Don Silvano e il suo medico

Prof. Luciano Donati

 

Ho conosciuto don Silvano, da poco giunto a Roma, all’inizio degli anni ’60. Da allora ne è nata una immediata simpatia che si è trasformata in sincera amicizia col passare degli anni.

Sacerdote amico

Silvano suscitava affetto, interesse e stima perché straordinariamente disponibile all’ascolto, senza preclusioni per una persona di altre convinzioni quale ero io e la mia famiglia. Ancora oggi mia moglie, che con Silvano non ha mai avuto un colloquio approfondito, ha dichiarato che si è sempre sentita compresa, perché riconosceva in lui forti capacità intuitive.

Esperto di psicologia, reduce dall’assistenza religiosa in un riformatorio torinese, intavolava con me e con il comune amico, il dottor Cosimo Calò, discussioni sulle reciproche influenze tra psiche e corpo. Già all’epoca, pur riconoscendo a Freud l’importanza di avere descritto e dato risalto all’inconscio, ne negava la validità terapeutica. Con lui conoscemmo e studiammo C. G. Jung.

Intelligente, intuitivo, essenziale, più che parlare ascoltava ed interloquiva sopratutto per mettere in luce la verità latente nello spirito dell’interlocutore. Il confluire, nella stessa persona, del sacerdote, dello psicologo e del carisma di Chiara Lubich aveva realizzato, a mio avviso, un felice, singolare incontro.

Ricordo un episodio. Quando decidemmo per la prima comunione dei due miei figli, affidai a lui questo compito, consapevole delle sue capacità di dialogo con persone di altra cultura. La preparazione e la cerimonia furono una gioia per i partecipanti: tutti i miei parenti ed amici, anticlericali convinti, raccolsero spontaneamente una colletta con la quale il vescovo Acacio che officiava la cerimonia, acquistò i banchi per una scuola della sua diocesi brasiliana. Fu una delle prime occasioni in cui sperimentai l’importanza di una comunità sacerdotale e di futuri sacerdoti riuniti nel nome di Gesù, così come l’aveva organizzata Silvano.

Partito da Roma nel 1973 per ragioni professionali, continuai a frequentarlo saltuariamente, mantenendo così un altro prezioso contatto con il Movimento dei focolari. Le visite al Centro sacerdotale a Grottaferrata, oltre al periodico regolare contatto con il focolare cui appartengo, mi rafforzavano nella strada faticosamente intrapresa, grazie all’accoglienza di tutti e soprattutto di Silvano.

Paziente

Iniziai a curare Silvano sul finire del 1996, epoca in cui lo trovai affetto da due malattie che, come la maggioranza di quelle che affliggono l’umanità contemporanea, non danno segno di sé: i “killer silenziosi”, nel suo caso l’ipertensione e una neoplasia della prostata.

Si pose nell’immediato il problema di intervenire sulla carotide, ormai praticamente occlusa, in piena unità di pareri con i dottori Leonardo e Paolo Calò, rispettivamente cardiologo e chirurgo, giovani colleghi competenti e legati affettivamente a Silvano.

Quando, nel ’97, entrò barellato in sala operatoria, per l’intervento, salutò tutti con il suo tipico sorriso, stemperando gli astanti da quella naturale trepidazione che precede un atto operatorio così rischioso per la vita del paziente. Il suo atteggiamento di disponibilità e di ascolto, mise tutti, dal chirurgo all’ultimo inserviente, in uno stato d’animo che favorì non poco il buon esito.

Il Professor D’Andrea, all’epoca aiuto chirurgo, volle incontrarlo successivamente per un colloquio privato e, a distanza di tempo, mi chiese sue notizie con sincero interesse per quello che definì, un suo caro amico.

Qualche mese dopo, nell’agosto del ’97, si sottopose alla radioterapia necessaria per arrestare il progredire della neoplasia prostatica. Questa cura fu sopportata senza particolare problema né complicazioni. Anche in questa, come in tutte le altre circostanze, evitò di gravare sul suo focolare. Restò da solo a Roma, pur di non interrompere le vacanze estive programmate dai sacerdoti della sua comunità.

Rimaneva così da mettere sotto controllo l’ipertensione con un’adeguata terapia, cosa che, però comportò qualche difficoltà, perché Silvano non sempre la osservava. Forse vittima di un gap culturale circa il modo di essere delle malattie della nostra epoca e dell’importanza della terapia, considerava l’assenza di qualsiasi dolore come un segno di buona salute.

Ne scaturì un dialogo, basato sul reciproco rispetto, nel quale compresi che l’unica arma vincente per sottoporlo ai periodici controlli ed alla terapia ipotensiva era sottolineare la sollecitudine necessaria al doveroso mantenimento della salute del corpo per servire Dio e i fratelli.

Ma anche questo asserto, che sicuramente conosceva meglio di me, funzionava se si accorgeva del dispiacere che mi procurava il suo rifiuto; allora per amore nei miei confronti, accettava i consigli, non trascurando di ripetermi che dovevo però evitare l’accanimento terapeutico e l’eccessiva medicalizzazione del malato.

Un altro tema su cui non eravamo d’accordo era quello dell’età. Lui sosteneva che, alla sua età, sarebbe giusto uscire dalla scena di questo mondo; io contrapponevo il dato statistico della longevità, come fenomeno tipico dei paesi ricchi in generale e dell’Italia in particolare.

Oggi vedo questi confronti come circostanze volute da Dio per cimentare ed approfondire la nostra unità.

Perché comunque, alla fine, Silvano si sottoponeva a quella “rivoluzione permanente” che il progresso tecnico-scientifico della nostra epoca comporta: una serie infinita e costosa, in termini di tempo e denaro, di analisi e terapie? Lo fece soltanto per amore, non certamente per cercare di vivere quanto più possibile o per il naturale istinto di conservazione, distaccato come era ed è sempre stato dalla salute del corpo.

Costruttore d’unità

Le cure effettuate gli permisero così di riprendere le sue molteplici attività e di assumere altri incarichi molto impegnativi, come tessere una rete di collegamenti per il dialogo coi vari movimenti, la preparazione delle Giornate “Insieme per l’Europa” che si tennero a Stoccarda nella primavera del 2004 e del 2007. Per ottemperare nel migliore dei modi a questo importante appuntamento mi chiese di procrastinare l’inizio della terapia ormonale, volta a ritardare l’insorgenza di metastasi del cancro della prostata, nel timore che la cura riducesse le sue facoltà cognitive.

Gioioso di servire Dio attraverso il carisma di Chiara, accettava questi impegni con competenza, operosità, assiduità, spiccate capacità organizzative, nel contesto di un focolare in cui l’amore a Gesù Abbandonato e la presenza di Gesù in mezzo a loro era palpabile e non ho mai visto mancare.

Sul finire del 2003, inizio 2004 nacquero nuove difficoltà. Silvano ebbe un improvviso, notevole abbassamento della vista che richiese un ricovero urgente presso la Clinica Medica dell’Università Cattolica di Roma. Il suo atteggiamento nei confronti di questa ulteriore complicazione e del personale medico ed infermieristico rimane identico a quello osservato in occasione dell’intervento sulla carotide: nessuna apprensione per quanto è accaduto, ascolto, apertura, amore nei confronti di chi provvedeva a curarlo. La terapia antiipertensiva, concordata con i colleghi del Gemelli ed il dottor Leonardo Calò, ripristinò un visus accettabile, anche se non uguale alle condizioni precedenti. Dopo un mese di cure intensive Silvano riprese quindi la piena attività, sempre raccomandando a tutti la massima riservatezza sulle sue reali condizioni di salute.

Gli ultimi mesi

Si giunge così alla fine del 2006, sempre in condizioni di apparente buona salute, epoca in cui Silvano avverte una tumefazione in sede sopraclaveare destra e dolori lombari. Un controllo clinico fa pensare a due focolai tumorali, uno polmonare, l’altro sotto forma di una metastasi del tumore prostatico da cui, con tutta probabilità, deriva una frattura a carico della quarta e quinta vertebra lombare.

Quando a fine dicembre iniziano forti dolori, dobbiamo lavorare molto per la precisa somministrazione dei farmaci antidolorifici, perché Silvano, come sempre essenziale, non vuole disturbare nessuno. In questa fase mi rendo conto che, quanto più il male progredisce, tanto più appare libero.

Nonostante le precarie condizioni, il 30 dicembre 2006 va a parlare a un incontro di gens (seminaristi aderenti al Movimento dei focolari), sopportando dolori di notevole intensità.

In seguito, il dolore raggiunge un’acme tale da impedire la stazione eretta. Si rende perciò necessario un ricovero presso la Clinica “Assunzione di Maria SS.” delle Suore di Maria Riparatrice dove si provvede, in collaborazione con il dottor Mauro Trevisan, ortopedico, all’allestimento di un busto che scarica il peso dalla zona fratturata, ad adeguata fisiocinesiterapia, ed all’amorevole e competente assistenza infermieristica delle suore Elisea Iacobelli e Giovanna Pillon. In questa circostanza, le suore ed il personale tutto rimangono colpiti dalla sua testimonianza di amore a Gesù abbandonato e l’intensa fraternità tra lui ed i sacerdoti che andavano a trovarlo.

Riportato al proprio domicilio, è assistito dai sacerdoti del suo focolare nel migliore dei modi. Ormai, a questo punto, qualsiasi atto medico che non si limiti alla terapia del dolore sarebbe stato accanimento terapeutico, ed a questa strategia mi sono scrupolosamente attenuto, garantendo più volte a Silvano analogo comportamento.

Tornato a casa, egli ha rivisto lettere, ricevuto e fatto telefonate, programmato attività future. Evidentemente viveva l’attimo presente con perfezione: con i piedi per terra e con lo spirito proiettato nell’eternità.

In questa fase, sempre sorridente, è quasi sempre a letto e, nei pochi momenti in cui si solleva, deve indossare il busto ortopedico. Alle poche persone che vede comincia ad inviare “i pizzini”, in forma piemontese, con molto garbo, “per caso”. Alla superiora della clinica che, nel salutarlo, si raccomanda alle sue preghiere risponde con un “sempre” molto significativo.

Una sera, nel salutarlo, chiesi se dovessimo vederci il giorno dopo. Risposta: “Vieni quando vuoi, ma torna sempre!”.

Un altro giorno mi racconta, felice, di aver affidato a Mario Bodega la sua biblioteca per la futura Università di Loppiano.

Ad Enrico Pepe, nell’augurare la buona notte si raccomanda di tenere Gesù in mezzo sempre.

Il pomeriggio del suo ultimo giorno assiste, via internet, al primo congresso di “Medicina, Dialogo, Comunione”; è entusiasta e spera che i laici crescano sempre di più per portare Gesù nel mondo.

La sera di quel giorno avverte una modesta dispnea: chiamato al suo capezzale il dottor Mario Silvestri, questi, dopo accurato esame obiettivo del torace, mi riferisce telefonicamente di non aver notato nulla di particolare. Alle ore 21, nel dare la buona notte a Giò Aruanno che lo saluta per ultimo dice: «Mi raccomando: l’unità di tutti!».

Il 17 febbraio mattino, Giò porta, come al solito da quando Silvano non può più scendere, il caffè. Ma Silvano non risponde, è già in Paradiso.

Pur cosciente della situazione fin dal 1997 ed ancor più nella fase terminale, molto dolorosa, ha continuato a “giocare” fino all’ultimo, secondo la nota espressione di S. Luigi Gonzaga. E il suo gioco preferito era amare tutti, vivendo l’ideale dell’unità.

Silvano: l’uomo

Cosa dire, in conclusione, di quest’uomo?

Secondo me ricorda, per molti aspetti l’inizio del Libro della Sapienza (7, 22-24) perché era sicuramente intelligente, unico nel suo genere e ricco interiormente, sottile, agile, penetrante, limpido e senza macchia; benevolo, amante del bene e pronto ad agire, spontaneo, generoso e amico dell’uomo, sicuro, stabile, tranquillo, capace di controllare tutto e di arrivare al cuore dell’uomo di ogni persona intelligente, puro e fine.

E come seguace del carisma di Chiara e confondatore della parte sacerdotale del Movimento dei focolari, ricco di una fede adamantina, ha vissuto l’attimo presente in modo sempre più profondo, con un’eroica confidenza in Dio che gli ha consentito di rimanere tra noi fino all’ultimo giorno come uno che non era destinato a partire mai, anche se aveva la piena coscienza della situazione. Essenziale, discreto, umile, il Signore l’ha fatto partire per nuovi Cieli e nuove terre in punta di piedi, così come era vissuto durante la sua vita terrena.