Brasile: stimoli di riflessione per i Consigli pastorali, in vista di una pastorale di comunione

 

Dalla Trinità alla pastorale

di Mario Spaki

 

Le parrocchie brasiliane, normalmente mol-to estese e dotate di pochi sacerdoti, comprendono una sede centrale e poi numerose cappelle con altrettante comunità che hanno una vita propria anche se collegata con la chiesa madre. Non solo la parrocchia come insieme ha un suo Consiglio pastorale, ma anche ogni singola comunità. Come armonizzare le varie attività in modo che tutta la parrocchia sia “un cuor solo e un’anima sola” in comunione con il proprio parroco e con l’intera diocesi? L’autore, invitato a preparare una conversazione sul fondamento della spiritualità di comunione per tutti i membri dei Consigli pastorali della diocesi di Ponta Grossa nel sud del Brasile, prende lo spunto dalla famosa icona di Andrej Rublev1 ed applica la dinamica trinitaria alla vita pastorale.

Fu certamente un’opera audace quella del monaco russo. Nella sua vita di contemplativo avrà meditato lungamente su come rappresentare l’inaccessibile mistero di Dio in un pezzo di legno. La fede gli ricordava che il Verbo si era fatto uomo e dipingere un uomo era possibile. Ma come rappresentare il Padre e lo Spirito Santo?

Altri si erano cimentati nel raffigurare la Trinità. In Occidente è famosa l’immagine che presenta in un unico quadro un anziano (il Padre) che sostiene un uomo crocifisso (il Figlio) e sopra i due una colomba (lo Spirito Santo).

Rublev cercò un’altra via. Deve aver riflettuto sulla parola di Gesù: «Filippo, chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14, 9), e cercò di raffigurare il Padre uguale al Figlio. Meditò anche la parola di Gesù: «Il Padre vi darà un altro Consolatore» (Gv 14, 16). E un Consolatore inferiore a Gesù non sarebbe stato conveniente. L’artista allora abbandonò l’immagine della colomba e preferì quella di una terza persona in forma umana uguale alle altre due.

L’uguaglianza delle Tre Persone divine è una verità fondamentale della nostra fede. Nessuna è maggiore o minore, più potente o meno potente, più santa o meno santa. Non possiamo proiettare nella Trinità le disuguaglianze che notiamo nelle persone umane. Presso di noi il padre all’inizio è più grande del figlio; questi lentamente cresce e arriva alla statura del padre, mentre il genitore invecchia e diminuisce. Questa dissomiglianza in Dio non c’è. C’è sì una relazione di origine fra Padre e Figlio, ma questa stessa relazione è eterna.

Osserviamo l’icona di Rublev: le tre Persone sedute intorno alla mensa hanno la stessa statura, la stessa gioventù, la stessa aureola attorno alla testa, segno dell’uguale santità. Hanno in mano ognuno il bastone del pellegrino, simbolo dello scettro regale, poiché i Tre hanno uguale potere divino.

Come vivere l’uguaglianza tra noi?

– Si sa che la vita della Chiesa è chiamata a rispecchiare quella della Trinità, e ciò vale anche per i Consigli pastorali. I loro membri devono amarsi e agire sempre come fratelli. Nessuno deve considerarsi “meno” degli altri e nessuno deve credersi “migliore”, ma attenersi alla parola di Gesù: «Chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti» (Mc 10, 43).

– L’uguaglianza e la stima reciproca deve essere la nota caratteristica anche per i responsabili dei vari settori pastorali, delle Associazioni e dei Movimenti ecclesiali. Vale a dire: la catechesi è essenziale nella vita della Chiesa, ma lo sono ugualmente tutte le altre espressioni della vita parrocchiale; la pastorale dell’economia è importante, ma non deve essere considerata superiore alla pastorale vocazionale o a quella della gioventù; un ministro straordinario della comunione può avere il compito di coordinare la vita della comunità sul posto, ma egli non può decidere da solo quanto riguarda la vita della comunità. Lo stesso parroco, che rappresenta il vescovo quale principio e fondamento della comunione ecclesiale, deve essere un costruttore di comunione tra i vari responsabili.

– Guardando alla Trinità, dobbiamo tutti imparare ad ascoltarci per essere illuminati da Dio e arrivare il più possibile ad avere l’unità di pensiero. L’uguaglianza che contempliamo nella Trinità ci aiuta a capire che, anche se abbiamo compiti diversi, davanti a Dio siamo tutti uguali, figli di un solo Padre e pertanto fratelli.

La diversità

Le Persone Divine sono in tutto uguali ma distinte nelle relazioni che intercorrono tra loro. La prima Persona in relazione alla seconda è Padre, cioè origine, fonte. La seconda in relazione alla prima è Figlio: ha da sempre origine dal Padre, è da sempre da lui generata. La terza Persona procede dal Padre e dal Figlio. Queste relazioni non si possono invertire. Nell’icona di Rublev ogni Persona ha il suo posto. La figura al centro rappresenta il Figlio, quella a sinistra di chi guarda il Padre, quella a destra lo Spirito Santo.

Il Figlio. Osservando l’icona siamo subito attratti dalla sua figura collocata al centro: è per lui che noi abbiamo accesso al mistero trinitario: «Nessuno sa chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Lc 10, 22).

Osservando la figura del Figlio, insieme all’uguaglianza che essa ha con le altre Persone, vediamo anche alcuni distintivi che indicano il mistero proprio del Figlio. Questa figura rappresenta Cristo, rivestito di rosso intenso e di un manto azzurro altrettanto vivo. Il rosso simbolizza la sua divinità e l’azzurro la sua umanità. Quando il Figlio si fece uomo, assunse la natura umana, si ricoprì di azzurro. I colori rosso e azzurro di cui il Figlio è rivestito indicano le sue due nature: Gesù è Dio e uomo nello stesso tempo.

Con il suo sangue sparso sulla croce Cristo divenne sommo ed eterno sacerdote – «entrò una volta per sempre nel santuario» (Eb 9, 12), aprendoci così l’accesso alla partecipazione alla vita divina. È quanto viene rappresentato nell’icona dalla stola posta sopra il suo vestito.

Il pittore volle esprimere in una forma suggestiva, nel gesto della testa inclinata verso il Padre, il mistero proprio di Gesù nella sua relazione col Padre che lo fa essere Figlio e gli conferisce la sua identità: «Dio nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1, 18).

Il Padre. Rublev, nella figura a sinistra di chi guarda, ci vuol far penetrare nella realtà che contraddistingue la prima Persona della Santissima Trinità.

Richiama la nostra attenzione il manto tutto oro, luminoso e raggiante, che questa figura porta sopra il suo vestito azzurro. L’oro indica la fedeltà di Dio. Egli è santo perché è assolutamente fedele e mai rompe i suoi rapporti. La luminosità della sua veste ci ricorda che «Dio è luce e in lui non ci sono tenebre» (1Gv 1, 5). Tutta l’icona sembra irradiata dalla luminosità della prima Persona. Di fatto egli è l’origine, la fonte.

Gesù che più di chiunque conosce il Padre ha detto: «Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio» (Lc 10, 22). Ogni cosa, assolutamente tutto. Quando noi esseri umani comunichiamo tra noi, conserviamo sempre qualche reticenza: abbiamo paura di perderci nella donazione all’altro. Dividiamo la torta in fette e spesso riserviamo per noi la porzione maggiore. Noi diamo una parte; Dio comunica tutto: il Padre dà al Figlio la sua realtà divina tutt’intera ed è questa donazione totale che lo identifica come fonte, origine, Padre.

Rublev esprime questa realtà del Padre come origine, come colui che ama sempre per primo, attraverso alcuni leggeri tocchi del suo pennello. La veste azzurra significa l’umanità. Nel Padre l’azzurro appare sul petto: l’umanità è da sempre nel cuore del Padre. Inoltre, osservando le tre figure, la prima è col busto eretto mentre tende la mano nel gesto di chi invia: di fatto, è il Padre che manda il Figlio e lo Spirito Santo, mentre egli invece non è inviato da nessuno dei due.

Lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio e per questo il pittore ci presenta la terza Persona, quella a destra di chi guarda, come la più inclinata: inclinata verso il Padre e verso il Figlio, come ascoltando il dialogo tra i due, perscrutando il mistero d’amore infinito tra loro, perché egli è il dono per eccellenza, la forza d’amore che unisce il Padre e il Figlio.

Anche per noi il dono della grazia per eccellenza è lo Spirito Santo, la sua Persona che, dimorando in noi e facendoci suo tempio (cf 1Cor 3, 16), ci santifica e ci rende gradevoli agli occhi del Padre.

Il Padre è totalmente aperto verso il Figlio e questi può dire: «Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie» (Gv 17, 10). E il Figlio riceve il dono, ne gioisce e corrisponde a quel gesto totale d’amore con la stessa generosità facendo tornare tutto al Padre. Da quest’onda che va e che viene, come unico gesto d’amore, procede lo Spirito Santo, espressione massima del legame tra il Padre e il Figlio.

Lo Spirito trasmette a noi questa ricchezza divina nella misura in cui i nostri vasi di creta sono capaci di contenere tale tesoro (cf 2Cor 4, 7). «Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito, e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio, per questo ho detto che prenderà del mio e ve l’annuncerà» (Gv 16, 13-15). «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5). Questo dono per eccellenza del Padre è sovrabbondante e perciò può paragonarsi ad un fiume d’acqua viva che trasborda verso l’umanità. Il pittore ci aiuta a meditare su questo mistero. Il manto verde-smeraldo che copre la terza figura assomiglia ad una cascata d’acqua che si riversa su di noi: «Lo Spirito del Signore riempie l’universo» (Sap 1, 7). Nell’icona quest’acqua viva è raffigurata dal verde in forma di tre fiumi che partono dallo Spirito Santo ed inondano la terra.

Come vivere tra noi la diversità?

– Nella parrocchia ogni coordinatore di una determinata pastorale, di un’Associazione o di un Movimento ha il compito di curare la parte che rappresenta senza generare divisione, perché nella Trinità la diversità non divide, ma arricchisce.

– Prendersi cura del proprio gruppo vuol dire che ogni Associazione o Movimento ha davanti a sé una duplice realtà: essere fedele alle proprie finalità ed essere aperto al bene comune. Facciamo un esempio. La Legio Mariae ha le sue norme, la sua spiritualità e la sua struttura. Solo così è Legio Mariae. Se essa rimane fedele alla sua vocazione, svolgerà un compito importante nella comunità. Da parte sua, la comunità deve aiutarla a restare fedele al suo carisma. Sarebbe sbagliato, per esempio, chiedere a questa Associazione di dare corsi biblici: non è la sua specialità.

– Dall’altra parte, tutti insieme concorriamo alla costruzione dell’unica comunità. Sebbene differenti sotto tanti aspetti, siamo sempre chiamati ad imitare la prima comunità cristiana di Gerusalemme: «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola» (At 4, 32). Se uno tira ostinatamente l’acqua al proprio mulino, non costruisce la Chiesa.

– Suscitando in seno alla Chiesa una molteplicità di carismi, Dio ci fa capire che molte sono le vie per arrivare a Lui. Non posso pretendere che tutti siano uguali a me. La distinzione delle tre divine Persone mi insegna ad accogliere il diverso, a godere del successo degli altri, ad approvare le loro idee giuste, anche se non sono secondo il mio stile.

– Ma c’è ancora un altro aspetto da tener presente: come nella Trinità il Padre è l’inconfondibile origine, così nella Chiesa c’è il ministero apostolico attraverso il quale Cristo si rende presente in seno al popolo di Dio come Capo che dà vita all’intero Corpo (cf Ef 1, 22-23; Col 1, 18). Assieme all’uguaglianza fondamentale di tutti i battezzati, è imprescindibile il saldo riferimento ai ministri ordinati. Una delle caratteristiche della prima comunità di Gerusalemme era quella di essere «assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli Apostoli» (At 2, 42).

L’unità nella comunione

Nell’icona di Rublev, i Tre sono seduti attorno ad una mensa in un’armonia ineffabile. Con il loro atteggiamento inclinato le due figure al centro e alla destra esprimono una circolazione: tutto viene dal Padre e tutto ritorna al Padre. Dal Padre viene il Figlio (per generazione) e dai due procede lo Spirito Santo (per spirazione). E lo Spirito ha la missione di riunire tutto in Cristo che riporta l’insieme definitivamente al Padre. Anche la pianta che sta dietro al Figlio e la montagna che si scorge dietro lo Spirito Santo sono inclinate verso il Padre: le pietre, gli alberi, l’acqua, l’aria, i fiori con tutta la loro bellezza rinviano al Padre.

Dietro al Padre si vede una casa: è “la casa del Padre”, dove egli ci attende. Il Figlio, tutto rivolto al Padre, vuole condurci a quella casa, dove ci sono molte dimore. E là che Gesù è andato a prepararci il posto (cf Gv 14, 2-3). È da osservare che la porta e la finestra sono aperte: non bisogna suonare il campanello e aspettare fuori finché qualcuno venga ad aprirci, anzi attraverso la finestra spalancata il Padre vede da lontano e corre incontro al figlio per accoglierlo a braccia aperte.

Abbiamo detto che tutta l’icona si presenta come un circolo vitale: quel che Dio è e tutto quello che egli ha creato ci porta a lui.

Dio è uno in tre Persone, è Trinità. Poniamoci la domanda: se Dio, invece di tre, fosse una sola persona, cosa cambierebbe per noi? Purtroppo, per molti cristiani, non farebbe nessuna differenza. Eppure, se Dio fosse una sola persona sarebbe un solitario, non sarebbe comunione, non sarebbe Amore. Come potrebbe, infatti, essere Amore in se stesso, se il Padre non avesse nessuno uguale a sé con cui entrare in comunione, se non avesse nessuno da amare?

Gesù passò tutta la sua vita terrena nel rivelarci il Dio trinitario (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 516) e il suo amore per noi. Se la vita trinitaria non orienta la nostra vita personale e sociale non possiamo considerarci cristiani.

Una seconda domanda: se Dio è trino come può essere uno? E se è uno come può essere trino? La Scrittura ci apre qui prospettive meravigliose: ci rivela che Dio è Amore (cf 1Gv 1, 4-16), un Amore così totale e intimo da far sì che ogni Persona vive nelle altre due: «Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me» (Gv 14, 11).

La parola “intimità” dice un pezzo di cielo sulla terra anche nei nostri rapporti umani: sentirsi accolti, compresi, amati dagli altri è un’esperienza di salvezza, di felicità. Essere isolati, emarginati, dimenticati, senza un tetto dove ti attende un cuore che ti comprende, è una vera disgrazia. «Nessuno mi capisce» è un lamento frequente, è il grido della frustrazione. «Signore, io non ho nessuno» (Gv 5, 7), disse il paralitico della piscina di Betzata. Quando siamo riconosciuti nella nostra identità, sperimentiamo invece la gioia. Così l’amore fraterno ci fa intuire qualcosa di ciò che è il Cielo.

Tra le tre divine Persone l’amicizia, la donazione, la trasparenza mutua è totale ed è fonte di felicità assoluta. Gli studiosi antichi parlavano di pericoresi, cioè di reciproca inabitazione, di un vivere l’altro, rimanere l’uno nell’altro: «Il Padre che è in me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me» (Gv 14, 10-11; cf Gv 10, 38).

 Per poter “rimanere”, “essere nell’altro”, è necessario dimenticare se stessi. Per rimanere nel Figlio il Padre “dimentica” per amore se stesso e si tuffa nel “cielo” del Figlio, e così fanno il Figlio e lo Spirito Santo.

Dio è Trinità di persone e unità d’amore. Nella preghiera sacerdotale dopo l’ultima cena Gesù espresse in maniera piena e profonda questa realtà dell’unità nella differenza delle Persone. «Perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me» (Gv 17, 21-23). Qui Gesù ci introduce nell’intimo del mistero di Dio, nel seno della Trinità, invitandoci a prendere parte al suo amore per il Padre e del Padre per lui e per noi in lui.

Chi realizza questa comunione tra il Padre e il Figlio è lo Spirito Santo, lo stesso Spirito che è stato effuso nei nostri cuori. Quando sotto l’impulso dello Spirito si stabilisce fra noi la comunione e viviamo l’amore reciproco, realizziamo la vita trinitaria tra esseri umani, e per mezzo di Gesù presente nella comunità entriamo in intimità con lo stesso Padre. Sperimentiamo allora la stessa gioia di Gesù, quella gioia piena che egli ha promesso a chi vive l’unità (cf Gv 17, 13).

Come realizzarla nei Consigli

Vengono da qui i seguenti orientamenti per i Consigli pastorali:

– Prima di qualsiasi iniziativa pastorale occorre verificare se è viva tra noi la comunione. Tutto infatti parte da lì.

– Vale di più il meno perfetto in comunione che il più perfetto fuori della comunione.

– Il Consiglio, cuore della Comunità, annoda il primo anello di comunione col vescovo attraverso il parroco. A nulla servirebbe se i membri del Consiglio si unissero tra loro e agissero in disunità con il parroco: non si costruirebbe la comunione, ma la divisione. Per parte sua il parroco deve avere grande sensibilità perché non succeda che egli imponga una sua opinione personale come volontà di Dio.

– L’unità tra gli stessi membri del Consiglio è un altro anello essenziale della comunione. Sarebbe inutile tentare di costruire la comunione nella comunità se i componenti del Consiglio non fossero in unità tra loro.

– Abbiamo notato nell’icona quella circolarità che contraddistingue la Trinità: tutto viene dal Padre attraverso il Figlio nello Spirito Santo e tutto torna al Padre nello Spirito Santo attraverso il Figlio. Applicando ciò al Consiglio: quello che viene deciso in unità dovrebbe arrivare a tutti coloro che operano nei diversi settori pastorali e ai membri dei Movimenti e Associazioni. E quello che avviene in questi ambiti dovrebbe tornare al Consiglio pastorale.

– Nessuno dovrebbe portare avanti in modo isolato le sue idee, ma tutto dovrebbe portare il timbro della comunione. Dobbiamo passare da un modo di fare individualista ad un modo di agire comunitario. L’individualista non agisce secondo il Dio unitrino e perciò non genera vita di comunione.

– Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo hanno gli stessi interessi. Anche nella pastorale bisogna allargare il cuore su tutta la parrocchia: amare l’attività portata avanti dagli altri come quella portata avanti dal proprio gruppo, rallegrarsi del successo dell’altro come del proprio e soffrire per l’insuccesso altrui come fosse proprio.

Il mistero pasquale

Dopo aver contemplato che la vita divina è comunione e che egli ci chiama a questa vita, può sorgere in noi una domanda inquietante: «Sì! Dio è meraviglioso, è comunione, è Amore, ma la realtà che abbiamo attorno è ben diversa. La storia di ognuno di noi testimonia il peso del peccato e le sue tristi conseguenze nel quotidiano. Come fare?».

Rublev ha raffigurato le tre Persone divine attorno ad una mensa con al centro un calice, per significare che la comunione parte da Dio e viene a noi attraverso il calice, cioè attraverso il mistero pasquale: la passione, la morte e la risurrezione di Gesù.

Il calice è collocato al centro dell’icona. Sta qui il culmine, il centro di tutta la storia della salvezza. Durante la sua vita terrena Cristo parla della “sua ora”, pensando al “calice” della passione. Avvicinandosi quel momento, egli inizia così la preghiera sacerdotale: «Padre, è giunta l’ora…» (Gv 17, 1). È il momento cruciale della sua esistenza terrena. Prostrato a terra nell’orto degli ulivi, supplica di essere liberato da questo calice, ma poi conclude: «Non la mia, ma la tua volontà sia fatta». Nel quarto Vangelo Gesù si esprime addirittura così: «Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome» (12, 27-28). L’opera di Gesù di riunire i figli di Dio dispersi passa dunque attraverso la croce, culminando nell’esperienza dell’abbandono: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15, 34).

Giovanni Paolo II scrive: «La contemplazione del volto di Cristo ci conduce così ad accostare l’aspetto più paradossale del suo mistero, quale emerge nell’ora estrema, l’ora della croce. Mistero nel mistero, davanti al quale l’essere umano non può che prostrarsi in adorazione» (NMI 25).

E Giovanni della Croce: «Quello fu l’abbandono più desolante che avesse sperimentato (…) e, proprio mentre ne era oppresso, Egli compì l’opera più meravigliosa di quante ne avesse compiute in cielo e in terra durante la sua esistenza terrena (…), opera che consiste nell’aver riconciliato e unito a Dio per grazia il genere umano» (Salita del monte Carmelo, II, VII, 11).

Chiara Lubich scrive nel suo libro Il grido: «“Era necessario” (cf Mc 8, 31), dice Gesù quando si avvicina l’ora del patire. Ma era necessario che cosa? E per chi? Aveva reso a sé necessario incarnarsi, soffrire e morire per noi, perché è amore!» (Città Nuova, Roma 2003, p. 13).

È questa la legge che regge l’umanità: nessuno si realizza imponendosi agli altri e facendo solo quello che egli vuole. Chi sa donarsi, chi sa perdere se stesso affinché l’altro sia, è veramente e vive come Dio, e perciò le sue opere durano. L’amore vero richiede sempre una morte che genera a sua volta una risurrezione.

Nell’ora di Gesù, centro della storia, Dio ha manifestato la “logica del suo agire” (cf 1Cor 1, 22-25). In ogni azione di Dio possiamo discernere tre tappe: passione, morte e risurrezione.

Gesù annunziò ai discepoli che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto e dopo tre giorni risuscitare (cf Mc 8, 33). I discepoli non compresero questo discorso e Pietro cercò di dissuadere Gesù dall’idea della sofferenza, guadagnandosi una solenne riprensione: «Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8, 33).

Come Pietro anche noi ben poco capiamo del valore della croce quando ci tocca personalmente. Portiamo forse un crocifisso appeso al petto, e questa è cosa buona. Ma la realtà profonda, stupenda e tremenda del dolore da trasformare in amore si comprende solo con la vita. Assistiamo alla Via crucis, ma Dio ci invita a parteciparvi. Essere cristiani significa essere con-crocifissi con Cristo – «A voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo; ma anche di soffrire per lui » scrive Paolo ai Filippesi (1, 29-30) –  per poter risuscitare con lui (cf Rm 6, 5).

Facciamo un esempio: dobbiamo creare i “piccoli gruppi”, le comunità di base nella nostra comunità. Riuniamo le persone disposte ad aiutarci. All’inizio tutti sono entusiasti e ognuno offre la sua idea e la sua collaborazione... Passato qualche tempo queste idee devono essere purificate nella comunione con le altre persone che nel frattempo si sono aggiunte ed hanno portato i loro suggerimenti.

Dopo questo momento di purificazione le idee personali offerte si perdono, diciamo pure che muoiono. È il momento della passione e della morte. E qui alcuni si sentono incompresi e sono tentati di scoraggiarsi e di allontanarsi.

Ma la logica dell’agire di Dio prevede anche la risurrezione, che in questo caso consiste nel fatto che ci rendiamo conto come in mezzo a tante idee, comincia a spuntarne una molto più profonda, completa e luminosa: è quella che Dio ci dona, è quella del Risorto presente nella comunità.

Già nei primi tempi i cristiani l’avevano capito e nell’uso del segno della croce esprimevano bene che la comunione passa attraverso la croce. Diciamo passa, perché non dobbiamo rimanere nella morte: come per Gesù così per noi la croce è sempre un passaggio verso la risurrezione.

Alcuni suggerimenti

Come vivere il mistero pasquale, unica logica dell’agire di Dio, nell’attività dei nostri Consigli pastorali?

– Dio assume come sue le nostre opere, ma prima deve purificarle facendole passare attraverso le tre tappe del mistero pasquale: passione, morte e risurrezione. Quindi se vogliamo agire secondo la logica divina dobbiamo mettere in preventivo in tutte le nostre attività pastorali queste tre tappe.

– Ma nella logica di Dio “perdere per amore” non significa essere sconfitti; al contrario, vuol dire contribuire alla comunione nella comunità. Facciamo un esempio. Nelle riunioni del Consiglio pastorale molte volte dobbiamo perdere la nostra opinione, rinunciarvi. Questo è il momento della purificazione. Quando ciò ci viene richiesto, possiamo essere tentati di reagire e di voler imporre la nostra visione. Ma così rompiamo la comunione e probabilmente stiamo facendo la nostra volontà e non quella di Dio. È essenziale, invece, saper ascoltare e accogliere le opinioni degli altri, anche se poi pure esse saranno purificate.

– Quando un Consiglio pastorale si lascia continuamente interrogare nel suo agire dal mistero pasquale, diventa veramente il cuore della comunità e irradia attorno a sé la luce di Dio.

Mário Spaki