Angelus Ecclesiae

Di mons. Luigi BONAZZI, Nunzio apostolico (Cuba)

Le lettere alle sette Chiese dell’Asia, così iniziano: «All’angelo della Chiesa di... scrivi» (Ap 2, 1ss.). E dietro l’immagine dell’angelus Ecclesiae si ravvisa, tradizionalmente, la figura del vescovo che illumina, custodisce, regge e governa la Chiesa particolare a lui affidata. D. Silvano non fu vescovo. È stato – e come! – amico e fratello di un numero che Dio solo conosce di diaconi, sacerdoti e vescovi, fra i quali anch’io. Di più, è stato padre e maestro, titoli che egli cortesemente e decisamente accantonerebbe, ma che non si può non riconoscergli, in tutta sincerità. Così almeno penso io, con tutto me stesso. E mi nasce, nella mente e nel cuore, quale immagine per dire con una sola parola le tante che mi prorompono su d. Silvano, quella dell’angelo: angelus Ecclesiae.

Da d. Silvano, lo dico con verità e commozione, ho imparato a “vivere la Chiesa”. Incominciò nel mese di maggio di 38 anni fa. Seminarista del secondo anno di teologia al Pontificio Seminario romano maggiore, avvertii la chiamata ad approfondire – partecipando alla Scuola sacerdotale del Movimento dei focolari – la spiritualità dell’unità conosciuta pochi giorni dopo aver conseguito la maturità liceale. Fu il regalo della promozione! Non si trattava, per me, di interrompere il cammino che stavo percorrendo, ma, appunto, di approfondirlo.

Assieme a Pino Petrocchi, mio compagno di seminario, oggi vescovo di Latina, mi recai così a Grottaferrata, sui Colli Romani, da d. Silvano, per verificare l’inquietudine che avevo. Ho ancora negli occhi la saletta dell’incontro, le tre poltroncine, d. Silvano seduto nell’angolo, Pino ed io di fronte a lui. In un momento mi uscì la domanda elementare: «Cos’è la Scuola sacerdotale?». Quasi ad litteram, d. Silvano diede questa risposta: «La Chiesa è un corpo, fatto di molte membra. Nella Scuola sacerdotale si impara a vivere così: insieme membra di un unico corpo. Se l’occhio soffre anche il braccio ne risente, e così tutte le altre membra. Nella Scuola sacerdotale ci si aiuta e si impara a vivere così: insieme, e per questo a riconoscere e sentire come proprie le difficoltà dell’altro...». Uscii da quell’incontro marchiato, e più che mai convinto della chiamata a fare la Scuola sacerdotale.

Quando chiesi il permesso al mio vescovo – in un tempo in cui non era abituale concedere l’uscita, pur temporanea, dal seminario – egli mi scrutò in silenzio per qualche lungo attimo, e poi mi disse: «Puoi andare». Andai, e sto tuttora “andando”. Se, infatti, per la grazia dell’episcopato sono “padre e maestro” (angelus Ecclesiae), non cesso di essere  in pari tempo “alunno”, uno che sempre di più e sempre meglio impara a far risplendere la Chiesa come “casa e scuola della comunione”. È proprio della vita cristiana l’asserto – che risponde alla grammatica di Dio – “io sono noi”. Di questa grammatica, che mai si finisce di imparare, d. Silvano è stato il mio “maestro” e l’anno vissuto alla Scuola sacerdotale, per così dire, la prima “aula”.

Fu un tempo straordinario, quello della Scuola sacerdotale. Ad esso – come un dono speciale della Provvidenza – si inanellarono altri sette anni, due come seminarista, gli altri già come sacerdote, vissuti al Centro gens (la segreteria per i seminaristi diocesani aderenti al Movimento dei focolari; n.d.r.), ossia vicino e come collaboratore di d. Silvano. Come ricordare questo tempo carico di una bellezza unica? Mi aiuta una formula paolina, proposta dall’apostolo quale via per costruire la comunione degli spiriti: «Considerare gli altri superiori a se stesso» (Ef 2, 3). Questo era d. Silvano, nel tratto quotidiano con lui: uno che ti faceva superiore a sé, che faceva tutti superiori a sé. Ed è questo il modo di amare e di costruire la Chiesa che ha seminato, anzi ha stampato in me. Grazie, d. Silvano, per continuare dal Cielo ad aiutarmi ad essere io, ora, angelus Ecclesiae!