"Darsi un progetto di unità nella distinzione: cogliere cioè il significato di ognuno nel tutto"

Comunicare, ma con quali parole?

Trascriviamo questa "reazione" del noto giornalista e uomo di cultura, con la sua consueta profondità, al precedente tema di Chiara Lubich.

Comunicare, estendere la conoscenza agli altri, accogliere quella degli altri: metterle insieme, unirle. Fare di una voce un dialogo e di un dialogo, via via, un concerto.

A veder bene, è la metafora di Chiara Lubich sui fiori di un giardino: Dio è sì in un fiore per volta, ma proprio per questo è in tutto il giardino.

Cito un passaggio di quel testo esemplare: "I fedeli che tendono alla perfezione cercano, in genere, di unirsi a Dio presente nel loro cuore. Essi stanno come in un grande giardino fiorito e guardano e ammirano un solo fiore. Lo guardano con amore nei particolari e nell’insieme, ma non osservano gli altri fiori".

Volgiti dunque al giardino, nel quale sei anche tu, sono anch’io, siamo tutti. Comunicazione, credo voglia dire Chiara, è la capacità di effondere la parola negli altri perché generi altre parole; finché ognuno, e insieme, ci si senta destinatari, e responsabili, di quel dono.

Questa è la condivisione: spezzare il pane e poi, a te, a te, fare una mensa, una cena, una comunione. Laicamente, una comunità.

Il dialogo

D’altronde, un conto è informare, un altro è comunicare: nel primo caso passano dei dati, delle notizie; nel secondo, si fanno largo i contenuti, i valori. Se informi, parli per un altro; se comunichi, parli con un altro. Che cosa ne deriva? Che se ti parlo, perciò stesso ti cambio; e così è di me, quando sei tu a parlarmi. Non si esce mai indenni da un dialogo. Perché dialogare implica darsi la parola su ciò che interessa entrambi, su quanto si è convenuto di voler capire insieme. Certo, nella concitazione del comunicare d’oggi, che costringe sempre più alla brevità e quindi alla sommarietà, occorre disporsi a un ascolto volonteroso. È lì, nei simbolici crocevia in cui le strade convergono, venendo da direzioni diverse, è lì che per non intasare l’incontro di parole, e mandare in tilt il semaforo, occorre saperle spendere nel più chiaro, spedito ed efficace dei modi; anche se darsi la parola non è mettersi in fila e aspettare il proprio turno: anzi, significa contestualizzare la ragione stessa per cui si dialoga. Faccio un esempio molto alto, l’ecumenismo: è certamente lo spirito, ma anche la ragione, a concepire e indirizzare un progetto e un ideale di una tale qualità. Che cosa significa cercarsi negli altri se non accettare che l’altro sia sempre, in ogni luogo e momento, uno di noi? Uno di noi non per dire "uno alla volta", ma tutti in grado di contribuire all’ut unum sint. Ritorna, rovesciata, la metafora del giardino: di fronte al suo profumo, e sentendolo nel suo insieme, abbiamo forse nostalgia di questo o di quello?

L’identità

Certo, l’identità. È, in sé, un valore assoluto. Guai a perderla. Penso a una scienza per la quale tutto ciò che è possibile fosse anche lecito, e inorridisco ad esempio all’idea di clonare, dopo le bestie, anche l’uomo: con il risultato di interrompere il processo naturale dell’individualità con la pretesa di possederne già il marchio, ma di fatto alterando il fondamento delle libere, inconfondibili strutture dell’identità personale. Altra cosa dall’identità è però la pretesa di voler essere soltanto se stessi, separati e incomunicabili, con l’alibi del DNA; magari per mantenere privilegi solitari e vivere esistenze blindate, che perseguono un destino alla volta. Mentre la vita, come la parola, ha il primato di cercare se stessa in altre vite, o in altre parole: "Noi verremo alla meta a due a due", ricordate? Ciò non significa annullare le diversità o, se preferite, le distinzioni; semmai, il pregiudizio, l’intransigenza, il settarismo. Cristo è la condivisione, non la separatezza. Cristo il mediatore, il medium per investitura addirittura divina, al momento dell’abbandono si annulla nel suo essere parola perché è il tempo della comunicazione tra Dio e l’uomo. È qui che ci lascia alle nostre parole, liberi di usarle nel nome della fede e della ragione. Ciascuno all’interno della propria etnia, della propria cultura, della propria religione.

Intervenendo a un incontro promosso dal Cardinale Martini sul tema "L’incredulità del credente", il filosofo Massimo Cacciari ha detto cose che parrebbero in qualche modo pensate anche per chi fa il nostro mestiere: "L’ecumenismo consiste nel mettere in evidenza le distinzioni, di fronte alle quali è necessario non il semplice accordo con l’altro. Non con un altro dimezzato, insomma, col quale si possa trovare l’intesa in una linea intermedia, ma proprio l’altro, l’altro da noi, cioè chi espone una verità diversa dalla nostra". Mi sembra difficile non convenire. Ciò, infatti, non comporta alcuna rinuncia alle costruzioni della nostra ragione e alle peculiarità della nostra fede, e meno ancora l’incamminarsi verso un sincretismo stanco, esangue, confuso e fuori dalla storia.

Il terreno su cui misurare la possibilità di un dialogo nuovo, che corrisponda ai motivi stessi per i quali siamo qui a parlarne, è il grande set dei media. Chiara coglie il momento propizio proprio nel Giubileo. Trova in esso, nel suo spirito di penitenza e di conversione, uno straordinario motivo per dirci che in tempi votati, parrebbe, a scelte fondamentalmente pragmatiche ed egoistiche - ma per far posto agli interessi si finisce, spesso, con lo scansare i valori - tutta la realtà dovrebbe nutrirsi di una profonda motivazione interiore nel suo laico proporsi come forza non solo dell’anima, ma anche del pensiero. Del resto, l’informazione non gioca più soltanto la sua partita professionale rispondendo di ciò che le viene istituzionalmente attribuito e di cui deve rispondere: oggi è un’espressione tra le più presenti nel vivere quotidiano; non a caso la TV è diventata non solo il nuovo luogo, ma la nuova forma della politica. L’informazione, fino a ieri correlata alla conoscenza degli eventi, al loro semplice manifestarsi, è oggi responsabile del loro esprimersi ed evolversi. Questo, in rapporto al modo in cui gli eventi vengono rappresentati. Non mi riferisco al risaputo problema della manipolazione, cioè a un doloso distorcere la realtà, ma al problema della trasformazione del reale come effetto dei mezzi usati per rappresentarlo. In questo fenomeno hanno una grande parte la velocità comunicativa, che frantuma ogni cosa, e le idee preconcette, cioè l’attitudine a privilegiare un’opinione precedente, legata alle nostre categorie filosofiche, alle nostre inclinazioni politiche, alle nostre attitudini umane e persino caratteriali. In definitiva al nostro pregiudizio.

L’informatica e la Chiesa

Qui la responsabilità dei media è enorme. Oggi, per giunta, ha un certo spaccio la creduta sciocchezza che una società informatizzata sia, per ciò stesso, una società informata. È invece assolutamente fondata l’idea che oggi l’informazione non sia più soltanto il quarto potere, ma anche quello che, per la sua universalità e velocizzazione, condiziona le cose del mondo allo stesso modo, ormai, dell’economia. Su Internet, lungo le nuove, prodigiose autostrade elettroniche, tra insidie e sicurezze, il futuro giocherà la sua partita più grande. Un sapere universale omologherà il nostro destino. Ma proprio sulla specie etica di tale fenomeno vale la pena di ricordare quanto ha detto Enzensberger: "Al giornalismo e in genere alla comunicazione spetta oggi il compito di fare chiarezza su tutto quanto, per suo merito e demerito, ci coinvolge, ci inquieta e, anziché unirci, potrebbe dividerci". Il problema, dunque, è se l’invito di Enzensberger ha davvero un riscontro nei nostri comportamenti. Nei confronti di Internet non si pone, mi pare evidente, un problema di scelta nel senso di parteciparvi, oppure no. Può tenersi da parte un individuo, non certo una grande organizzazione, e men che meno la Chiesa. Una rete informatica che ne collega già oggi più di cinquantamila, con il numero d’utenti in crescita esponenziale – già all’inizio dell’anno 2000 erano un miliardo – dove l’informazione circola in tempo reale e le distanze nello spazio fisico sono annullate, una piazza, un foro, un mercato grande come il mondo, senza limitazioni, confini e controlli, anarchica e caotica e perciò con possibilità incalcolabili nel bene e nel male, come può essere ignorata da chi deve diffondere il messaggio del Vangelo? Il Cristianesimo diventò una grande religione universale – la mia è una considerazione storica, cioè soltanto umana e terrena – valendosi, come veicolo, della cultura ellenistica, un codice di comunicazione, per dirla con le parole di oggi, accettato in tutto il mondo greco-romano. Paolo, l’Apostolo delle genti, ad Atene discuteva non soltanto con i Giudei nella sinagoga, ma sulla piazza principale (l’agorà) con quelli che incontrava. Un giorno venne accompagnato all’Areopago, presso l’Acropoli, sede dell’antico tribunale e luogo tra i più illustri della città, dove gli fu chiesto di esporre la sua dottrina. "Tutti gli Ateniesi – nota l’autore degli Atti degli Apostoli, Luca evangelista, il colto medico di Antiochia – non avevano passatempo più gradito che parlare e sentire parlare"; non diversi in questo dalla maggior parte degli utenti di Internet. Paolo, dunque, "alzatosi in mezzo all’Areopago", pronunciò un discorso rimasto celebre, perché segnò il primo passo nell’incontro della dottrina cristiana con la cultura pagana ellenistica; sicché l’apostolo, da abile oratore, catturò subito la benevola attenzione dei suoi ascoltatori, tra l’altro con l’accorta menzione dell’ara dedicata, appunto in Atene, "al Dio ignoto". Sappiamo anche, dal racconto degli Atti, che tutto andò bene fino a quando Paolo non giunse a parlare della resurrezione dei morti. A quel punto "alcuni lo deridevano, altri dissero: ti sentiremo su questo un’altra volta".

Importanza per la Chiesa

Ci fu anche, però chi divenne credente e l’Apostolo si rimise in cammino verso altre città. Se gli Ateniesi di allora gli voltarono, più o meno cortesemente, le spalle, oggi chi disapprova, o semplicemente si annoia, fa zapping col telecomando, oppure, nel caso di Internet, cambia "sito" in cerca di altri argomenti, magari dopo aver detto la sua. È soltanto l’inizio di una profonda trasformazione nel modo di comunicare e di vivere; e che la Chiesa non possa disinteressarsene appare fin troppo ovvio. Innanzi tutto, non dovrebbe essere meno informata sugli sviluppi e sulle prospettive dell’informatica e delle telecomunicazioni di quanto non lo siano i governi, le grandi centrali del potere culturale ed economico, organismi internazionali, il mondo delle imprese. L’apostolo Paolo, sotto il profilo delle conoscenze filosofiche o scientifiche, non era troppo inferiore ai potenti del suo tempo. La Controriforma – o, se volete, la Riforma cattolica – fu contrassegnata da un uso straordinariamente efficace delle arti, penso a pittura, scultura, teatro, musica, che erano i mass media dell’epoca. Nello sfruttamento delle potenzialità televisive, invece, più pronti di tutti sono stati i predicatori elettronici della diverse chiese protestanti americane, fino a quando non si ebbe un Papa con la vocazione e l’autorità mediatica di Karol Wojtyla. Il rischio di un ritardo nel prendere coscienza dell’ampiezza e della consistenza della rivoluzione in atto nel sistema delle informazioni è a mio avviso ben presente e occorre non sottovalutarlo. Non tanto per una questione di proselitismo, da qualsiasi parte provenga, ma di tutela di valori, salvaguardia dì culture, libertà di singoli e di etnie, di gruppi e popoli.

La Chiesa "esperta in umanità", come amava dire Paolo VI, non può escludersi dal cambiamento, ma neppure subirlo inerte. Vi deve partecipare in difesa dell’uomo, per riaffermare i grandi principi etici ed esigerne il rispetto. Siamo a una svolta decisiva. Al culmine della sua creatività il genere umano ha costruito una sorta di cervello planetario in cui tutti i cervelli artificiali sono connessi; e Internet, nonostante la sua attuale anarchia, può contenere la prospettiva di una specie di iperlogica dalla quale l’intelligenza – come da un "campo base", o da una piattaforma di lancio – è in grado di compiere un grande balzo verso la noosfera, il regno della mente. L’uomo, con tutte le sue appendici elettroniche, i suoi impulsi digitali, i suoi algoritmi sembra ormai un animale tecnocefalo, un mutante alla ricerca di quest’altra natura che la virtualità è in grado di rappresentare: una neo-realtà tra vera e fittizia, neutrale e imprigionante, che domina sempre più la nostra fantasia, produce i nostri desideri, condiziona i nostri progetti.

Il grande mutamento potrà svolgersi sotto il segno di una libertà creatrice di straordinarie opportunità, capaci di produrre un generale arricchimento di conoscenza. Ma potranno anche farsi strada – non saprei dire, per ora, in che modo e fino a che punto – forme di controllo e di concentrazione, violazioni dei valori convenuti, con perdite anche gravi di remore morali, attentati alla privatezza, denuncie incontrollate, notizie strumentali, volte a creare condizioni di pericolo singolo e sociale, messaggi più o meno cifrati, e via così: pericoli nei confronti dei quali non saranno mai troppe le salvaguardie e le garanzie. Per questa ragione vorrei veder navigare in Internet, insieme con gli altri, e numerosi, coloro che proseguono il discorso di Paolo agli Ateniesi; e costituirvi porti e approdi per favorire incontri, colloqui e scambi, in spirito di concordia, ma senza cedimenti a tutto ciò che può minacciare l’uomo, il suo destino. La Chiesa non potrà stare a lungo alla finestra. In cielo non passano più solo comete.

Confessionalità e valori

A questo punto bisognerebbe poter rispondere a qualche domanda: per esempio, questa di cui si parla è l’informazione che vogliamo o che subiamo? Forse è l’informazione che i poteri convenuti e costituiti finiscono per esprimere perché, dilatandosi le rispettive giurisdizioni, ognuna dovrà essere mediata dal potere comunicativo, l’unico in grado di garantire spazi e approfondimenti all’esigenza di assicurarsi visibilità e rilevanza. C’è poi da chiedersi se all’umanità occorra una parola che l’acquieti, ciascuno lenito dalla propria parola, e indifferente, se non addirittura ostile, a quella altrui? Una parola religiosa, insomma, o non quella usuale, laica, con la quale ci scambiamo il parlare quotidiano della nostra vita? Persuasi del nostro credo, possiamo esimerci dal dover prestare attenzione e ascolto al credo di chi dubita o addirittura non crede? È lecito, infine, che un’informazione basata su presupposti spirituali debba avere, per garanzia, quella di venire mediata da un comunicatore ad hoc, cioè accreditato, per così dire, dalla sua fede? Non vorrei sbagliare, ma ciò equivarrebbe a ideologizzare una materia che è la più estranea all’ideologia; così come sarebbe estraneo al nostro modo d’intendere la comunicazione un messaggio che avesse per destinatari solo chi ne condividesse la vera, o presunta, verità. Ai media, d’altra parte, non spetta d’essere virtuosi, né edificanti, né, in senso stretto, pedagogici: basterà loro essere leali, trasparenti e completi. Neppure un’informazione esplicitamente confessionale dovrebbe essere racchiusa in una sorta di recinto esclusivo, addirittura di ghetto, nel quale tutto, o quasi tutto, è già convenuto tra chi parla e chi ascolta, bensì far parte di un flusso che scorre lungo l’intera, inscindibile logica informativa, con una presenza che si fa notare in rapporto alla qualità, all’interesse e alla fruizione della notizia, del suo messaggio, della sua rilevanza. È il suo stesso essere materia informativa a doverla accreditare nel contesto delle altre: civili, sociali, economiche, culturali. Con il valore aggiunto della sua forza interiore e del suo substrato etico.

Agire in senso contrario equivale a prendersi il rischio di dividere l’informazione secondo criteri di valore solo soggettivo. In ogni caso, pur scontando la debolezza, specie in questa materia, anche di una pretesa oggettività, nondimeno si dovrà credere al criterio della completezza, cioè del pluralismo; quindi, della distinzione nell’unità. Si rifà viva, anche qui, la metafora di Chiara. Sarebbe, d’altronde, materia religiosa (o non invece un momento decisivo per garantire un’educazione anche laica alla dimensione spirituale, o interiore, della realtà) il comunicare la conoscenza delle altre religioni, le scienze umane, le ragioni della fratellanza, dei diritti civili, dell’antirazzismo, della pace, della libertà, della giustizia, e persino della felicità? Sarebbe dei laici o dei chierici il compito di parlare delle educazioni mancate, ma anche dei linguaggi dimezzati in nome di prudenze più bigotte, e di comodo, che avvedute e necessarie? Siamo proprio sicuri che la Chiesa, nel comunicare se stessa, parli sempre per essere capita? Persino il Papa se l’è chiesto, e ha esortato a fare un uso creativo, cioè aperto, della parola. Comunicare, del resto, esige la consapevolezza e la responsabilità che spettano all’agire; pur sapendo che l’agire, se non ha un centro etico, può risultare inerte e inefficace quanto il semplice chiacchierare. Cito un solo caso: possiamo accettare che la parola non trovi una voce alta perché sulla Terra si levi e prorompa la commozione, lo sdegno, la protesta per la sorte degli attardati, dei deboli, dei derelitti? Non ho mai dimenticato, a questo proposito, che un uomo di pace, Martin Luther King, gridò: "Io vi scongiuro di essere indignati". Perché rimangono così contigue, quasi complici, le parole della futilità e dell’orrore? Perché, confuse insieme, si esorcizzano l’un l’altra. È la logica del telecomando che in un millesimo di secondo confonde lo sterminio di un popolo e una sfilata di moda, o di miss. Non sarà perché tolleriamo che la parola sia lasciata troppe volte a chi ne fa uno strumento di futilità o di potere? Ai giocolieri, ai maghi, ai persuasori? Riflettiamo mai su quanta libertà viene concessa alle parole ammiccanti, persino corrive, che ci esortano a consumare, e per far ciò inducono i nostri desideri e tentano di impossessarsi della nostra volontà? Non a caso dilaga il lessico mercantile, che per imporre l’oggetto lo abbellisce ingrandendolo e trasformandolo; con il risultato che i bambini sognano lo stesso sogno, si perdono nei suoi adescanti meandri, fino a gettarsi dal balcone, come è successo qualche giorno fa, per imitare l’eroe di un gioco inventato dalla nostra astuzia, cioè dai nostri interessi. E tutto quel perdersi pressoché nel nulla, pur di tener vivo il contenitore di tutte le seduzioni, di tutte le facilità, di tutto l’irrisorio, non è forse alimentato con le parole?

Silenzio che parla

Ne nasce l’abitudine alle costruzioni infondate, alle sistemazioni approssimative, alle suggestioni fuorvianti, che invadono molti aspetti pubblici e privati dell’esistenza. Anche se non riesco a cedere al pessimismo, perché si cresce, dopotutto, in virtù dei problemi che siamo costretti a risolvere, anche se non credo che ci aspetti un mondo fatto di realtà fittizie, frutto di un’orribile ignavia collettiva, temo tuttavia che possa affermarsi, se non ne prenderemo coscienza, una logica perversa: quella del mettere in campo, su ogni versante, un così grande numero di disincanti e rassegnazioni che quanto cerchiamo non è più in rapporto con la verità, ma con la dimostrazione che essa non esiste o è molto difficile raggiungerla. È sconcertante pensare che ciò possa accadere anche per le parole dette, taciute, distorte dal mondo variegato della comunicazione. Che cosa ci scambiamo che corrisponda anche alle nostre esigenze interiori - in un mondo nel quale tutto sembra votarsi al criterio dell’utile, del pratico, del conveniente - con quel miliardo di parole che l’umanità pronuncia nell’arco di un minuto? E quale spazio salva per se stesso il silenzio, in una così concitata, babelica, erratica assemblea di voci? Eppure, anche il silenzio, a suo modo, parla: non è qualcosa di inerte, un contenitore solo di assenze, cioè di nulla. Il silenzio ospita echi, produce risonanze, consente di indugiare intorno al pensiero, sta dentro di noi come il respiro, come l’anima. È impossibile parlare sempre, ed è impossibile comunicare solo con le parole. Sono convinto della verità di quanto afferma Susan Sontag nel suo Estetica del silenzio: "Senza la polarità del silenzio l’intero sistema del linguaggio crollerebbe subito". Ma devo subito aggiungere con Heidegger – per il quale il pensiero non sarebbe possibile senza la parola – "che tacere non significa affatto essere muti". Era già un’antica persuasione cristiana: sant’Ambrogio ammoniva che la virtù del silenzio non sta nel non parlare, ma nel saper tacere, e nel saper parlare quando è il suo tempo. A voi pare che si rispetti questa virtù se, in ogni momento e con una impassibilità crescente, ci comunichiamo senza alcun riserbo, per esempio, lo spettacolo del dolore, ma anzi ne cerchiamo, anche istigandole, tutte le risorse? Mi chiedo se provare, dopo l’indignazione, un desiderio di calma, addirittura di silenzio, non possa essere, spesso, il massimo di "relazione". Fellini, più che la voce, ascoltò il silenzio della luna. E ne trasse un film, ancora una volta, ammonitore di qualcosa.

Parola che si fa profezia

Ma la sfiducia nella parola, scrive Giuseppe Pontiggia, tende a crescere al pari dell’inflazione. "Ci si aspetta così poco dalla parola che essa finisce quasi sempre per darlo". Mi piace credere che non sia un giudizio, ma un allarme, un monito. Che appare giustificato, peraltro, quando la parola, pur di tenere desta l’attenzione, la uncina mostrandole tutti i campionari dell’anormalità. Oppure, per garantirsi l’interesse, fa leva sulla terribilità, annunciando il peggio, il peggio di tutto: della vita, e quindi di noi tutti. Ed è la cultura del caos, alla quale si dedicano i cultori delle profezie sciagurate. In realtà, anche per la Bibbia, il profeta non è l’indovino o il veggente. Il profeta parla perché le sue profezie non si avverino. Il profeta parla perché, con la parola, cambi il corso delle cose. E non solo perché funzionino, come oggi è in uso dire, ma soprattutto perché "vivano e facciano vivere", secondo le parole del salmista; cioè offrendoci tutte le opportunità del bene che discende sulla nostra vita, perché c’è anche una trascendenza verso il basso, verso la "santa materia", per dirla con Teilhard de Chardin.

A proposito del "funzionamento", Heidegger scriveva con una punta non so se più di allarme o di rassegnazione: "Tutto, ormai, funziona. Ma proprio questo rischia d’essere l’elemento inquietante: che tutto funzioni e che il funzionare spinga sempre avanti verso un ulteriore funzionare, e che la tecnica strappi e sradichi sempre più l’uomo dalla terra. Lo sradicamento è già in atto. Ormai abbiamo rapporti – tra noi, e tra noi e le cose – puramente tecnici". L’osservazione mi riporta a un’altra – analoga, sebbene scaturita da un ragionamento affatto diverso – di padre Balducci, anch’egli acuto giudice della modernità conclamata. Riferendosi a una sorta di irresistibile primato dell’intelligenza e alla sua natura filosofica, finiva per temere "un pensiero che produce solo pensiero, e questo pensiero un altro ancora", al punto che in fondo alla spirale di un pensiero che pensa, diciamo, solo se stesso, non ci sono più i bisogni veri dell’uomo nella loro reale gravità. Ne consegue che dalla prosecuzione irresistibilmente meccanica, o filosofica, di un assunto – se a mediarlo non intervengono un filtro per esempio politico ed etico, e il suo strumento mediatico – si esaspera ogni ipotesi del possibile; fino a doversi chiedere che cosa ne sarà, in fondo a questa orgogliosa spirale, del consenso anche interiore a ciò che la nostra intelligenza è in grado di sprigionare.

Se dunque, nonostante le prove grandiose della creatività umana, siamo ancora di fronte al fenomeno di una tecnica che provocando di continuo se stessa condiziona tanta parte dell’esistenza (e questo riguarda la scienza) e a un pensiero che suscita solo pensiero (e questo riguarda la filosofia), il rischio è che a restarne fuori siano proprio i privi di sapere e potere: i distanti, i divisi, i deboli, gli emarginati. Ricordate Galbraith? "I ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri". Il rischio, insomma, è che a patirne siano i bisogni fondamentali di tanta parte dell’umanità. Del resto, nel tempo del mercato, delle monete, della globalizzazione, che cosa resterà a chi non ha ancora risolto il problema della sopravvivenza? Nell’epoca nata dai "lumi" quasi un miliardo di uomini non conoscono la luce elettrica; e nel pieno della civiltà dell’immagine noi sappiamo che ogni giorno, lungo il Sud della Terra muoiono di fame e di malattia 50.000 bambini. "A partire da Galileo – dice Gadamer – abbiamo sviluppato le scienze come strumento di potere, un progresso unilaterale senza il quale non sappiamo più vivere, ma con il quale non riusciamo più a essere felici". De Rita, in un recente rapporto del Censis, aveva parlato di un maggior benessere, ma di una minore felicità. Stiamo meglio, ma ci piacciamo meno. Un mondo grasso, ci si domanda, non può avere anche un’anima? Non penso ad altre "globalizzazioni", cioè a una sorta di "holding dell’anima" da affidare alla comunicazione perché ne sparga il seme sul "villaggio globale": penso, con Gadamer, che un’idea delle nostre finitezze sia oggi più congeniale alla religiosità e all’etica, per un verso, e per un altro alla politica, piuttosto che ad una, per la verità ancora tutta da creare, palingenesi, o equazione, mediatica.

Parola come azione

E qui siamo di nuovo alla parola come azione, con cui ho aperto questo intervento. Ammonisce monsignor Egger, vescovo di Bolzano e Bressanone: "Il nostro stesso comunicare, molte volte, non ha alcuna autorevolezza. La fede può essere credibilmente comunicata solo se noi condividiamo il cammino delle persone, se siamo attenti alle loro delusioni, alle loro domande, ai loro dubbi. Parlo di persone, di persone in buona fede, che non usano trasversalmente i loro problemi: le donne, i poveri, gli emigranti, i divorziati, coloro che hanno abortito, i detenuti, i malati di AIDS, gli omosessuali, i tossicodipendenti. Ebbene, le parole che pronunciamo nel nome di Cristo non avranno autorità se non impariamo le parole diverse, se non accettiamo i loro doni. A Emmaus, i discepoli riconoscono Gesù quando lo vedono spezzare il pane". Ma come far posto, in una realtà che non bastando a se stessa ha scoperto la sua rappresentazione persino virtuale, alle parole dell’interiorità? Ai mass media non si chiede di interiorizzare la parola, ma di rispettarla in tutte le sue valenze legittime, in tutto ciò che di legittimo, pur nelle diversità, essa esprime. Ma come guadagnarselo, quello spazio? Si può forse rivendicare per decreto la parte dovuta allo spirito? Diceva l’ateo Camus che "la verità non è una virtù, ma una passione", come dire che il credere stesso, per parlare, deve dare testimonianza. Tutto, allora, sarà rimesso insieme, e la parola darà i suoi frutti.

Vorrei concludere con parole che Chiara conosce assai meglio di me. San Paolo disse: "Quando eravate pagani, eravate come trascinati verso gli idoli muti". Ecco, dunque, il diritto a chiedere: "Dio, non restare in silenzio!". In principio fosti subito parola, il primo segno che venivamo da te; ma stentiamo ancora a capire che essa ci veniva data non perché tutti parlassimo la stessa lingua, ma perché non ci fosse un inginocchiatoio da cui, se autentica, una preghiera salisse più in alto di altre. Mi è cara un’idea delle parole come segno riconducibile al giardino di Chiara, in cui tutto sta, e da cui tutto sale, senza che un gambo prevarichi l’altro per esibire il suo fiore. "Parole mie che per lo mondo siete", così Dante le immagina, personificate creature nelle quali si prolunga la stessa immagine di Chiara, il cui carisma viaggia con lei per le strade del mondo alla ricerca di un crocevia in cui è in comune anche la natura e il destino della parola. Il destino, direbbe Don Milani, di "uscirne insieme". Darsi un progetto di unità nella distinzione: cogliere cioè il significato di ognuno nel tutto. Chiara è stata l’alunna, poi la testimone e l’interprete, oggi è un segno, tra i più alti nel suo carisma, di questo mistero incarnato nell’umanità.

Sergio Zavoli