Una delle prove più dure per i sacerdoti è il venir meno della comunione



L’amore esigente di Dio

Di Sebastián Carrera Mendoza

Normalmente non si presta la dovuta attenzione alle prove di cui è costellata la vita di ogni persona. Si pensa che “le notti” di cui parlano i mistici siano cose un po’ stratosferiche, riservate ai grandi santi, mentre il cammino del calvario è in realtà la via normale dell’umana perfezione. Il sacerdote, autore dell’articolo, ci offre uno spaccato della sua esperienza sostanziata di dolore che, trasformato in amore, è ricco di frutti.

Il ministero: carriera o servizio?

Il mio passaggio da parroco a cappellano d’ospedale è sembrato ad alcuni una punizione o per lo meno una retrocessione nella carriera. Tale interpretazione negativa era favorita dal fatto che il vescovo aveva ricevuto una raccolta di firme contro il mio trasferimento. Grande il mio sconcerto quando mi è stato insinuato che la cosa era stata organizzata a mia insaputa da due confratelli non per difendere chi sa quali miei diritti, ma per mettermi in cattiva luce presso la curia.

Mi era difficile giustificare questo brutto tiro. Dapprima non volevo crederci. Quando ho dovuto accettare la dura realtà, ho cercato di mettere in pratica il consiglio di sant’Agostino: «Se non puoi scusare l’azione, scusa almeno l’intenzione». Chi può entrare nel cuore umano e capirlo fino in fondo? Forse i miei colleghi erano convinti di fare qualcosa di buono, senza rendersi conto che avrebbero aumentato il mio disagio. Per questo non ho mai rotto i rapporti, anzi ho cercato di manifestare loro il mio amore nella misura in cui riuscivo.

Attraverso questa prova ho imparato che il perdono rimane vero anche quando le cicatrici interiori richiedono tempo per sparire del tutto.

Quando il vescovo mi aveva chiesto se ero disponibile per il servizio in ospedale al posto del cappellano in pensione, mi aveva detto che aveva già fatto questa proposta ad altri, ma tutti gli interpellati avevano presentato le loro difficoltà ed egli si era convinto che per tale compito “occorre una vocazione particolare”, dovendo vivere sempre a contatto con la sofferenza, anche perché una delle condizioni è che il cappellano alloggi nello stesso ospedale per essere disponibile ad ogni ora del giorno e della notte, avendo un solo giorno libero alla settimana.

Non mi sembrava giusto rifiutare questa richiesta ed ho accettato subito, come avevo fatto per ben tredici volte nel passato, quando i tre vescovi precedenti mi avevano chiesto di cambiare mansione, convinto che quando Dio chiama, dona anche tutte le grazie necessarie.

Il vescovo era sorpreso della mia disponibilità immediata e, non volendo che mi sobbarcassi ad una missione troppo faticosa, ha insistito che riflettessi ancora prima di decidere: egli stesso mi avrebbe nuovamente interpellato.

Dopo due mesi mi ha chiamato per sapere cosa avevo deciso. La mia risposta affermativa lo ho rassicurato. Gli ho detto con spontaneità: «Quando sono diventato sacerdote ho dato il mio sì a Dio e desidero restare nella Sua volontà che ora lei mi esprime. Le assicuro che vado nel nuovo campo non con la preoccupazione di dover stare continuamente a contatto con la sofferenza, ma con la certezza di incontrare e amare Gesù presente in modo speciale nei sofferenti». Il vescovo era contento non solo per aver risolto un problema, ma anche per questa visione cristiana dei malati.

Le prove ci purificano

Prima ancora di lavorare in questa parrocchia ero stato incaricato come amministratore di una parte molto consistente dell’economia della diocesi. Durante i cinque anni vissuti come amministratore, Gesù ha permesso che passassi una prova con tutti i fenomeni che si vivono nella depressione. Pur sapendo che si trattava di una prova spirituale, mi ritrovavo con il fisico e la psiche completamente coinvolti e conseguentemente in quei due anni ho sofferto un’insonnia quasi totale con varie altre immaginabili conseguenze.

La causa scatenante era stato il fallimento del mio rapporto con il vescovo dopo un episodio amministrativo che, pur compiuto da lui in buona fede, in coscienza non mi sentivo di avallare. Dopo qualche mese abbiamo chiarito la cosa e ci siamo dichiarati reciprocamente che quell’episodio non doveva distruggere il nostro rapporto di comunione. Purtroppo la mia salute era stata così minata da risentirne le conseguenze per ben due anni. Notte e giorno ripetevo a Gesù: «Lo vuoi tu: lo voglio anch’io!».

Era l’unica preghiera che riuscivo a ripetere, fino a quando, di fronte alla tremenda prospettiva di dover rimanere in questo stato per tutta la vita, un giorno gli ho detto: «Signore, se è questo che vuoi, sono pronto per sempre». Questo arrendermi totalmente a Dio mi fece dormire quella notte, per la prima volta dopo due anni, senza incubi e per otto ore di seguito. Quando mi svegliai al mattino, fu come se niente fosse successo nel mio recente passato.

La domenica successiva, appena mi sedetti in confessionale, vennero in successione ben 16 persone e tutte in situazioni di depressione. Capii allora che Dio mi aveva lasciato in quella galleria oscura perché mi appoggiassi solo a lui, purificando il mio cuore, e per poter comprendere e aiutare anche altri. Non c’è stato bisogno di ricorrere a psicologi né ho preso alcun farmaco per dormire, ma in due anni sono ricorso solo a tre camomille. Ho cercato di non far pesare questa prova sulla comunità dei sacerdoti con cui vivo né sul vescovo, anche se gli avevo chiesto di esonerarmi dal compito amministrativo, dove occorrono freschezza di forze e lucidità di mente.

Non mi sembra che questa prova abbia inficiato l’unione con Dio, anche se ridotta nelle manifestazioni esterne ai minimi termini, per il limite delle forze. Penso che in quel periodo sono rimasto in piedi, perché sostenuto dalla vita di comunione con i fratelli sacerdoti con cui mi sforzo di condividere la vita del Vangelo.

Oggi posso dire che, pur vivendo immerso nella notte, nella sensazione di un totale fallimento e con la perdita del senso e del gusto di vivere sotto tante forme, si sviluppava in me un rapporto nuovo con Dio. Non sarebbe stato così se avessi preferito affrontare da solo le mie difficoltà in un cammino individuale e forse avrei fatto tanta fatica per mantenermi a galla.

Partendo dalla parrocchia, nel saluto finale, dopo aver domandato perdono del mio amore limitato, ho chiesto di non fare più riferimento a me, ma a Gesù nel nuovo parroco. Penso che i parrocchiani lo abbiano capito, perché nel loro ringraziamento c’erano sentimenti sinceri di amore non tanto verso di me, ma verso il dono di Dio che è il parroco per i suoi parrocchiani.

I piedi per terra, il cuore con Gesù crocifisso e risorto

Ora da qualche anno lavoro in ospedale. Qui c’è un ricambio continuo di ammalati e tutti i giorni sono testimone di grazie particolari. Anzitutto non mi è mai capitato un solo giorno di sentire il vuoto ma sempre una pienezza inspiegabile. Cerco di valorizzare ogni rapporto, anche piccolissimo, nell’attimo presente: ed è più quel che ricevo di quello che riesco a donare. Se sto in punta di piedi, colgo l’opera di Dio negli ammalati, nei loro familiari e negli operatori sanitari. Non accetto facilmente inviti ad uscire fuori: mi meraviglio io stesso di non sentirne il bisogno né tanto meno mi sento un recluso. Accetto solo di andare a trovare qualche ammalato o qualche famiglia con cui è rimasto un rapporto profondo. Con altri, periodicamente li aggiorno se hanno una e-mail. Alcuni ritornano per controlli frequenti o periodici e vengono a cercarmi e non solo per un saluto. L’ospedale è come un piccolo osservatorio delle parrocchie delle cinque diocesi in mezzo alle quali è situato, ma a volte vengono ammalati da regioni lontane e anche dall’estero.

Vorrei trovare modi anche più concreti per un raccordo con le parrocchie: l’ammalato è il veicolo prezioso e valorizzo l’occasione della malattia per rimetterlo in relazione con la propria comunità parrocchiale, chiedendogli il favore di salutarmi il suo parroco. Sto incontrando anche persone che spiritualmente Dio stesso attira a sé lavorandole attraverso il dolore: hanno una vita di chi si sente già in un’altra dimensione. Non è facile trovare in una parrocchia un campo talmente ricco di tanti fiori così profumati… E non c’è da perdere tempo dietro l’organizzazione. C’è solo spazio per i rapporti interpersonali che ti fanno sperimentare la bellezza del ministero sacerdotale, che vissuto marianamente ti apre le porte segrete dei cuori.

Quando lavoravo in parrocchia, spesso mi chiedevo che cosa non funzionasse nel mio modo di vivere e di annunziare il Vangelo dal momento che non si realizzavano le parole di Gesù: «Guarite i malati, risuscitate i morti».

Ora ho un’altra prospettiva: non sono io che devo guarire i malati e risuscitare i morti, ma Gesù. A me tocca il compito di mantenere viva la comunione prima di tutto con i colleghi sacerdoti, poi con i malati e con tutto il personale dell’ospedale: a me dunque l’impegno quotidiano di vedere Gesù in tutti. Solo così riesco a portare la luce. “Facendomi uno” con ogni prossimo, più volte mi è giunta la risposta del Padre con la risurrezione interiore. Da questi contatti personali nascono colloqui semplici e profondi e allora al momento opportuno offro un segreto: guardare a Gesù e mettere in pratica la sua Parola. Questa è l’impostazione della mia pastorale in ospedale.

Il ministero nel quotidiano

Quanto di Evangelo vissuto ricevo dagli ammalati, cerco di farlo giungere a tutti e in questo modo sono essi stessi che donano “la Vita” agli altri: attraverso le loro esperienze, trascritte in un foglietto senza alcun commento e fatte circolare, illustrano in modo semplice e profondo il Vangelo della domenica, che in questo modo arriva ai circa 600 ammalati, ai loro familiari e agli operatori sanitari (sempre che lo desiderino). Senza fronzoli, ma nell’essenziale della liturgia – per amore dei malati che non possono resistere a lungo – faccio raccontare da loro quanto mi hanno scritto. L’emozione cresce a dismisura e un grazie spontaneo si eleva al Signore da tanti cuori, conquistati dalla fede di chi vive in prima persona il dolore trasformato in amore. E tanti ci ringraziano per le messe “vive”. C’è anche un gruppo di giovani che animano la liturgia ed esprimono armonia con la loro vita oltre che con i canti. Essi sono grati per le testimonianze che ascoltano.

Il giovane musulmano

L’altro giorno sono entrato in rianimazione: Guri, di 21 anni, non c’era più e il suo lettino era avvolto da un lenzuolo candido. Mi hanno detto che non ce l’aveva fatta. A me invece sembrava già come la tomba vuota della resurrezione. Anche un medico gli ha dedicato una poesia: ha lasciato un segno in tutti quelli che l’hanno conosciuto, per la sua serenità e il suo sorriso, anche se appena accennato. Avevo creato una rete di rapporti intorno a lui, anche con persone che, pur non potendo andare a trovarlo, gli hanno fatto sentire in vario modo la loro vicinanza affettuosa. A diciassette anni era venuto nel mio Paese per lavoro e da luglio dell’anno scorso per un tuffo in mare con acqua insufficiente è rimasto immobile in un letto. Mi aveva raccontato tutto questo un giorno in cui era in crisi e aveva concluso: «Allah mi sta punendo, perché prima ho fumato sigarette e ho bevuto», contravvenendo a quanto Egli comanda nel Corano. Dopo avergli comunicato che anch’io avevo fumato e bevuto, anzi che continuavo a bere un po’ di vino e ogni tanto qualche liquore, l’avevo tranquillizzato dicendogli che Dio rimane amareggiato solo quando non ci amiamo. Mi ha risposto: «Sono sicuro che Egli non mi abbandona!».

Guri aveva dovuto rifare un intervento alla schiena. Essendo di religione mussulmana. subito avevo pregato con lui: «Allah è grande!». Poi ero tornato varie volte a trovarlo mettendolo in contatto con un suo amico anch’egli paralizzato, ma ricoverato in un altro reparto. Dopo qualche giorno, mi aveva chiesto una foto di Giovanni Paolo II che egli ammirava. Non avendola trovata, una sua amica albanese, anch’ella mussulmana, era riuscita a trovarla. Lei aveva ricevuto in dono una boccettina di acqua della Madonna di Lourdes e ambedue mi avevano chiesto di usarla. Ho bagnato il pollice e poggiandolo sulla fronte, (senza fare il segno di croce), sulle labbra e sul cuore ho ripetuto per tre volte: «Allah è grande e conservi puri i tuoi pensieri, le tue parole e i tuoi affetti». Erano emozionati entrambi. È stato il nostro ultimo incontro su questa terra.

Il sacerdote paralizzato

Oggi sono stato a visitare don Mario nella sua abitazione. Era un parroco attivo, ma più di un anno fa ha subito un incidente ed è rimasto paralizzato a causa di una compressione del midollo spinale. Vado a trovarlo spesso e non di rado ho dovuto imboccarlo, ma mi chiede sempre uno scambio di esperienze, che egli definisce: “le ricchezze spirituali della Parola di Dio vissuta”. La luce interiore lo sostiene, pur con le preoccupazioni che lui e i parenti si portano nel cuore, dal momento che il recupero è lentissimo e non si sa se e quanto potrà recuperare.

È felice ogni qualvolta facciamo meditazione insieme o ci comunichiamo le esperienze sulla Parola di Dio o preghiamo insieme. L’altra settimana è ritornato qui in ospedale per una infezione: un falso allarme che ha influito negativamente su di lui, facendogli perdere in sette giorni il recupero ottenuto in due mesi. Ho cercato di coinvolgere anche altri sacerdoti e attorno a lui sta nascendo un “piccolo presbiterio vivo”.

Il “Codice da Vinci”

Ho salutato, in oculistica, Miranda. Mi ha attaccato per più di un’ora per tutte le cose scritte nel Codice da Vinci e per altro ancora. Non ho ribattuto, ma sono stato ad ascoltarla. Il giorno seguente l’ho incontrata nel reparto di medicina. Dopo il mio saluto ha ripreso le accuse contro la Chiesa. L’ho ascoltata ancora per un pezzo, poi ho potuto dirle che io ero felice della mia scelta e le ho raccontato come avevo scoperto Dio-Amore da un sacerdote divenuto cieco nel giorno della sua prima Messa. È stata ad ascoltare senza mai ribattere. Alla fine ha chiesto dov’era la cappella. A sera l’ho ritrovata che usciva dalla cappella. Mi ha chiesto di ritornare a trovarla nel reparto. Così nei giorni successivi: ogni sera un dialogo col sacerdote e una visita a Gesù.

Ora vorrei lasciare la parola direttamente ad alcuni ammalati.

Marcos desidera vivere…

«Conosco bene la situazione della mia salute: metastasi al fegato e alle ossa. Eppure ho molta fiducia, perché ci sono tante persone che stanno pregando per me. Desidero con tutto il cuore continuare a vivere su questa terra per guidare i miei figli. Uno di loro in particolare che si era allontanato dalla fede. Penso che il Signore abbia permesso la mia malattia per attirare nuovamente a Sé questo mio figlio: ha ricominciato a pregare e a frequentare la messa e i sacramenti.

Mia moglie è un vero angelo, perché, non solo mi conforta, ma mi sprona a reagire nella lotta contro la malattia. È questo il “vino” nella mia famiglia, come a Cana.

Sono in ospedale per sottopormi a tutte le cure necessarie, perché posso chiedere a Dio un miracolo, se faccio bene la mia parte. Il cappellano mi ha detto che sono già guarito, almeno interiormente perché vivo la malattia da sano. Già questo è un miracolo. Inoltre il dono della fede mi dà la certezza di una vita piena oltre la morte e la capacità di essere ancora più presente alla mia famiglia. Mi metto nelle mani di Dio: la mia parte è ridotta ai minimi termini in confronto alla sua».

Maria Cristina: quarantenne, sposata

«La mia storia di dolore e di luce è iniziata due anni fa, quando mi fu asportato un rene. Oggi faccio il bilancio della mia vita alla luce di questi due anni.

Sono stata sempre felice, anche durante la malattia, perché in ogni momento della mia vita mi sono sentita in braccio a Dio che tanto mi ama e che voglio anch’io riamare. In questi due anni con un catetere piantato nella schiena mi sembrava di condividere uno dei chiodi di Gesù sulla croce.

Il Signore mi aveva invitata ad essere un dono per gli altri. Ho donato le lacrime, la febbre, le paure, la fragilità, le notti insonni, i dolori di quattro interventi, anche per te a cui sta giungendo questa comunione della mia anima. Ho donato tutto ciò per la mia e la tua fede, per i malati, per i soli, per i bambini sfruttati, per tutte le vittime, per la mia Chiesa. Ho la certezza che il Signore mi ha esaudita, perché, se è Padre dei peccatori, figuriamoci se non ascolta noi ammalati!

Donando tutto a Gesù, mi sono ritrovata inserita nella grande famiglia della Chiesa. E chissà quanti altri, che non conosco, hanno donato preghiere e sofferenze anche per me, per la mia santificazione. Perché ciò che non viene donato, va perduto».

Antonia e il marito Vicente

«Ci siamo sposati 19 anni fa, pieni di amore e con in cuore il desiderio di avere figli, ma nonostante la nostra attesa paziente e l’aiuto di medici esperti il nostro sogno svanisce nel nulla. Dalla delusione sono passata alla depressione e anche la vita di coppia sembrava naufragare. Inoltre, mio marito ha avvertito sempre più che anche la sua salute non andava bene; fin quando qualche anno fa, lo schiacciamento delle vertebre, l’ha ridotto sulla sedia a rotelle.

Nei lunghi periodi di depressione, ho fatto man mano esperienza che è inutile voler scuotere mio marito con le parole. Solo la vicinanza, la piena disponibilità e l’aiuto concreto gli davano la necessaria sicurezza di essere da me accudito e mai abbandonato. Anni molto bui, in cui neanche la fede ci sosteneva più.

Ma proprio quando la croce diventava più pesante, quasi insopportabile, aiutati da persone adorabili, che ci sono state sempre vicine, abbiamo riscoperto che Dio non ci aveva mai dimenticati. E con il suo amore, giunto a noi attraverso l’amore concreto di queste persone, abbiamo recuperato la gratuità che ci fa valorizzare la vita come un dono di ciascuno per l’altro. Mai come ora possiamo manifestarcelo reciprocamente proprio nelle maggiori difficoltà.

Abbiamo la consapevolezza che nessuno di noi due può vivere senza l’altro. Posso dire di amarlo più di me stessa e sperimento gioie che sicuramente una vita diversa non poteva darci. Girando vari ospedali, toccando tanta sofferenza altrui, siamo stati sollecitati alla solidarietà verso di loro, donando quanto potevamo di noi stessi e della nostra ricchezza interiore».

Sebastián Carrera Mendoza