Qualche nota teologica su «Gesù abbandonato»

nel pensiero e nella spiritualità di Chiara Lubich



«IL Dio del nostro tempo»

Di Piero Coda



Gesù abbandonato è non solo la più alta ed emblematica lezione su cosa sia l’Amore, ma appare anche come “la” risposta a tutti i travagli e le “notti” dell’umanità. Offriamo perciò questo testo che costituisce, nella sua brevità, una sintesi teologica e spirituale molto precisa, di rara chiarezza e bellezza.

Il cuore del Nuovo Testamento è racchiuso in una piccola frase della prima lettera di Giovanni: «Dio è Amore» (4, 8.16) la cui spiegazione è Gesù Crocifisso: «In questo sta l’amore – scrive sempre la 1Gv –: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (4, 10).

La fede e l’autocoscienza della Chiesa, a livello profondo, l’hanno sempre saputo. Ma direi che solo oggi queste due realtà – Dio Amore e Gesù crocifisso e abbandonato – non solo acquistano un’indiscussa centralità, ma si presentano come i due fuochi di un’ellisse dove l’uno illumina l’altro, e viceversa.

E allora viene subito da chiedersi: perché solo oggi Gesù abbandonato assume esplicitamente questa centralità: sino a esser definito «il Dio del nostro tempo – come fa Chiara? Perché – penso – occorreva prima mettere al sicuro, nella coscienza della Chiesa, le due verità fondamentali della rivelazione: Gesù vero Dio e vero uomo, da una parte, e Dio Uno e Trino, dall’altra, come hanno fatto i dogmi dei primi secoli.

Il grido della croce nella tradizione teologica e mistica della Chiesa

Sinteticamente, possiamo distinguere due grandi epoche nella storia dell’interpretazione teologica e spirituale del grido dell’abbandono: quella dei Padri e dei Dottori medioevali e quella dei mistici e dei pensatori dell’epoca moderna, per giungere infine alla novità del XX secolo.

L’orizzonte interpretativo dei Padri e dei medioevali è decisamente cristologico e soteriologico: è cioè interessato all’identità di Gesù e al mistero di salvezza che si realizza nella sua passione e morte. Concordi nell’affermazione del Concilio di Calcedonia (451) sull’unità personale dell’umano e del divino in Gesù, essi si chiedono com’è possibile che egli, essendo il Verbo fatto carne, possa lanciare questo grido misterioso e a tutta prima scandaloso dalla croce, e quale significato esso abbia in rapporto alla redenzione dell’umanità.

I punti fermi acquisiti sono sostanzialmente due. Innanzi tutto, il fatto che Gesù abbia realmente gridato e patito l’abbandono, ma come uomo, perché – come spiega san Tommaso, utilizzando al meglio le risorse teologiche fino a lui maturate – Dio Padre ha permesso che sulla croce Gesù patisse la sofferenza della sua assenza, in quanto, in quel momento, la gioia che proveniva al Verbo incarnato dalla visione beatifica del Padre non illumina la “ragione inferiore” di Gesù (quella immersa nella temporalità attraverso il suo corpo)1.

E, in secondo luogo, che Gesù ha patito questa sofferenza in quanto capo del suo Corpo, e cioè dell’umanità peccatrice, che – proprio grazie alla solidarietà del Verbo incarnato – è stata redenta. A partire da Origene, sarà sant’Agostino a esprimere icasticamente tale concezione:

«Queste cose Cristo dice in persona del suo corpo, che è la Chiesa (...) perché dunque disdegniamo di udire la voce del corpo dalla bocca del capo? In Lui soffriva la Chiesa, quand’Egli pativa per la Chiesa, come anch’Egli pativa nella Chiesa, quando per Lui la Chiesa pativa. Come infatti udimmo la voce della Chiesa sofferente in Cristo: – Dio mio, Dio mio... –, così pure udimmo la voce di Cristo sofferente nella Chiesa: – Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?»2.

I mistici dell’epoca moderna, da quelli renani e fiamminghi a quelli spagnoli, alla scuola francese, interpretano il grido dell’abbandono nel contesto più antropologico e psicologico della modernità, soprattutto alla luce della loro personale esperienza di ascesa all’unione con Dio attraverso la spogliazione della “notte oscura”. Gesù crocifisso, nel vertice della sua desolazione, diventa il modello e il maestro della mistica cristiana. Paradigmatica l’interpretazione di san Giovanni della Croce, formulata nella prospettiva teologica della precedente tradizione:

«In quanto allo spirito, è certo che negli estremi momenti (Gesù) rimase anche annichilito nell’anima, essendo stato lasciato dal Padre senza consolazione e conforto alcuno, bensì nella più profonda aridità secondo la parte inferiore; tanto che sulla croce proruppe in quel doloroso lamento:

Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (...) fu proprio allora che compì l’opera più grande (...) con la quale riconciliò il genere umano con Dio, per mezzo della grazia.

(...) Il Padre in quei momenti lo abbandonò, affinché scontasse interamente il debito delle umane colpe e unisse l’uomo con Dio. Onde rimase quasi ridotto al nulla, secondo il detto del salmista: Ad nihilum redactus sum, et nescivi (Ps LXXVII, 22)»3.

Da ricordare inoltre l’interpretazione data da Lutero, nel contesto della riscoperta di una theologia crucis concentrata sul mistero dell’umanità e della passione di Cristo, poi ripresa da varie scuole, secondo cui nell’abbandono Gesù avrebbe sperimentato, in sostituzione dell’umanità peccatrice, la pena dell’inferno.

È rifacendosi sia alla mistica moderna (soprattutto renana) sia alla tradizione luterana, che il tema della kenosi di Gesù (Fil 2, 6), dell’assenza di Dio e persino della “morte di Dio”, spesso sotto la sferza di un’esperienza nuova e abissale della libertà e del male, diventano centrali nella filosofia di Hegel e Schelling e, tra l’800 e il ’900, di Nietzsche e Heidegger, per essere infine ripresi, in contesto esegetico e teologico, da autori come Karl Barth, Jürgen Moltmann ed E. Jüngel in campo evangelico, Sergej Bulgakov in cam-po ortodosso e von Balthasar in campo cattolico (alle cui spalle, come si sa, vi è l’esperienza mistica di Adrienne von Speyer). Possiamo riassumere le acquisizioni della teologia contemporanea sull’abbandono di Gesù con le parole della Commissione Teologica Internazionale del 1979, secondo cui oggi, alla luce della testimonianza biblica, «ciò che tradizionalmente veniva chiamato espiazione vicaria (Gesù soffre al posto nostro per redimerci dal peccato) deve venire compreso, trasformato ed esaltato come avvenimento trinitario» (IV, C. 3.5), perché «qualunque sia l’allontanamento dell’uomo peccatore nei riguardi di Dio, esso è sempre meno profondo del distanziarsi del Figlio rispetto al Padre nel suo svuotamento kenotico (Fil 2, 7) e nella miseria dell’abbandono (Mt 27, 46). Questo è l’aspetto proprio dell’economia della redenzione nella distinzione delle Persone della S. Trinità, che d’altro canto sono perfettamente unite nell’identità di una stessa natura e di un amore infinito» (D. 8)4.

Gesù abbandonato
e il carisma dell’unità

Anche solo a un primo approccio, l’intuizione mistica e teologica di Chiara su Gesù abbandonato mostra di essere, da un lato, profondamente radicata nella tradizione della Chiesa e, dall’altro, di muoversi in sintonia con la sensibilità della teologia e della filosofia contemporanee.

Quest’ultima caratteristica è tanto più interessante perché si tratta di un’intuizione che non è frutto di studio teologico ma di un’esperienza carismatica. Vi sono infatti carismi – spiega von Balthasar –, che hanno da Dio la luce di dischiudere uno sguardo nuovo sul centro della rivelazione. Tanto che Chiara ha potuto dire che il carisma dell’unità è «la rivelazione di Gesù abbandonato».

Questa intuizione, inoltre, è formulata, espressa e vissuta già a partire dagli anni ’40, quand’ancora questo tema era, se non sconosciuto, almeno del tutto marginale nella riflessione teologica e nell’esperienza spirituale comune della Chiesa. Anche se, in quegli stessi anni, Edith Stein, Simone Weil, Dietrich Bonhoeffer, sulla scia dell’inedita esperienza mistica di Teresa di Lisieux, Dottore della Chiesa, riscoprono come fosse la prima volta in 2000 anni di cristianesimo, che mentre tutto crolla e si sperimenta l’abisso della prova, è proprio lì, in quel tragico abbandono, che Cristo rivela il volto di Dio.

Ma, al di là di queste considerazioni, penso si possa affermare che l’intuizione di Chiara mostra una novità rispetto alla precedente tradizione, non solo, ma anche un’originalità sua propria rispetto al panorama contemporaneo.

Ovviamente, non è possibile in poche righe dar ragione delle ricche e originali implicazioni di questa intuizione: mi limito ad alcune che mi sembrano più essenziali. Si possono raccogliere in due fondamentali: prima di tutto, la comprensione del mistero dell’abbandono come evento trinitario, anzi, come porta d’accesso al mistero più profondo della vita di Dio Trinità; in secondo luogo, e di conseguenza, come chiave esistenziale dell’unione con Dio e insieme dell’unità con i fratelli.

Da notare, inoltre, la centralità che questo evento assume come chiave interpretativa dell’intero mistero cristiano e dell’esistenza umana, personale e sociale: a quanto mi consta, una centralità sconosciuta prima d’ora.

a) Gesù abbandonato,
rivelazione dell’Amore trinitario

Per quanto riguarda il primo punto, basti citare questa luminosa interpretazione che Chiara offre del mistero dell’abbandono in uno dei temi inediti del 1971, dove si congiungono la dimensione rivelativo-trinitaria (Gesù abbandonato “spiegazione” della vita trinitaria) e quella soteriologica (Gesù abbandonato redentore dell’umanità):

«Come un fiore completamente apertosi, completamente spiegato, dopo aver dato il proprio sangue, la propria morte naturale, Gesù da’ anche (...) la propria morte spirituale, la propria morte divina, dando Dio. Si svuota anche di Dio: dà Dio. E fa’ ciò nel momento dell’abbandono.

Abbandono reale per l’umanità di Gesù perché Dio la lascia nel suo stato senza intervenire. Abbandono irreale perché, essendo Dio, Dio è Uno e non può dividersi. Semmai può distinguersi; ma questo non è più dolore: è amore. Ed è ciò che può essere avvenuto in quel momento nel seno della SS. Trinità nei confronti della divinità di Cristo. (...)

Non può esser stata allora quella dell’abbandono una nuova operazione sul tipo di quella senz’altro avvenuta nell’incarnazione, quando la Trinità decretò che il Verbo si facesse carne, o nella resurrezione, quando la potenza del Padre lo resuscitò?

Il Padre, vedendo Gesù obbediente fino al punto d’esser pronto a rigenerare i suoi figli, a donargli una “nuova creazione” (2Cor 5,17) (...), lo vide così simile a Sé, uguale a Sé, quasi un altro Padre, da distinguerlo da Sé.

Sussulto di nuova gioia in Dio-Amore sempre nuovo. Grido di infinito dolore nell’umanità del Cristo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”»5.

Facciamo alcune osservazioni su questo testo.

Il sottofondo è la verità teologica dell’unione ipostatica: il Verbo, seconda persona della Trinità, ha assunto realmente e fino in fondo una natura umana. Ne consegue che è la persona del Verbo fatto carne che vive l’abbandono. Ciò permette di contemplare in esso, distinguendole senza separarle, una dimensione divina e una dimensione umana.

Innanzi tutto, l’abbandono, in quanto vissuto dal Verbo fatto carne, dischiude il mistero dell’Essere di Dio come Amore trinitario. Come Chiara afferma in altro luogo:

«Tre (...) formano la Trinità eppure sono Uno perché l’Amore è e non è nel medesimo tempo, ma anche quando non è, è, perché Amore. Difatti, se mi tolgo qualcosa e dono (mi privo – non è) per amore, ho amore – è»6.

Gesù abbandonato, che è il Verbo (e dunque la rivelazione del Padre), fatto carne rivela che l’Essere di Dio è Amore, in quanto Egli, proprio “perdendo” l’unione col Padre che lo fa Dio, è pienamente Se stesso, Dio-Figlio, Amore. Gesù, dunque, vive nell’abbandono la legge di vita proposta ai discepoli: «Chi perderà la propria vita, la salverà» (Mc 8, 36; cf Gv 10, 17-18).

Si comprende perciò che, in quanto Dio, il Verbo, nell’abbandono, ha vissuto in pienezza, nella storia, il movimento della sua distinzione trinitaria dal Padre nell’amore e come amore.

Per quanto riguarda la dimensione umana dell’abbandono, bisogna affermare che Gesù, vero uomo, ha realmente sofferto, sperimentando l’angoscia della morte legata alla condizione storica dell’essere umano segnata dal peccato. Anzi, secondo la forte espressione di San Paolo, Egli è stato trattato “da peccato” per noi (cf 2Cor 5, 21). Ma, essendo Dio, e vivendo la solidarietà con la condizione umana per amore, ha redento così il peccato dell’umanità.

Non solo. In linea con la tradizione orientale della Chiesa, che parla di redenzione, ma anche di deificazione («Dio s’è fatto uomo in Cristo, perché l’uomo, in Lui, diventi partecipe della vita divina»), Chiara vede nell’abbandono la causa efficace della deificazione dell’umanità.

Infatti – ella spiega – Gesù patisce l’abbandono perché si priva, per donarla all’umanità, della sua condizione divina. Solo “svuotandosi” di Dio – come ci fa intravedere San Paolo nell’inno della lettera ai Filippesi –, Egli lo può realmente donare a noi, e sino in fondo. E così, attraverso l’abbandono vissuto per amore, Gesù è reintegrato – con la sua umanità – nello splendore della sua condizione divina (la resurrezione e ascensione al seno del Padre), e insieme con Lui e in Lui tutti possono essere “figli nel Figlio”.

Infine, Chiara mette in rilievo nell’evento dell’abbandono quella presenza dello Spirito Santo che è richiamata dal quarto vangelo (cf Gv 19, 30: «[Gesù] chinato il capo, consegnò lo Spirito»):

«Noi possiamo, forse, pensare (anche se ancora non affermato da altri) che quel particolare dolore di Gesù, che è l’abbandono, abbia una speciale relazione con lo Spirito Santo. E ciò semplicemente perché quando si dona qualcosa occorre sentirne la privazione. Gesù in croce avvertì in quel tremendo momento il distacco dal Padre. Ma chi lo legava e lo lega al Padre nella comunione personale se non proprio lo Spirito Santo? (...) E allora si potrà pensare che nell’abbandono è “il segno dell’amore spirante da cui procede lo Spirito Santo”»7.

In sintesi, con equilibrio e originalità evangelica, troviamo tracciata in queste affermazioni una via luminosa per la comprensione dell’abbandono come avvenimento trinitario.

Scrive ancora Chiara:
«I Tre, nella Trinità, sono Uno per l’inabitazione reciproca. Ma per essere Uno è necessario che ciascuno dei Tre sia veramente nulla, un gran nulla, un nulla divino, quanto il loro essere Uno. Bisognerebbe penetrare questo loro essere nulla, questa loro totale inesistenza. Senz’altro resta un mistero come nella Trinità il Verbo sia nulla e al tempo stesso sia il Figlio, e così il Padre e lo Spirito. Certo è che Dio, essendo Amore, è capace di annullarsi. Perciò è Gesù abbandonato, l’Amore tutto spiegato, che può illuminarci in qualche modo questo mistero. Penso che sia come se ciascuna delle Persone divine, nell’annullarsi, si rivestisse di Gesù abbandonato, perché Gesù abbandonato è Dio rivestito di nulla, proprio nulla. È Lui, quindi, che può spiegarci la realtà di Dio Uno, anche se subito dopo tutto ci appare nuovamente avvolto nel mistero»8.

b) Gesù abbandonato, chiave dell’unione con Dio e dell’unità tra gli uomini

Da questa intuizione teologica scaturisce la dimensione più esistenziale di Gesù abbandonato, come ingresso nella vita trinitaria e via per realizzare l’unità.

Per Chiara è evidente che Gesù abbandonato (che si comunica a noi attraverso la Parola, il comandamento nuovo, l’essere innestati in Lui per mezzo dell’Eucaristia) è

«il nostro stile d’amore. Egli c’insegna ad annullare tutto in noi e fuori di noi, per “farsi uno” con Dio; ci insegna a far tacere pensieri, attaccamenti, a mortificare i sensi, a posporre persino le ispirazioni, per potersi “fare uno” con i prossimi, che vuol dire servirli, amarli»9.

In altre parole: se Gesù abbandonato – oggettivamente, come grazia donata – è la via attraverso cui Dio si dona come Dio a noi; Gesù abbandonato è anche – soggettivamente, come grazia ricevuta e vissuta – il modello e la via per accogliere e vivere pienamente questo dono:

«Gesù Abbandonato, abbracciato, serrato a sé, voluto come unico tutto esclusivo, consumati in uno con Lui, fatti dolore con Lui dolore: ecco tutto. Ecco come si diventa (per partecipazione) Dio, l’Amore»10.

Assistiamo qui a una vera e propria “rivoluzione copernicana” nella spiritualità: se san Giovanni della Croce dice che l’essere annichiliti come Gesù abbandonato è la via per essere uno con Dio, Chiara – riaffermando tutto ciò – sottolinea che Gesù abbandonato è anche la via per essere uno con i fratelli:

«San Giovanni della Croce non poteva andar più in là: arrivò a disporre la sua anima nella migliore disposizione perché Dio la riempisse. Infatti egli con la sua notte oscura fu il polo negativo che unito a Dio – polo positivo – fece splendere o scaturire la Luce in sé.

Noi invece siamo polo negativo e polo positivo tra fratelli. (…) Il loro contatto dà la Luce di Gesù fra essi e quindi in ambedue. Noi portiamo davvero il Regno di Dio sulla terra. Infatti Dio è fra noi e attraverso noi questa corrente d’amore (che è la corrente dell’Amore trinitario) passa per il mondo in tutte le membra del Corpo Mistico, tutto illuminando»11.

Gesù abbandonato, in una parola, è la legge della vita della Trinità portata sulla terra. La novità sta qui: aver scoperto in Gesù abbandonato la chiave per vivere sin d’ora, come creature, nella Trinità a mo’ della Trinità.

Gesù abbandonato,
la teologia, l’unità del sapere

Vorrei dire infine una parola su due compiti della teologia e, più in generale, della cultura d’ispirazione cristiana, sui quali sono convinto che Gesù abbandonato ha da offrire oggi un contributo decisivo.

a) Per una nuova teologia e una nuova cultura

Spesso i mistici dicono che il Verbo di Dio è l’occhio con cui Dio ci guarda. Chiara si esprime in termini ancor più folgoranti, là dove scrive che Gesù abbandonato è

«la pupilla dell’Occhio di Dio sul mondo: un Vuoto infinito attraverso il quale Dio guarda noi: la finestra di Dio spalancata sul mondo e la finestra dell’umanità attraverso la quale si vede Dio»12.

Quando ho ascoltato la prima volta questa frase sono stato capovolto, perché ho avvertito che lì qualcosa feriva la mia intelligenza, la mia vita, vi entrava dentro e ricostruiva il mio rapporto con Dio e il mio modo di vedere Dio. Perché? mi sono chiesto.

Perché, in realtà, noi possiamo conoscere Dio in quanto Egli per primo ci conosce, in una conoscenza che ci crea e ci ri-crea. E Dio ci conosce pienamente in Gesù abbandonato: in Lui, Dio raggiunge col suo amore tutti e ciascuno, così che niente e nessuno è più fuori dell’orizzonte del suo sguardo d’amore. In Gesù abbandonato Dio ci conosce così come siamo, illuminati e trasformati dal suo amore infinito. Dunque, anche noi, a nostra volta, possiamo conoscere Dio per Chi Egli veramente è, in tutto il suo sconvolgente e sconfinato Amore, in Gesù abbandonato.

Gesù abbandonato non è dunque un tema tra gli altri della teologia. Ma è la chiave di tutta la teologia. La teologia, in effetti, ha un unico oggetto: Dio – Dio conosciuto in Se stesso; Dio conosciuto fuori di Sé, nella creazione, nell’umanità che è sua immagine; e Dio “tutto in tutti”, come già ora accade in Gesù Risorto e in Maria assunta in cielo, e come sarà alla fine dei tempi in tutte le cose.

Ora, Gesù abbandonato ci fa appunto conoscere Dio in Sé (come Amore), Dio fuori di Sé (creazione, incarnazione, divinizzazione: come storia d’amore di Dio con noi), Dio tutto in tutti (come amore consumato).

Ma per conoscere così Dio, occorre entrare in Dio, occorre che la nostra mente sia crocifissa e risorga con Cristo. Gesù abbandonato è la chiave che c’introduce in quell’essere uno in Gesù che ci porta in Dio e ci fa conoscere Dio come Dio. Perché Dio – ripeto – lo conosco solo se sono in Dio; se non sono in Dio non conoscerò mai Dio, resterò sempre fuori, come ai confini di una circonferenza… Gesù abbandonato mi porta in Dio, nel cuore di Dio, nel modo, tra l’altro, più semplice che ci sia, perché, nel momento in cui amo l’altro, vedendo Gesù in lui, “muoio” a me stesso per essere uno con lui, e così, per questo amore, vivo Gesù abbandonato ed entro per Lui, insieme al fratello, in Dio.

Ciò lo possiamo realizzare, nella vita di unità, anche a livello intellettuale, staccandoci dal nostro modo di pensare, dal pensare stesso per farci uno – come Gesù abbandonato – con i fratelli. La vita d’unità è perciò la base e il presupposto di un nuovo modo di fare teologia e di fare cultura: in cui conosciamo Dio e le realtà create perché siamo in Dio – per l’amore reciproco, grazie a Gesù abbandonato.

b) Per una visione organica e unitaria del sapere

Il secondo compito, come scrive Giovanni Paolo II nella Fides et ratio, al n. 85, è quello di tendere – in quest’alba del terzo millennio – «a una visione organica e unitaria del sapere». Con la modernità, infatti, s’è infranta l’unità del sapere. La nostra epoca – anche per l’incontro tra le diverse culture e religioni – è sotto il segno del pluralismo.

Eppure Dio è uno, il mondo è uno, l’uomo è uno. Si sente l’esigenza di giungere a una nuova sintesi dei saperi che dia gloria a Dio e sia autenticamente a servizio dell’umanità, a cominciare dalla folla sterminata e sfigurata dei poveri di tutte le povertà.

Anche in questo senso, penso – e l’esperienza della Scuola Abbà13 ne dice qualcosa – Gesù abbandonato è la strada. Sotto due profili. Innanzi tutto, perché – vissuto dai cultori delle diverse discipline – fa vivere Gesù in loro per l’unità: perché “crocifigge” e fa “risorgere” in Gesù il proprio io, e dunque anche il proprio esercizio dell’intelligenza. Per cui è Gesù, in ciascuno, che fa lo scienziato, il filosofo, il teologo… Così ogni scienza, generata dall’amore, è a servizio dell’altra, vive in rapporto trinitario con le altre.

In secondo luogo, perché Gesù abbandonato ci dischiude il senso dell’essere che sta sotto tutte le cose e le informa di sé: ci dischiude, cioè, una nuova ontologia, l’ontologia dell’amore, della Trinità, e cioè della relazione che lega Dio alle realtà create e le realtà create tra di loro nell’amore.

In Lui, le diverse scienze possono trovare, nella loro distinzione e nell’autonomia dei diversi metodi, uno sguardo di luce sapienziale che le sostiene tutte e tutte le fa convergere. Perché l’impronta di Dio, Uno e Trino, in Gesù abbandonato, è inscritta in tutte le cose create e in tutte le realtà umane.

Basti pensare alla cosmologia contemporanea, con la visione dinamica e relazionale che ci presenta; o alla psicologia, con la centralità del rapporto intersoggettivo… son tutte realtà che richiamano Gesù abbandonato e la Trinità.

Dunque, lavorare con umiltà e fiducia per un incontro tra i diversi saperi, anzi per “una nuova visione organica e unitaria del sapere”, non è un’utopia ma un orizzonte realistico e affascinante. Non pretesa della ragione, ma dono di Dio e creatività responsabile di chi vive con slancio, fiducia e gioia, per Gesù abbandonato, l’avventura dell’unità.

Piero Coda

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01) Cf P. Foresi, L’abbandono di Gesù sulla croce, in “Mariapoli” 5/5 (1962) pp. 16-19.

02) CSEL VI, 18, 168-169.

03) Salita del Monte Carmelo, l. II, cap. 6.

04) CTI, Alcune questioni riguardanti la cristologia (1979).

05) C. Lubich, Gesù crocifisso e abbandonato, conversazione inedita, 6 dicembre 1971.

06) Cit. da J. Povilus, “Gesù in mezzo” nel pensiero di Chiara Lubich, Città Nuova, Roma 1981, p. 75.

07) C. Lubich, L’unità e Gesù abbandonato, Città Nuova, Roma 1984, pp. 87-88.

08) Inedito.

09) C. Lubich, L’unità e Gesù abbandonato, cit., pp. 57-58.

10) Ibid., p. 83.

11) Inedito.

12) Inedito.

13) Centro di studi internazionale, interdisciplinare ed ecumenico del Movimento dei focolari.