, si sente egli stesso in colloquio con Dio. È ascoltatore della Parola e annunciatore della Parola, nel senso che si fa strumento del Signore e cerca di capire questa Parola di Dio che poi è da trasmettere al popolo. È in colloquio con Dio, perché i testi della Santa Messa non sono testi teatrali o qualcosa di simile, ma sono preghiere, grazie alle quali, insieme con l’assemblea, parlo con Dio. Entrare quindi in questo colloquio è importante. San Benedetto, nella sua «Regola», dice ai monaci, parlando della recita dei Salmi: «Mens concordet voci». La vox, le parole precedono la nostra mente. Di solito non è così: prima si deve pensare e poi il pensiero diventa parola. Ma qui, la Parola viene prima. La sacra liturgia ci dà le parole; noi dobbiamo entrare in queste parole, trovare la concordia con questa realtà che ci precede.

Oltre a questo, dobbiamo anche imparare a capire la struttura della liturgia e perché è articolata così. La liturgia è cresciuta in due millenni e anche dopo la riforma non è divenuta qualcosa di elaborato soltanto da alcuni liturgisti. Essa rimane sempre continuazione di questa crescita permanente dell’adorazione e dell’annuncio. Così, è molto importante, per poterci sintonizzare bene, capire questa struttura cresciuta nel tempo ed entrare con la nostra mens nella vox della Chiesa. Nella misura in cui noi abbiamo interiorizzato questa struttura, compreso questa struttura, assimilato le parole della liturgia, possiamo entrare in questa interiore consonanza e così non solo parlare con Dio come persone singole ma entrare nel “noi” della Chiesa che prega. E così trasformare anche il nostro «io» entrando nel “noi” della Chiesa, arricchendo, allargando questo “io”, pregando con la Chiesa, con le parole della Chiesa, essendo realmente in colloquio con Dio.

Questa è la prima condizione: noi stessi dobbiamo interiorizzare la struttura, le parole della liturgia, la Parola di Dio. Così il nostro celebrare diventa realmente un celebrare “con” la Chiesa: il nostro cuore è allargato e noi non facciamo un qualcosa, ma stiamo “con” la Chiesa in colloquio con Dio.

Mi sembra che la gente avverta se veramente noi siamo in colloquio con Dio, con loro e, per così dire, attiriamo gli altri in questa nostra preghiera comune, attiriamo gli altri nella comunione con i figli di Dio; o se invece facciamo soltanto qualcosa di esteriore. (...).

Pastorale integrata:
saper delegare...

Non può fare tutto il parroco! È impossibile! Non può essere un “solista”, non può fare tutto, ma ha bisogno di altri operatori pastorali. Mi sembra, che oggi, sia nei Movimenti, sia nell’Azione Cattolica, nelle nuove Comunità che esistono, abbiamo operatori che devono essere collaboratori nella parrocchia per una pastorale “integrata”. Vorrei dire che oggi è importante per questa pastorale “integrata” che gli altri operatori che ci sono, non solo siano attivati, ma si integrino nel lavoro della parrocchia.

Il parroco non deve solo “fare” ma anche “delegare”. Essi devono imparare ad integrarsi realmente nel comune impegno per la parrocchia, e, naturalmente, anche nell’autotrascendenza della parrocchia in un duplice senso: autotrascendenza nel senso che le parrocchie collaborano nella diocesi, perché il vescovo è il loro comune pastore e aiuta a coordinare anche i loro impegni; e autotrascendenza nel senso che lavorano per tutti gli uomini di questo tempo e cercano anche di far arrivare il messaggio agli agnostici, alle persone che sono alla ricerca. (...).

Imparare la necessità
della sofferenza

Noi sacerdoti, sia giovani che adulti, dobbiamo imparare la necessità della sofferenza, della crisi. Dobbiamo sopportare, trascendere questa sofferenza. Solo così la vita diventa ricca. Per me ha un valore simbolico il fatto che il Signore porti per l’eternità le stimmate. Espressione dell’atrocità della sofferenza e della morte, esse sono adesso sigilli della vittoria di Cristo, di tutta la bellezza della sua vittoria e del suo amore per noi.

Dobbiamo accettare, sia da sacerdoti sia da sposati, la necessità di sopportare la crisi dell’alterità, dell’altro, la crisi in cui sembra che non si possa più stare insieme. Gli sposi devono imparare insieme ad andare avanti, anche per amore dei bambini, e così conoscersi di nuovo, amarsi di nuovo, in un amore molto più profondo, molto più vero. Così, in un cammino lungo, con le sue sofferenze, realmente matura l’amore.

Mi sembra che noi sacerdoti possiamo anche imparare dagli sposi, proprio dalle loro sofferenze e dai loro sacrifici. Spesso pensiamo che solo il celibato sia un sacrificio. Ma, conoscendo i sacrifici delle persone sposate – pensiamo ai loro bambini, ai problemi che nascono, alle paure, alle sofferenze, alle malattie, alla ribellione, e anche ai problemi dei primi anni, quando le notti trascorrono quasi sempre insonni a causa dei pianti dei piccoli figli – dobbiamo imparare da loro, dai loro sacrifici, il nostro sacrificio. E insieme imparare che è bello maturare nei sacrifici e così lavorare per la salvezza degli altri. (...).

Servizio, non carrierismo2

«Io sono la porta» (Gv 10, 7). È attraverso di Lui che si deve entrare nel servizio di pastore. Gesù mette in risalto molto chiaramente questa condizione di fondo affermando: «Chi … sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante» (Gv 10, 1). La parola “sale” evoca l’immagine di qualcuno che si arrampica sul recinto per giungere, scavalcando, là dove legittimamente non potrebbe arrivare. “Salire” – si può qui vedere anche l’immagine del carrierismo, del tentativo di arrivare “in alto”, di procurarsi una posizione mediante la Chiesa: servirsi, non servire. È l’immagine dell’uomo che, attraverso il sacerdozio, vuole farsi importante, diventare un personaggio; l’immagine di colui che ha di mira la propria esaltazione e non l’umile servizio di Gesù Cristo. Ma l’unica ascesa legittima verso il ministero del pastore è la croce. È questa la porta. Non desiderare di diventare personalmente qualcuno, ma invece esserci per l’altro, per Cristo, e così mediante lui e con lui esserci per gli uomini che egli cerca, che egli vuole condurre sulla via della vita. Si entra nel sacerdozio attraverso il sacramento – e ciò significa appunto: attraverso la donazione totale di se stessi a Cristo, affinché egli disponga di me; affinché io lo serva e segua la sua chiamata, anche se questa dovesse essere in contrasto con i miei desideri di autorealizzazione e stima.

Entrare per la porta, che è Cristo, vuol dire conoscerlo ed amarlo sempre di più, perché la nostra volontà si unisca alla sua e il nostro agire diventi una cosa sola col suo agire. Cari amici, per questa intenzione vogliamo pregare sempre di nuovo, vogliamo impegnarci proprio per questo, che cioè Cristo cresca in noi, che la nostra unione con lui diventi sempre più profonda, cosicché per il nostro tramite sia Cristo stesso Colui che pasce.

Donare la vita per gli altri

Guardiamo ora più da vicino le tre affermazioni fondamentali di Gesù sul buon pastore. La prima, che con grande forza pervade tutto il discorso sui pastori, dice: il pastore dà la sua vita per le pecore. Il mistero della Croce sta al centro del servizio di Gesù quale pastore: è il vero grande servizio che egli rende a tutti noi. Egli dona se stesso.

Per questo, a buona ragione, al centro della vita sacerdotale sta la sacra Eucaristia, nella quale il sacrificio di Gesù sulla croce rimane continuamente presente tra di noi. E a partire da ciò impariamo anche che cosa significa celebrare l’Eucaristia in modo adeguato: è un incontrare il Signore che per noi si spoglia della sua gloria divina, si lascia umiliare fino alla morte in croce e così si dona a tutti noi.

È molto importante per il sacerdote l’Eucaristia quotidiana, nella quale si espone sempre di nuovo a questo mistero; sempre di nuovo pone se stesso nelle mani di Dio sperimentando al contempo la gioia di sapere che egli è presente, mi accoglie, sempre di nuovo mi solleva e mi porta. L’Eucaristia deve diventare per noi una scuola di vita, nella quale impariamo a donare la nostra vita. La vita non la si dona solo nel momento della morte e non soltanto nel modo del martirio. Noi dobbiamo donarla giorno per giorno. Occorre imparare giorno per giorno che io non possiedo la mia vita per me stesso. Giorno per giorno devo imparare ad abbandonare me stesso; a tenermi a disposizione per quella cosa per la quale Egli, il Signore, sul momento ha bisogno di me, anche se altre cose mi sembrano più belle e più importanti. Donare la vita, non prenderla.

È proprio così che facciamo l’esperienza della libertà. La libertà da noi stessi, la vastità dell’essere. Proprio così, nell’essere utile, la nostra vita diventa importante e bella. Solo chi dona la propria vita, la trova.

«Conoscerli» in senso biblico: legarli non a noi, ma a Dio

Come seconda cosa il Signore ci dice: «Io conosco le mie pecore, e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre» (Gv 10, 14-15). Sono due rapporti apparentemente del tutto diversi che qui si trovano intrecciati l’uno con l’altro: il rapporto tra Gesù e il Padre e il rapporto tra Gesù e gli uomini a lui affidati. Ma entrambi i rapporti vanno proprio insieme, perché gli uomini, in fin dei conti, appartengono al Padre e sono alla ricerca di lui. Quando si accorgono che uno parla soltanto nel proprio nome e attingendo solo da sé, allora intuiscono che egli non può essere ciò che stanno cercando. Laddove però risuona in una persona la voce del Padre, si apre la porta della relazione che l’uomo aspetta. Così deve essere quindi anche nel nostro caso. Innanzitutto e nel nostro intimo dobbiamo vivere il rapporto con Cristo e per il suo tramite con il Padre; solo allora possiamo veramente comprendere gli uomini, e allora essi si rendono conto di aver trovato il vero pastore.

Ovviamente, nelle parole di Gesù è anche racchiuso tutto il compito pastorale pratico, di seguire gli uomini, di andare a trovarli, di essere aperti per le loro necessità e le loro domande. Ovviamente è fondamentale la conoscenza pratica, concreta delle persone a me affidate, e ovviamente è importante capire questo “conoscere” nel senso biblico: non c’è un vero conoscere senza amore, senza un rapporto interiore, senza una profonda accettazione dell’altro. Il pastore non può accontentarsi di sapere i nomi e le date. Il suo conoscere deve essere sempre anche un conoscere con il cuore.

Questo però è realizzabile in fondo soltanto se il Signore ha aperto il nostro cuore; se il nostro conoscere non lega le persone al nostro piccolo io privato, al nostro proprio piccolo cuore, ma invece fa sentire loro il cuore di Gesù, il cuore del Signore. Deve essere un conoscere col cuore di Gesù e orientato verso di Lui, un conoscere che non lega l’uomo a me, ma lo guida verso Gesù rendendolo così libero e aperto. Affinché questo ci sia donato, vogliamo sempre di nuovo pregare il Signore.

L’unità si ottiene      
vivendo il mistero della croce

Infine il Signore ci parla del servizio dell’unità affidato al pastore: «Ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore» (Gv 10, 16). È la stessa cosa che Giovanni ripete dopo la decisione del sinedrio di uccidere Gesù, quando Caifa disse che sarebbe stato meglio se uno solo fosse morto per il popolo piuttosto che la nazione intera perisse.

Giovanni riconosce in ciò una parola profetica e aggiunge: «Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (11, 52). Si rivela la relazione tra Croce e unità; l’unità si paga con la Croce. Soprattutto però emerge l’orizzonte universale dell’agire di Gesù. Se Ezechiele nella sua profezia sul pastore aveva di mira il ripristino dell’unità tra le tribù disperse d’Israele (cf Ez 34, 22-24), si tratta ora dell’unificazione di tutti i figli di Dio, dell’umanità – della Chiesa di giudei e di pagani. La missione di Gesù riguarda l’umanità intera, e perciò alla Chiesa è data una responsabilità per tutta l’umanità, affinché essa riconosca Dio, quel Dio che, per noi tutti, in Gesù Cristo si è fatto uomo, ha sofferto, è morto ed è risorto.

La Chiesa non deve mai accontentarsi della schiera di coloro che a un certo punto ha raggiunto. Non può ritirarsi comodamente nei limiti del proprio ambiente. È incaricata della sollecitudine universale, deve preoccuparsi di tutti. Questo grande compito dobbiamo “tradurre” nelle nostre rispettive missioni. (...).

a cura di Mario Bodega

 

 

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01) Ai sacerdoti della Diocesi di Albano, Castel Gandolfo 31/08/2006.

02) Omelia in occasione dell’ordinazione presbiterale di 15 diaconi della diocesi di Roma, 07/05/2006.