Quale tipo di rapporto con gli altri può farmi uscire dall'immagine di Dio che mi sono fatta, per approdare a Dio com’è in sé?

 

La dinamica della Scuola Abbà

 

Intervista a Giuseppe M. Zanghì

 

Trascriviamo l’intervista con uno dei responsabili degli studi nel Movimento dei focolari. Essa ha i vantaggi e gli svantaggi di ogni conversazione: si guadagna in semplicità e chiarezza, ma non si può pretendere che ogni punto sia esposto con la completezza e i corredi di un trattato. Con quest’ovvio presupposto, essa offre a nostro avviso degli spunti particolarmente stimolanti.

Scuola Abbà

GEN’S: Esiste nel Movimento un gruppo internazionale di studiosi, che si trova regolarmente attorno a Chiara Lubich in quella che si chiama “Scuola Abbà”. Chi la compone, qual è la sua funzione e quali lavori ha cominciato a produrre?

Se n’è parlato già più volte in diverse sedi e pubblicazioni. Attualmente sono venticinque gli studiosi delle più svariate provenienze e discipline, che si ritrovano regolarmente attorno a Chiara per meditare e approfondire le intuizioni fondamentali che scaturiscono dal carisma dell’unità. Essi, a partire dalle loro singole specializzazioni, cercano di evidenziare la dottrina contenuta in questo carisma e di sviscerarne le conseguenze nei vari campi della conoscenza. Attorno ad alcuni di questi esperti si raccoglie poi un buon numero di studiosi sparsi in tutto il mondo. Questi si tengono in contatto continuo con l’esperto centrale della propria disciplina e si trovano tra di loro più volte l’anno, portando avanti degli studi utili alla Scuola Abbà. Una volta l’anno poi i diversi gruppi si ritrovano tutti insieme.

Nella rivista di cultura del Movimento, “Nuova Umanità”, a partire dal n. 102 (siamo adesso al 132), sotto la rubrica “Nella luce dell’ideale dell’unità”, è apparsa una buona quantità di questi studi. Molti di essi sono stati raccolti in appositi quaderni anche in altre lingue: finora in spagnolo, portoghese, francese, inglese, polacco.

In questo momento Chiara avverte che si è conclusa una prima tappa della Scuola Abbà e se ne apre un’altra. Si è chiuso il periodo iniziale, quando la nostra principale preoccupazione era quella di saldare l’esperienza e la luce del carisma dell’unità con la grande Tradizione della Chiesa, attraverso un confronto, oltre che con la Scrittura, anche con il magistero, i Padri della Chiesa, i grandi teologi, i maestri della vita spirituale...

Adesso Chiara ci mette innanzi un altro traguardo: cominciare ad enucleare la dottrina che è contenuta nel suo carisma. Dottrina che ha molte facce: fondamentalmente è un’esperienza spirituale nel senso più ricco del termine, una luce spirituale altissima, e come tale – in nuce – è già teologia; però si coglie che dentro c’è anche una filosofia, e la possibilità di uno sviluppo delle dottrine politiche ed economiche, dell’arte, dei mezzi di comunicazione, di ogni ambito della vita umana. C’è la possibilità di sviluppare quelle che, utilizzando l’espressione di un Padre della Chiesa, sono state chiamate “le inondazioni”, cioè l’incarnazione di quella luce nei vari settori della società.

A questo riguardo si sta preparando una collana di volumetti di 120-180 pagine, fatti dai membri interni della Scuola Abbà, in un linguaggio il più possibile “popolare”, adatti quindi non soltanto agli addetti ai lavori ma anche ad un pubblico il più vasto possibile. In questi testi dobbiamo da una parte evidenziare quanto è fiorito in particolare, ma non solo, dalla vita di duemila anni di esperienza cristiana  e, su questa base,  si può cominciare a proporre una nuova fioritura, la novità della dottrina che cercheremo di focalizzare. Perché la luce del carisma apre ad esempio ad una penetrante visione della Trinità, dell’evento pasquale, dell’antropologia, che devono essere sviscerate. C’è tanto lavoro da fare. E ci vuole un particolare aiuto dello Spirito Santo per portare avanti un compito simile.

 

GEN’S: Che importanza ha la presenza della fondatrice per il vostro lavoro?

Per dirla francamente, e a gloria di Dio, Chiara è una fonte zampillante in mezzo a noi. Nella Scuola Abbà, mentre lavoriamo, abbiamo con lei un rapporto profondissimo. Leggiamo insieme pagina per pagina i suoi appunti di quel periodo illuminativo intensissimo che lei ha vissuto nel ‘49. Per quanto noi possiamo cercare di penetrare quegli scritti, per quanto Chiara ci porti ad “entrare” nelle realtà lì descritte, noi non ne abbiamo fatto esperienza diretta. Mentre per lei non si tratta di una semplice memoria: quelle realtà vissute nel ‘49 continuano ad essere vive dentro di lei. È come se Chiara rivisitasse una realtà di oggi. La luce di quel periodo è l’ambiente nel quale lei vive e da cui attinge per comunicare anche a noi la medesima luce.

Senza la sua esperienza e la sua presenza, quindi, la “Scuola Abbà” non sarebbe mai esistita. Chiara è la testimone viva di quello che è stato il ‘49. Non un testimone che mi racconta qualcosa del passato: quando ci parla, ci accorgiamo che lo Spirito di Dio agisce dentro di lei, presente, operante adesso come lo era allora. Quindi per noi la cosa vitale, prioritaria, è vivere in piena unità con Chiara, per poter cogliere la ricchezza, anche per il pensiero, del suo carisma.

Teologia che viene dal carisma

GEN’S: È una grande fortuna, una garanzia per i secoli futuri, che possiate portare avanti questo lavoro mentre lei è fra voi e può dirvi se ciò che dite lo avverte in sintonia con il carisma che Dio le ha dato…

Quest’estate, mentre eravamo a Mollens in Svizzera, è venuto a trovare Chiara il vescovo ausiliare di Coira, mons. Peter Henrici, gesuita, che è stato per trentadue anni professore di filosofia all’Università Gregoriana. Ero presente anch’io. Gli abbiamo raccontato a lungo della Scuola Abbà. Ed egli ci ha detto: «Voi con questa Scuola state realizzando qualcosa che ancora non è stato fatto». E ricordava, da grande conoscitore di von Balthasar, una bellissima pagina della sua opera Gloria, dove si dice che nei grandi carismi, come quello di Francesco o di Ignazio, c’è una teologia, che però non è del tutto emersa.

San Bonaventura ha cercato di tradurre in teologia il carisma di Francesco, ma la teologia di Bonaventura è la teologia scolastica di quel tempo, all’interno della quale, pur lasciandosi illuminare dal carisma del suo fondatore, egli ha cercato di sistemare il carisma di Francesco: e in fondo gli ha dato un abito concettuale che non era propriamente il suo.

Lo stesso è successo con Ignazio. La teologia di Suárez ad esempio non nasce in modo pieno da Ignazio, “pescando” a fondo nel suo carisma, esplicitandolo, ricavando da esso una teologia “nuova”.

Per questo von Balthasar auspica un tempo in cui la teologia nasca veramente dai carismi, in modo che essi non vengano presi e incapsulati in una teologia preconfezionata, per quanto illuminata e lievitata da quei carismi.

GEN’S: Un tema sempre ricorrente nella storia del cristianesimo è quello della successione dei carismatici. Come tutto ciò che fate, anche a livello degli studi, potrà continuare quando Chiara non sarà più presente?

Più volte è stata rivolta a Chiara questa domanda. Ricordo, ad es., che ad una di queste – durante la Scuola GEN (corso di formazione dei giovani del Movimento), nell’aprile del ‘78 – lei rispose loro: «Amate Gesù abbandonato, ché con lui non si crolla mai, e portate dovunque la presenza di Gesù in mezzo. Se questo ci sarà, state tranquilli, il Movimento andrà avanti».

Adesso ciò che dobbiamo chiederci in profondità e radicalmente è: «Cosa significa però amare Gesù abbandonato ed avere Gesù in mezzo a noi?». Per capirne qualcosa dobbiamo andare indietro nella storia del cristianesimo.

Il “caso serio” dell’incarnazione

Ho l’impressione che i cristiani ancora non siamo riusciti a cogliere il mistero dell’incarnazione fino alle sue ultime conseguenze. Poco tempo fa rileggevo la terza parte della Somma Teologica di san Tommaso, dove si parla, nella sezione cristologica, dell’unione ipostatica. In una nota il teologo domenicano che ha curato quel volume fa rilevare che la soluzione di Tommaso, quando parla dell’umanità del Cristo come “strumento congiunto” alla divinità, in fondo non supera del tutto lo scoglio del monofisismo (la dottrina sostenuta dal monaco Eutiche di Costantinopoli nel V secolo, al quale era talmente cara la divinità del Verbo in Cristo, da sacrificare ad essa la sua umanità, facendola assorbire dalla divinità). L’incarnazione non può essere semplicemente “usare uno strumento”, incarnarsi è farsi veramente uomo. Questa realtà non l’abbiamo assimilata fino in fondo.

Eppure Gesù ci ha fatto capire quanto è decisiva la comunione con la sua umanità per entrare in questo mistero. Il sacramento centrale della fede cristiana non è l’Eucaristia, non è avere comunione di carne e di sangue con Gesù?

Nel Medioevo si pensava che l’umanità di Cristo ad un certo punto della vita spirituale doveva essere superata per poter attingere le profondità di Dio in quanto Dio. C’è stata in seguito la reazione fortissima di santa Teresa d’Avila. Lei affermava che anche in Paradiso l’umanità di Cristo resterà la mediazione senza la quale non possiamo avere la visione di Dio. Quella umanità non è qualcosa che ci viene offerta per poi superarla e metterla da parte. Quello che Dio fa è fatto per sempre. Gesù è portatore del “carisma” per eccellenza – la sua realtà di Figlio di Dio – e noi non possiamo avere comunione con il Figlio di Dio, e in lui con tutta la Trinità, senza avere comunione con la sua umanità.

Quando Dio manda dei grandi carismi, la legge è analogamente la stessa. Egli ce li offre in creature umane, e non può essere altrimenti. Quel certo carisma si fa creatura, si fa Domenico, si fa Benedetto, si fa Caterina... E io non posso avere comunione con il loro carisma – che poi è Cristo in loro, lo Spirito Santo in loro – se non ho comunione con la loro umanità. Devo in qualche modo “cibarmi” della loro umanità.

La domanda che io mi faccio è questa: «Siamo sicuri che la teologia cristiana, nata sempre dal “carisma” di Gesù, non si sia contaminata per strada con altre realtà che bisognava pur assumere per inculturarsi in quel determinato ambiente, ma che in qualche modo l’hanno condizionata?».

Ricordo l’impressione che provai ad es. leggendo Dionigi l’Areopagita. Quando si fa riferimento a lui si parla in genere del De divinis nominibus e del De mystica theologia, però altre opere fondamentali sue sono il De coelesti hierarchia e il De ecclesiastica hierarchia. Quando lessi queste ultime, rimasi sconcertato, perché la sua è la visione neoplatonica del mondo, con i gradi dell’essere, con la scalarità, ecc. Non saprei dire cosa c’entri il carisma cristiano lì dentro. Eppure voi sapete quanto influsso egli ha avuto nel cristianesimo posteriore, non soltanto tra i grandi maestri della mistica, ma – come fanno notare gli studiosi – sullo stesso san Tommaso. Dionigi l’Areopagita è stato per secoli maestro indiscusso.

Perciò tante volte Chiara parla della “teologia di Gesù”. Il cuore profondo della teologia cristiana deve essere raggiunto in maniera compiuta, e questo può accadere elaborando categorie che “nascano” da questo cuore. Aveva ragione E. Gilson quando diceva che il cristianesimo porta una realtà talmente nuova, che è “costretto all’originalità”.

La “teologia di Gesù”

Tutto quello che è accaduto nella storia certamente è assunto nei piani di Dio, e la teologia ci ha offerto tante cose importanti attraverso le categorie culturali e sociali di ogni epoca, quasi sempre anche rinnovandole e superandole. Proprio per questo prezioso lavoro, oggi ci sembra giunto il momento di domandarci con coraggio qual è il vero pensiero di Gesù. Mi si dirà che egli non era un teologo. D’accordo, però Paolo nella 1 Corinzi dice: «Noi abbiamo il nous, la mente di Cristo». Noi oggi abbiamo o no questo nous di Cristo?

Si racconta che Tommaso d’Aquino, quando aveva un problema che non riusciva a penetrare, si portava in chiesa, apriva il tabernacolo e metteva dentro la sua testa.

A parte la storicità o meno del racconto, esso vuol significare che Tommaso si rivolgeva al Signore per dirgli che egli la sua parte l’aveva fatta fin dove era riuscito, e adesso chiedeva a Gesù di fare la sua.

Tommaso indubbiamente è stato il grande teologo dell’Eucaristia, e si capisce come nella sua santità vivesse in questo atteggiamento. Noi non mettiamo la testa nel tabernacolo, ma in Gesù presente in mezzo a noi. Dobbiamo crederci. Ma questo non può essere possibile, se non ho comunione con la sua umanità.

Passare per i fondatori

GEN’S: Questo, per ciò che riguarda il rapporto con Gesù. Ma a partire da un tale presupposto, e tornando al carisma dell’unità, quale relazione deve esserci fra la persona di Chiara e coloro che la seguono?

Se accolgo pienamente il suo carisma, Chiara mi strappa dal mondo delle mie idee e mi fa partecipe della luce che ha ricevuto. Ma quando lei mi strappa a seguirla nella sua esperienza spirituale, io mi trovo a dover lavorare con il carisma grandissimo dell’unità così come mi viene dato e presentato nell’umanità di Chiara.

Qual è l’errore tragico che noi potremmo fare? Che, per prendere il suo carisma, dicessimo: «Bene, questa è la sua umanità, la mettiamo da parte e prendiamo solo la sua spiritualità». A questo punto noi non prenderemmo niente. Dobbiamo avere una comunione profonda, intensissima con l’umanità di Chiara, se vogliamo che il suo carisma passi a noi, e produca in noi i suoi frutti.

A questo punto, in pratica, cosa succede? L’umanità di Chiara non è la mia. Lei ha la sua storia, la sua sensibilità, la sua intelligenza, la sua tradizione, la sua cultura, cose tutte per tanti versi differenti dalla mia realtà... Ma se vogliamo attingere il suo carisma, dobbiamo – ripeto – passare attraverso la sua umanità, farla nostra, lasciarci consumare da essa.

Ora, questo ha un effetto forte sulla nostra umanità, come se la distruggesse. In che senso? Il cuore del messaggio di Chiara è di condurci dall’essere io-Gesù, tu-Gesù, l’altro-Gesù… ad essere il più possibile semplicemente Gesù. Questa è stata l’esperienza che lei ha vissuto nel ‘49. In poche parole, ciò significa uscire da me e dal modo come io contengo Dio in me, per approdare a Dio in sé.

Chiara una volta ci ha detto: «La perfezione non è Dio in me o Dio in te, la perfezione è Dio in Dio». Però per fare questo c’è una strada obbligata. Bisogna che la mia umanità subisca quella “devastazione” che ha subito l’umanità di Gesù sulla croce. Lui è stato annientato da chi? Certamente dagli uomini, che l’hanno condannato e crocifisso, ma soprattutto dal Padre che l’ha abbandonato. Se vogliamo entrare nel cuore del messaggio spirituale che Dio ha affidato a Chiara perché lo dia alla Chiesa e all’umanità di oggi – ed è per questo che cerchiamo di far emergere dal carisma l’antropologia, la teologia, la psicologia, la pedagogia, ecc. – noi dobbiamo accettare che la nostra umanità sia crocifissa.

Non essere per essere

C’è una intensissima frase di Chiara: «Gesù abbandonato perché non è, è; noi se siamo non siamo, se non siamo, siamo». Cosa vuol dire questo?

Non è che io “sono e quindi non sono” quando ho l’uomo vecchio, per usare l’espressione paolina, cioè quando sono egoista, quando mi lascio portare dall’aggressività, dalla sete di possesso, di dominio, dalle tendenze meno nobili della mia natura. No. Parrà strano, ma “io sono” nel senso che “non sono”, anche quando vivo solo all’interno di me pur abitato dal mio Dio.

Non è che Chiara voglia cancellare questa intimità. Ma Gesù ha gridato «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Cioè non devi fermarti al Dio in te, al quale tu non puoi non imporre la tua finitudine, “capendolo”, limitandolo, chiudendolo. Devi accedere a Dio in sé.

Perché questo possa accadere, la tua umanità dev’essere condotta sulla croce e nell’abbandono, come quella di Gesù, in unità con la sua, nella sua.

È seguendo la sua umanità nell’abbandono che la nostra umanità può venire crocifissa per risorgere, ricostituita, rifatta, «non da mani di uomo», come dice la Scrittura, ma da Dio stesso.

E questo riguarda anche il nostro pensare, nel senso più profondo e integrale.

Il “Castello esteriore”

Uno dei mille modi con cui Chiara ci presenta la novità del suo carisma è attraverso quello che ha chiamato il “Castello esteriore”. Ma cos’è? Va capito bene. Non è qualcosa di esteriore, altrimenti non sarebbe più “vita interiore”. “Castello esteriore” vuol dire che io, dalla mia interiorità nella quale trovo il Dio dentro di me, mi lascio strappare dallo Spirito all’interiorità stessa di Gesù, che attingo nella sua umanità tanto in quanto esco dalla mia; e se tu, contemporaneamente, esci dalla tua, c’incontriamo tutti e due nella croce, nell’Abbandonato, nell’umanità di Cristo, presente in mezzo a noi come frutto dell’Eucaristia vissuta nella reciprocità dell’agape.

Ovviamente, quando Gesù fa questo, se io ho comunione con lui, il fatto che egli in me esprima se stesso nel modo suo, si colora sempre di me. Ma questo lo fa lui, non devo farlo io. Non devo essere io il custode geloso della mia individualità, della mia umanità. Io la consegno a lui, come il Figlio ha consegnato al Padre la sua umanità. È lui che me la ridà nella sua, trasformata, cambiata, ma sempre mia, un mio però che non è più quello che conosco, perché non è più il “mio” isolato che si oppone al tuo, ma è il mio che, in unità con il tuo, è Gesù in mezzo a noi.

 Soltanto così, penso, si può arrivare ad una visione rinnovata di Dio ed in lui di tutte le cose.

Farmi uno con Gesù nell’altro

GEN’S: E come posso arrivare a questo concretamente?

Ho solo un modo: farmi uno con Gesù nell’altro. Ciò che produce questo salto di qualità nella mia umanità e mi consente di accedere dal Dio in me al Dio in Dio, è l’unità che consumo con gli altri, il Gesù in mezzo che posso realizzare con loro.

Dovremmo cercare di vivere fra di noi in questa maniera. Se mi trovo con un altro che condivide questa stessa vita, questo incontro cosa dovrebbe significare? Che io, con un atto di violenza assoluta iniziale, mi scordo di me (e quando dico di me dico anche della forma, del limite che ho dato a Gesù in me) per accogliere Gesù dall’altro. Ma non posso accogliere il Gesù in lui se non passo attraverso la sua umanità; e per passare attraverso la sua umanità, la mia dev’essere crocefissa ed abbandonata, altrimenti non passa.

Chiara fa sempre notare che Gesù nell’abbandono non ha gridato: «Padre mio perché mi hai abbandonato?», ma ha gridato «Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Egli si era fatto uno con noi fino al fondo della nostra derelizione e individualità di creature umane. Lì sente di perdere Dio. Qual è il frutto di questa perdita? Egli perde Dio nella sua umanità crocifissa e abbandonata per farlo vivere e trovarlo nei fratelli, che ora sono il suo Corpo.

Infatti, quando Gesù appare dopo la risurrezione, dice: «Va’ dai miei fratelli e dì: – Io vado al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro». Il commento classico che si faceva era: Gesù distingue, perché Dio era Padre suo in modo diverso da come lo è di noi. Oggi si preferisce pensare che Gesù voleva dire: “Vado da quel Dio mio che adesso è anche Dio vostro”. A me sembra più vera questa seconda interpretazione. La nostra umanità ha subíto in Gesù questo abbandono totale, per ritrovare Dio in modo più autentico, più pieno.

Allora tutto ciò che diciamo nella Scuola Abbà, gli studi che facciamo, se non vogliamo che restino flatus vocis, devono passare per questa dinamica: non ricercare te, non ricercare Dio solo in te, ma cercalo anche nel fratello. E questo ti spalanca la porta del Dio in sé, nella sua Trinità.

Certo, se il fratello rimane fermo, indifferente, senza amore, o ad aspettare che io vada da lui senza che egli venga da me, allora inevitabilmente io sentirò la tenebra dell’abbandono. L’abbandono diventa risurrezione, quando il fratello fa la stessa operazione. Io esco da me per andare al Cristo in te, tu esci da te per andare al Cristo in me. E dove c’incontriamo? Nel Cristo in mezzo a noi, nella sua interiorità. È realizzare la vera personalità, che è comunione

Il patto d’unità

GEN’S: Infatti sappiamo che cominciate ogni incontro con un patto…

Chiara comincia sempre con il patto d’unità fra tutti noi; però, ci diceva ultimamente, bisogna che stiamo attenti che questo patto sia vero, che non diventi una formalità. Non si può soltanto dire: “Io sono pronto a morire per te, tu sei pronta a morire per me…”, allora cominciamo a studiare. No, no, deve essere reale quello che sto dicendo.

E perché diventi reale, c’è la vita, e non occorre pensare chissà quali cose. Se io vivo con un altro, devo farmi uno con la sua umanità, ma in modo tale che non siamo più due che ci vogliamo bene, rapportandoci con una specie di gentleman’s agreement, come dicono gli inglesi, di mutua cortesia, ma tu rimani lì e io qui. Siamo invece chiamati a diventare “una sola cosa” come Gesù chiede al Padre.

E affinché ciò accada, dobbiamo entrare nell’esperienza della croce, sino al franamento della mia umanità e della tua, per arrivare ad una compenetrazione reciproca, che ha il suo termine non nella tua e neppure nella mia umanità, ma in quella di Cristo risorto, che è l’Uomo nuovo vivente in mezzo a noi.

Se io lascio che chi mi è vicino  cerchi di aprirsi spazio dentro di me mentre io cerco di entrare in lui, questo non può che crocifiggermi, crocifiggerci, come abbiamo detto. Quale sarà però il risultato, se lo facciamo nell’amore vero, nell’agape? Per la dinamica trinitaria dell’amore che viene da Dio, il risultato è Gesù, Gesù Verbo di Dio, Parola di Dio fattasi uomo, vivente in noi e in mezzo a noi: cioè in noi uno in lui, Lui.

 

a cura della redazione