Per costruire rapporti autentici bisogna vivere in comunione

 

“Come colui che serve”

di Maurício Curi

 

L’autore è nato a Pedro Leopoldo di Minas Gerais (Brasile) da una famiglia cristiana originaria della Siria. Ha avuto una sorella, Aida, considerata la Maria Goretti del Brasile per aver difeso col martirio la propria verginità. Terminati gli studi di filosofia nel seminario di Rio de Janeiro, fu inviato a Gerusalemme per gli studi teologici. Venne ordinato sacerdote a Saydnaya (Siria), villaggio  di origine dei suoi genitori, per la diocesi personale dei melchiti del Brasile. Attualmente è parroco al Cairo.

Ero giovane prete e stavo pensando di abbandonare la mia diocesi, perché non mi trovavo bene col vescovo e con i sacerdoti con cui abitavo. Mentre ero immerso in questa confusione interiore, mi sono incontrato con un mio collega di seminario. Era don José Lessa – oggi arcivescovo, ma allora giovane prete. Mi parlò di un Movimento nuovo nella Chiesa e un giorno mi lesse alcune lettere di sacerdoti piene di serenità e di speranza. Dentro di me si accese una piccola luce: «Se ci sono persone così, non tutto è perduto!».

Ebbi modo allora di conoscere la spiritualità dell’unità. Sentivo tanta gioia quando mi parlavano di Dio Amore, del comandamento nuovo, dell’unità e facevo volentieri delle belle omelie su questi temi. Mi rendevo conto, però, che non potevo solo ammirare queste pagine evangeliche e predicarle agli altri: dovevo metterle in pratica nei miei rapporti quotidiani, cominciando in casa. Non dovevo cambiar diocesi, ma stile di vita.

Dopo due mesi ero tornato a vivere col vescovo, sforzandomi di stabilire rapporti fraterni con tutti. Con stupore notavo che nella nostra convivenza il clima cambiava. Il vescovo anziano aveva bisogno di compagnia ed anche di assistenza per i suoi acciacchi. Prima nello stare con lui mi sembrava di buttare al vento i miei anni migliori, ora sapevo che servivo Gesù in lui e questa testimonianza concreta d’amore edificava la comunità cristiana molto più che le mie prediche. Il vescovo era felice e prima di dare le dimissioni per limiti di età, volle farmi un dono, nominandomi archimandrita.

Un sacerdote anziano, con il quale collaboravo in parrocchia, si era ammalato gravemente ed era stato ricoverato in ospedale. Dissi a me stesso: “Questo è proprio il momento giusto per rivivere Maria che va a servire Elisabetta”. Stetti con lui in ospedale giorno e notte per più di una settimana. Dalle sue parole pronunziate prima di morire ho colto quanto fosse contento della mia presenza. Prima di partire da questo mondo mi ha detto: «Tu mi hai voluto bene!».

Quando, anni dopo, chiesi a Chiara Lubich a quale frase del Vangelo secondo lei avrei potuto ispirare il mio agire, mi indicò queste parole di Gesù: «Io sono in mezzo a voi come colui che serve». Ho cercato di farne il mio programma di vita.

Una causa della crisi del clero

Pur costatando che il Vangelo vissuto cambiava qualcosa nei nostri rapporti, non potevo ignorare la crisi del clero in quegli anni. In Brasile i preti s’interrogavano sulla loro identità, anche a causa dei gravi problemi sociali del nostro Paese. Vedevo sacerdoti della mia età che, uno dopo l’altro, si ritiravano dal ministero. Non mi era facile accettare questo, anche perché fra loro c’erano i miei direttori spirituali del tempo del seminario.

D’altra parte sperimentavo anch’io il fallimento del mio lavoro pastorale e i piccoli successi del momento non riuscivano a colmare il vuoto che si era creato dentro di me.

Quando seppi che il Movimento aveva una Scuola per la formare sacerdoti diocesani alla vita d’unità, chiesi al vescovo di potervi partecipare nella speranza di trovarvi una risposta adeguata. Le circostanze allora non lo permisero, ma nel 1979, inaspettatamente, lo stesso vescovo mi propose di andare a Roma.

Arrivai alla Scuola sacerdotale nell’ottobre del 1979 e vi rimasi fino alla Pasqua del 1980. Eravamo una settantina tra sacerdoti e studenti di teologia e il nostro responsabile era Toni Weber, uno dei primi sacerdoti diocesani focolarini.

Dall’individualismo alla comunione

Vi arrivai stanco, fisicamente e psichicamente. Da anni prendevo dei sonniferi, ma da quando mesi piede nella Scuola, ne facevo a meno e dormivo tranquillo. Mi sembrava un miracolo. Più tardi capii che spesso la miglior medicina sono i sani rapporti tra noi.

Dopo i primi entusiasmi, forse per l’impatto del carisma dell’unità con la mia forma mentis, con la mia formazione individualista, dovetti affrontare momenti di vera oscurità. La vita evangelica che ci veniva proposta, tutta incentrata sulla comunione secondo il modello trinitario, mi pareva un’illusione collettiva, quasi fossimo tutti vittime di un trucco psicologico. E onestamente volli dirlo a Toni Weber, aggiungendo che, essendo egli uno svizzero ed io un brasiliano, sarebbe stato impossibile capirci. Egli mi ascoltò per più di due ore senza nulla rispondere. D’altra parte sarebbe stato perfettamente inutile farlo in quel momento. Ma a sera, entrando nella mia stanza, trovai un suo biglietto: «Carissimo Maurizio, grazie. Dio mi ama veramente e questo mi basta. Sono molto contento e voglio soltanto amare. E Dio prende sul serio il desiderio del mio cuore. Ciao, Toni». Sapevo che quelle parole erano vere. Toni mi portava ad un livello superiore senza lasciarmi arenare nelle difficoltà che mi sembravano grandi ed in realtà erano piccole. Dovevo anch’io buttarmi nell’avventura dell’amore evangelico.

Man mano che i mesi passavano, dentro di me cadevano tanti piccoli idoli, soprattutto scoprivo quanto fosse radicato in me l’individualismo. Nella misura in cui riuscivo a penetrare con la vita alcuni aspetti del Vangelo, mi veniva spontaneo comporre delle canzoni: “Ormai tu ti fai strada dentro di me”, “Non c’è più buio, appare una stella”, “Se Lo amiamo (Gesù crocifisso e abbandonato) siamo luce, pace e risurrezione”, “Ho nascosto il mio volto, ma solo per un instante”. Ogni canto esprimeva una tappa importante della mia vita e aumentava la comunione con gli altri sacerdoti nella scuola.

Comunione fino alle tasche?

Durante questo periodo non mi pesavano più i servizi umili, come ordinare le stanze o pulire i bagni, ma una cosa mi risultò particolarmente difficile: mettere in comune i miei soldi.

Partendo dal Brasile avevo messo da parte mille dollari per un viaggio in Siria, la mia terra d’origine. Pur volendo fare un’esperienza totalitaria di fiducia nella Provvidenza, mettendo tutto in comune, non volevo rinunziare alla certezza di poter fare il mio viaggio. Seppi più tardi di un sacerdote americano che aveva tenuto da parte un po’ di soldi, ma ogni volta che incontrava Toni Weber gli sembrava di avere una banconota di 20 dollari stampata in fronte.

Mi liberai da questo peso e sperimentai una libertà nuova, mai provata prima. E non finiva lì. Io sono un sacerdote greco-melchita, cattolico di rito bizantino, e quando mi dissero che potevo concelebrare con gli altri nel rito latino, all’inizio mi fu difficile accettare, ma poi tutto servì per entrare di più nel cuore stesso della liturgia, indipendentemente dal rito, e a scoprire nella mia liturgia tesori di cui prima non mi ero reso conto, come il “due o tre riuniti nel mio nome”, “l’amore scambievole”, “l’unità”. Nelle solenni celebrazioni eucaristiche bizantine, al bacio della pace, i sacerdoti concelebranti salutano con questa affermazione: «Gesù sta in mezzo a noi», a cui si risponde: «Egli c’è e ci resterà».

In Siria: dalla teoria alla pratica

Terminata la Scuola ebbi il permesso dal mio vescovo per svolgere un lavoro pastorale in Siria. Sembra incredibile, ma dopo un periodo così bello di formazione all’unità, arrivato in questo nuovo posto di lavoro, passai per una prova durissima. La situazione nuova in cui mi trovavo e le difficoltà che incontravo mi facevano pensare che forse avevo sbagliato vocazione. Mi ha salvato l’unità con un sacerdote che viveva la stessa spiritualità: poter mettere in comune ogni cosa con lui, fidandomi della luce di Gesù in mezzo a noi, è stata questa la forza per abbracciare la croce ed evitare decisioni avventate.

In Siria cominciammo i nostri incontri periodici con altri due sacerdoti. Scoprendo insieme quanto la spiritualità dell’unità fosse particolarmente adatta per ridare vitalità alle nostre comunità religiose e civili, esprimemmo il desiderio che il Movimento aprisse un focolare in quella terra. Chiara ci rispose che per il momento non era possibile, aggiungendo: “Si vede che Gesù si fida della sua presenza in mezzo a voi”. Mi convinsi allora che percorrere regolarmente quei 90 chilometri per trovarmi con Massaud, con Michel e con altri sacerdoti, avrebbe portato tanti frutti non solo per la mia vita personale, ma anche per quel Paese dove le vie di Dio mi avevano condotto.

Lavoravo nel Paese di origine dei miei genitori ma, nonostante avessi riscoperto le mie radici, non era facile adattarmi. Ero nato e vissuto in Brasile e tutto lì era nuovo per me, a cominciare dalla lingua araba. Dovevo inoltre affrontare ogni giorno gravi problemi in parrocchia, sforzarmi per “farmi uno” con la mentalità del posto, dove si sentiva forte l’influsso della presenza di confessioni cristiane diverse oltre che del mondo musulmano. Mi sentivo un po’ stressato, quando è sopraggiunta un’epatite che mi ha costretto a venire in Italia per avere cure mediche appropriate.

Quante volte in questo periodo ho pensato che, a causa della salute, forse non avrei più potuto assumere responsabilità in futuro. Allora, guardando a Gesù nel suo abbandono sulla croce, ripetevo: “Anche se questo male mi assediasse per tutta la vita, anche se non potrò mai più lavorare, l’importante è fare la volontà del Padre”.

In Egitto: “far casa” ai sacerdoti

Invece le forze sono ritornate e dopo qualche anno sono stato invitato ad assumere una parrocchia melchita al Cairo in Egitto. Nella nostra Chiesa bizantina questi spostamenti nei vari Paesi del Medio Oriente sono abbastanza normali. Ho capito che per me era un’occasione preziosa non per fare turismo, ma per contribuire a far conoscere il carisma dell’unità soprattutto ai sacerdoti del posto.

In Egitto la situazione del prete cattolico e ortodosso non è facile. Con la presenza massiccia e spesso opprimente del mondo musulmano, le comunità cristiane dei vari riti cercano di difendersi e spesso si chiudono in se stesse. Viene a mancare allora la capacità del dialogo non solo con i musulmani, ma anche tra i cristiani dei vari riti.

Insieme a tutti i membri del Movimento presenti in questo Paese mi sono messo anch’io a servizio della Chiesa, avvicinando tanti sacerdoti. Alcuni hanno subito iniziato a vivere in unità tra di loro e col proprio vescovo, mentre altri, che attraversavano un periodo di crisi, hanno trovato nel nostro gruppo la serenità necessaria per scegliere la propria strada. Volendo amare tutti, siamo andati incontro ai sacerdoti più bisognosi sia spiritualmente che materialmente. Uno che si era allontanato dalla diocesi, dopo essere stato accolto da noi, ha chiesto scusa al suo vescovo ed ora, d’accordo con lui, lavora serenamente in un’altra diocesi.

Un sacerdote sudamericano in missione al Cairo aveva perso ogni speranza ed aveva già deciso di lasciare il ministero. Sono diventato suo amico per un anno intero, cercando di capirlo senza mai giudicarlo. Alla fine ha voluto trascorrere un periodo alla nostra Scuola sacerdotale a Loppiano ed ora è un vero artefice d’unità in diocesi. Abbiamo accompagnato anche due sacerdoti che ora hanno lasciato il ministero: il primo cattolico e l’altro ortodosso. Li abbiamo seguiti nella loro decisione sofferta, finché hanno trovato il loro posto e sanno che possono continuare a contare sulla nostra amicizia.

Se nella parrocchia siriana, pur in mezzo alle difficoltà, avevo visto fiorire tra i giovani delle vocazioni di consacrazione a Dio, qui in Egitto sto assistendo al diffondersi della spiritualità dell’unità tra i sacerdoti. L’Opera di Maria, presente da anni in questi Paesi del Medio Oriente, ha portato questo spirito tra cristiani e musulmani. Attualmente una cinquantina di sacerdoti e alcuni vescovi hanno scoperto la preziosità di questo carisma per la loro vita, per quella delle loro comunità e per il dialogo interreligioso.

La radice di ogni sprazzo di vita evangelica è sempre la croce, il cui “fulcro” è Gesù nel suo grido d’abbandono. Anche per me in questo periodo non sono mancati momenti di sofferenza, come quando ho scoperto di avere una malattia che poteva essere mortale. Ho offerto per l’unità nella Chiesa l’incertezza dell’attesa dei risultati della biopsia. Anche questa volta, però, la malattia è stata superata e posso continuare su questa terra la mia divina avventura.

 

Mauricio Curi