Flash di vita

Il dono della malattia

«Ringrazio Dio di avermi chiamato al sacerdozio e di avermelo fatto vivere per la più parte della vita nella sofferenza, collaborando così all’apostolato della Chiesa. Mi sono sforzato, colla grazia di Dio, di realizzare le parole di san Paolo: “Completo in me i patimenti di Cristo per la sua Sposa, la Chiesa”. Anche le altre parole dell’apostolo: “Le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria che sarà rivelata in noi”, mi sono state di luce durante le lunghe e spesso dolorose giornate».

In queste poche frasi si può riassumere la vita di Gino Damiano della diocesi di Perugia. Questo prete, nel pieno delle sue forze, vede aprirsi davanti a sé, in maniera irreversibile, una sola strada, la via crucis.

Egli, però, non si perde d’animo e mentre cerca di capire il misterioso disegno di Dio, s’imbatte nella spiritualità dell’unità. Più tardi scriverà nel suo testamento: «Ringrazio ancora Dio di avermi fatto conoscere il Movimento dei focolari e del grande aiuto spirituale che ne ho ricevuto in questi circa venticinque anni». Ma lasciamo che egli stesso ci racconti la sua avventura.

«Nel 1949, quando mi sono ammalato, non mi hanno spiegato la natura del male, perché credevano che fosse a breve esito. Quando ne ho letto il nome sulla cartella clinica – morbo di Addison – sono andato a leggere nell’enciclopedia: le previsioni parlavano di pochi mesi di vita ed io avevo 38 anni.

Mi sono sentito di fronte alla morte. Mi pareva d’avere preso un colpo alla testa. Non riuscivo a rendermene conto. Poi è subentrata la rassegnazione: a denti stretti accettavo quella volontà di Dio. La cosa più dolorosa è stata passare dall’attività pastorale continua alla debolezza massima: non riuscivo più nemmeno a leggere una pagina di seguito.

Dopo un po’ mi sono ritirato nel nascondimento, completamente inattivo dal punto di vista pastorale. Poi pian piano ho capito: il Signore voleva da me che questa sofferenza non andasse sprecata.

In seguito per maturare questa convinzione è stato fondamentale conoscere, tra i punti della spiritualità del Movimento dei focolari, quello su Gesù crocifisso e abbandonato. Egli sulla croce sperimentò il più grande dolore, sentendosi abbandonato dagli uomini e da Dio, ma proprio così compì l’opera della redenzione nostra e del mondo.

Era il 1964. Le focolarine da Foligno venivano a Perugia per incontrare un gruppetto di persone. Qualcuno ha parlato loro di me ed esse sono venute a trovarmi.

Ciò che mi colpiva in loro era l’amore reciproco che le legava e che traspariva da tanti gesti concreti. Anch’io volevo vivere come loro. Ho cercato di cambiare i rapporti con le due persone che stavano con me: mia madre e mia cugina. Se fino a quel momento mi ero lasciato servire, ora dovevo anch’io fare qualcosa. Mi sono messo allora a spazzare la casa, a pulire il bagno, a dare la cera... compatibilmente con le mie forze.

Mi chiedevo poi: perché noi sacerdoti non ci volevamo bene come loro? Anch’io fino a quel momento ero stato molto duro nei rapporti con gli altri: pretendevo e giudicavo anche quelli che lavoravano con me. Ricordo ad esempio che per motivi politici non ero stato gentile col mio collaboratore. Cercai di cambiare io per primo, dimenticando la mia malattia e facendomi uno con tutti quelli che venivano a trovarmi, interessandomi ai loro problemi e alle loro attività.

Fu così che non rimasi solo. La Provvidenza mandò un primo sacerdote, poi un secondo e un terzo, tutti desiderosi di vivere il Vangelo insieme. C’incontravamo regolarmente ogni settimana, dapprima a casa mia, finché il numero dei partecipanti aumentò e andammo in una casa più grande che serviva ordinariamente per gli incontri del clero.

Una seconda cosa mi impressionava:  le persone del Movimento erano pronte a perdere tutto per fare la volontà di Dio. Capivo che anch’io dovevo fare questa scelta, perdendo anche le cose che mi stavano più a cuore, come lo studio, per aiutare in casa..

In quegli anni una mia cugina, che era di aiuto a mia madre e a me, fu travolta da una frana e morì sotto le macerie. Furono momenti molto duri per noi, ma l’unità con gli altri sacerdoti mi aiutò a rimanere in Dio e a trovare la forza per andare avanti.

Un’altra esperienza mi è rimasta impressa. Una volta ho potuto partecipare ad un incontro di sacerdoti a Roma. Però il viaggio fu così faticoso che ho dovuto rimanere tutto il tempo a letto senza prendere parte al convegno. Me ne lamentai con un sacerdote il quale mi ricordò che io avevo scelto Dio, non l’incontro. Bastò perché ritrovassi la pace.

Per un certo periodo, per motivi di salute, non potevo frequentare gli incontri in focolare. Mi sosteneva la presenza costante accanto a me di un sacerdote, Lucio Luchetti. La sua carità concreta, fatta di tante attenzioni, di tanti gesti e soprattutto vissuta in maniera evangelica, mi faceva sentire la vita di tutti.

Lucio, quando la persona che mi assisteva in questi ultimi anni andava in ferie, ne prendeva il posto e si trasferiva a casa mia per tutto il tempo. Condividevamo le nostre esperienze: egli mi parlava del suo apostolato e di come le persone crescevano nel rapporto con Dio; io gli raccontavo le mie cose e lo seguivo con la mia preghiera. Poi, in modo inatteso, per una malattia mortale don Lucio è andato in Paradiso, ma al suo posto sono subentrati gli altri del mio focolare e per me è stata l’occasione per tuffarmi a pieno titolo nella vita di comunione con tutti loro.

Intanto maturava sempre più in me la convinzione che la mia sofferenza doveva essere offerta per la Chiesa. Se non potevo fare apostolato attivo, potevo però offrire come Gesù in croce. Quando il nostro arcivescovo ha voluto dare un’onorificenza ad alcuni preti ammalati, tra i quali c’ero anch’io, mi parve di ricevere la conferma della mia vocazione. Ed ho gioito nel vedere come la Chiesa oggi valorizzi la preziosità della sofferenza.

In tutti questi anni non mi sono mai sentito inutile, anche perché ho visto come attraverso la mia persona è passata in tanti la grazia di Dio. Negli anni scorsi vari gruppi di giovani sono venuti a trovarmi con regolarità. Alcuni di loro hanno maturato scelte cristiane totalitarie. Per questo spesso ringrazio il Signore della situazione in cui mi ha posto. Mi sembra di vivere la parola: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la Chiesa”».

Il suo vescovo di allora, Ennio Antonelli, aveva un profondo rapporto di amicizia e di affetto con don Gino. Prima di lasciare Perugia per andare a Roma come segretario della Conferenza episcopale italiana, gli ha fatto visita e gli ha chiesto di offrire la sua sofferenza per il bene di tutta la Chiesa in Italia, accompagnandolo nel nuovo lavoro con l’offerta della sua vita. «Questo - gli disse - perché il soffrire è più prezioso del lavorare».

Don Gino si sentì molto onorato di un tale “incarico” e due giorni prima di morire, in un momento di preghiera fatta insieme con altri sacerdoti, questi gli hanno domandato cosa desiderasse chiedere a Dio, ed egli: «Che nella Chiesa cresca la presenza del Risorto».

Durante il funerale l’attuale vescovo diocesano, Giuseppe Chiaretti, rilevava che la vita di questo sacerdote era stata una continua offerta d’amore, seminando ovunque la gioia e diventando per tanti fonte di vita.

Alberto Veschini

Anche gli anziani
possono amare

Era il 1947 e mi trovavo ancora in seminario, quando un prete sconosciuto venne a visitare il nostro rettore. Ci parlò di un gruppo di ragazze che avevano avuto il coraggio di leggere da sole il Vangelo, di capirlo in modo nuovo e soprattutto di viverlo, e poi anche di donarsi reciprocamente ciò che avevano sperimentato.

Dentro di me pensai: «Questa è una vera novità! Ogni cristiano può vivere il Vangelo e poi annunciarlo agli altri come buona novella». Sarei andato subito a Trento per conoscere da vicino queste persone per vivere come loro. Ma non era possibile.

All’inizio del ministero sono stato mandato a Poschiavo come insegnante. Poi sono stato nominato vicario, quindi parroco a St. Moritz. In seguito ho lavorato a Lenzerheide insieme ad un altro. Ma come fare per avere una vita comune? Forse non ero ancora preparato.

Intanto conoscevo a fondo la spiritualità dei focolari e imparavo a vivere l’unità con altri sacerdoti. Una ginnastica impegnativa, ma che ti fa entrare nel cuore del Vangelo.

In seguito ho chiesto al vescovo di poter  attuare questo stile di vita con un altro prete in una nuova destinazione, ma non era possibile.

Quando ho compiuto 70 anni, sono andato dal vescovo e gli ho detto: «Devo rinunziare al mio incarico, ma vorrei rendermi ancora utile alla Chiesa. Potrei vivere insieme con un altro parroco, dedicandomi un po’ al Movimento dei focolari, con cui da più di trent’anni condivido la spiritualità».

Il vescovo ha acconsentito e mi ha dato la sua benedizione. Così sono andato ad Adliswil, dove ho fatto vita comune con altri due preti per cinque anni. Un’esperienza bella.

E per farla breve, mentre godevo “il mio paradiso”, mi sono sentito come afferrato da Dio. Un mio caro amico prete, colpito da un ictus un anno fa, praticamente ha dimenticato tutto. Riesce però a prendere contatto con le persone e a conversare. Bisogna stargli vicino e creargli un ambiente d’amicizia.

Quando è stato dimesso dalla clinica ed è tornato nel suo appartamento, ho notato subito che non avrebbe più potuto vivere da solo. Ho cercato a lungo una soluzione, ma non ne ho trovata una soddisfacente.

Un giorno ho detto a Gesù: «Oggi devi darmi un segno per capire che cosa fare». A sera, dopo aver celebrato la messa a Baar nel Centro del Movimento dei focolari, improvvisamente mi è stato domandato: «Don Emilio, quando ti trasferirai qui?». Ero abbastanza sorpreso, ma ho risposto spontaneamente: «Appena troviamo un appartamento». L’appartamento era pronto. Il segno era chiaro. Così io e il mio confratello ci siamo trasferiti a Baar.

Siamo anziani, ma anche da vecchi si può amare. Facciamo veramente vita comune come in famiglia, nelle piccole cose di ogni giorno. Per esempio io preparo il cibo e lui lava i piatti. Il venerdì o il sabato io pulisco la cucina e il bagno ed egli passa l’aspirapolvere in tutto l’appartamento. Per cinquanta anni ho atteso questa opportunità; adesso sono stato esaudito. Pur con i limiti della nostra età, siamo ottimisti e ogni nuovo giorno lo prendiamo come un dono di Dio da riempire con l’amore fraterno. E se un giorno non fossimo più autosufficienti, l’amore degli altri fratelli ci verrà incontro.

Emilio Zanetti

 

L’unità vera
esige che si ami tutti

Ho cercato fin dall’inizio di creare rapporti veri con sacerdoti di ogni età e carattere, perché nella spiritualità dell’unità non è possibile amarci fra di noi senza amare nello stesso tempo tutti gli altri.

È nato così spontaneamente nella mia zona un gruppo di sacerdoti che si incontrano regolarmente per alimentarsi con questa spiritualità.

Alcuni di questi all’inizio trovavano difficoltà con gli altri membri del presbiterio, ma piano piano le cose si sono appianate.

Ora ci incontriamo fraternamente una volta al mese presso un convento francescano. Leggiamo la Parola di vita, ci scambiamo le esperienze in un clima di profondo e sereno ascolto, poi ci tratteniamo a pranzo.

Anche con i religiosi che ci ospitano si è creato un rapporto spontaneo: all’inizio ci apparecchiavano il pranzo in una sala a parte, ora vogliono che mangiamo insieme a loro.

Qualche volta è venuto anche il vescovo, che ha sempre apprezzato i nostri incontri. È stata l’occasione per ricomporre il dialogo con qualche sacerdote.

Quando il vescovo mi ha nominato vicario generale, mi ha invitato come prima cosa a creare lo spirito di famiglia tra i preti. Questo mi ha dato l’occasione di aprire un dialogo con tutti, specialmente con gli anziani, gli ammalati, quelli che vivono isolati e, in qualche caso, di entrare a contatto con chi aveva, appunto, difficoltà nel presbiterio diocesano. Non mi sono mai arreso di fronte alle difficoltà, neanche quando erano rapportate  con la mia persona.

Una volta mi telefona un sacerdote preannunciandomi che di lì a poco sarebbe venuto a sfogarsi con me, perché insoddisfatto di come stavo risolvendo la sua situazione: «Sentirai quante te ne dirò!».

Ho pensato alle parole di Gesù: «Se qualcuno ha qualcosa contro di te...» e, nonostante fossero le due del pomeriggio, in piena estate, sono salito in macchina e sono andato da lui.

Nella telefonata mi aveva detto che mi avrebbe restituito anche il vasetto di miele che qualche giorno prima gli avevo portato per la sua mamma anziana. «Sta a vedere – pensavo dentro di me – che mi tira quel vaso sulla testa».

Arrivo a casa sua e suono il campanello. Si affaccia dalla finestra e, sorpreso di vedermi, dice soltanto: «Ah! Sei venuto tu?». Poi scende, parliamo a lungo e da quel giorno le cose sono andate sempre meglio.

A volte la sera, specialmente di domenica, se ho un po’ di tempo libero, telefono a qualche sacerdote o vado a trovarlo. Sono sempre esperienze positive.

A volte mi capita di trovarmi di fronte a situazioni inattese o a problemi insospettati. Nel contatto personale, però, si rettificano giudizi, nascono rapporti nuovi e si aprono porte che prima sembravano sigillate.

Ultimamente sono andato da un sacerdote che vive completamente isolato e da anni estraneo alla vita della diocesi. Ero andato qualche altra volta, ma era molto difficile trovarlo. Quella sera era in casa.

Mi accolse cordialmente e pur avendo potuto parlare appena qualche minuto, perché doveva uscire d’urgenza, qualcosa doveva essersi sbloccato. Pochi giorni dopo, infatti, mentre ero per la strada, si è fermata vicino a me una macchina: era lui che mi invita a salire e così abbiamo potuto anche parlare a lungo di temi sociali che lo interessano tantissimo; ma il motivo vero era di farmi sentire la sua amicizia. Ora ha iniziato a frequentare i nostri incontri mensili.

Vorrei dire che a fare il vicario generale in questo modo può diventare persino gratificante, perché vai scoprendo che il cuore di ogni prete è pur sempre segnato dall’amore.

Piero Sapesi