Dialogo con i lettori

"Uno dei contributi tipici del carisma dell’unità è quello di insegnarci ad ascoltare fino in fondo l’altro, a identificarci con lui, a metterci "nella sua pelle" per capirlo e valorizzarlo il più possibile. D’altra parte mi si dice sempre che il giornalista deve essere "imparziale", "estraneo" ai soggetti con i quali si rapporta, per offrire un’informazione oggettiva. Quindi è desiderabile quel "farsi uno"?

(studente di giornalismo, Bologna)

 

Anche il giornalista
deve "farsi uno"?

Secondo la mia esperienza, l'idea di "farsi uno" con l’altro è una prassi che può dare molto all’esercizio del giornalismo.

È diffusa nella professione di giornalista un immaginario dovere di essere imparziali, distaccati, obiettivi. Mentre la realtà è che tutti siamo di fatto condizionati dalla nostra educazione, esperienze, punti di vista…

Questo per ciò che si riferisce al giornalista. Ma per ciò che riguarda i destinatari del nostro lavoro, non posso vedere il soggetto di un articolo o di un’intervista come un "prodotto", un "oggetto" da usare per avere un’informazione o redigere quel pezzo. Io, da cristiano, devo vedere lui o lei come qualcuno in cui posso amare Gesù, qualcuno con cui posso creare unità, con cui "farmi uno".

Un tale atteggiamento, anche da un punto di vista professionale, ho constatato che non solo non è nocivo, ma può addirittura fare la differenza, farci fare un salto di qualità nel nostro lavoro. Oltretutto perché questa comunione che s’instaura fa sì che l’altra persona non si senta "minacciata". Ciò aiuta la comunicazione e favorisce un più semplice, pieno ed efficiente passaggio dell’informazione.

L’ho provato ad esempio con il libro-intervista che ho fatto a Chiara Lubich. Prima di questo lavoro io non la conoscevo. Potevo avvicinarmi a lei per strade diverse. Potevo lavorare semplicemente partendo dal mio modo di comprendere le cose, nel qual caso non avrei capito nulla di lei, della sua Opera, e avrei fatto un lavoro preconcetto e soggettivo.

Invece ho dovuto prendere coscienza che non conoscevo nulla di ciò di cui lei mi stava parlando all’inizio. Ho dovuto volontariamente vuotare me stesso di tutti i miei pregiudizi. Per esempio avevo appena finito di fare una ricerca e di scrivere un libro su padre Pio, e ho dovuto lasciar cadere l’idea di un confronto con lui o i suoi scritti, anche se ambedue partono dallo stesso punto, il loro battesimo nel Corpo di Cristo che è la Chiesa.

Ho dovuto provare ad entrare nella comprensione che Chiara stessa ha di se stessa e della sua Opera. Tutto ciò ha richiesto tempo e molto sforzo e qualche volta frustrazione da parte mia.

Lei è stata molto gentile e comprensiva del cammino di scoperta che io stavo facendo e avevo necessità di fare. Rendermi consapevole di ciò da parte sua, mi ha reso le cose più facili.

Solo quando ho avvertito di aver raggiunto una comprensione che – potevo esserne certo – sarebbe stata confermata da Chiara stessa, ho potuto fare un "passo indietro" e mettermi nei panni dei miei lettori.

Infatti è questo processo, io credo, il compimento del nostro ruolo di giornalisti e comunicatori. A Los Angeles quando Papa Giovanni Paolo II parlò ai giornalisti disse che noi siamo, in pratica, chiamati ad esercitare una sorta di "sacerdozio". Che è come dire "pontefice", cioè costruttore di ponti. Siamo chiamati ad essere costruttori di ponti tra il soggetto e i nostri lettori o ascoltatori o telespettatori.

Al contrario di ciò che alcuni giornalisti temono, questo processo non mi ha fatto perdere la mia indipendenza. Negli anni recenti mi sono specializzato nella scrittura di biografie, ma ancora più frequentemente faccio profili o ritratti di persone per i giornali. In ciascun caso sento come un privilegio l’avere la possibilità di entrare in ciò che è la vita di una persona. Ora, ovviamente, io posso avere simpatia per alcuni di essi più che per altri, o avvertire un’affinità naturale con alcuni piuttosto che con altri. Ma il processo è lo stesso: per arrivare a conoscerli, per essere in grado di esprimere le loro idee ed esperienze con esattezza, devo in qualche modo "farmi uno" con loro. Quando ciò è accaduto, pur alle volte non condividendo tutto ciò che essi dicono o fanno, io sono diventato amico con la maggior parte di loro. Ciò significa che hanno avvertito che li ho raffigurati imparzialmente, e apprezzavano e rispettavano questo.

Per questa via il giornalista non deve temere di perdere obbiettività. Anzi, un tale metodo la protegge, perché ha l’effetto di allargare immensamente i nostri cuori accogliendo gli altri senza piccolezze, paura, egoismo, e ci facilita l’essere stanza per tutti senza sentirci disturbati nella nostra intimità, idee e convinzioni.

Jim Gallagher

 

N. B. Questa risposta, colta dal vivo e trascritta, non è stata rivista dall’autore.