Saper “perdere tempo” per costruire l’unità

 

In dono gli uni per gli altri

di Enrico Pepe

 

Verso la fine del ‘64 e l'inizio del ‘65 tre sacerdoti diocesani focolarini partirono per il Brasile, mandati dai propri vescovi su proposta del Movimento dei focolari. Si misero subito al lavoro secondo i bisogni delle diocesi di destinazione: due nelle parrocchie e Toni Weber, medaglia d’oro alla Gregoriana, come professore e direttore spirituale nel seminario maggiore di Recife, che allora accoglieva seminaristi di quasi tutta la regione nordestina.

La nostra andata in Brasile fu una vera avventura. Dopo il primo periodo d’incanto nella scoperta della bellezza della natura tropicale e del carattere aperto e accogliente degli abitanti, abbiamo cominciato a toccare con mano le profonde e secolari sofferenze del Nordest, dove la schiavitù dei neri e lo sfruttamento irrazionale del suolo avevano trasformato questa regione, un volta economicamente la più ricca, nella più miserabile dell’intero Paese.

Ma quello che più profondamente ci addolorava era la crisi che questa Chiesa allora stava attraversando. Tanti bravi sacerdoti erano stati perseguitati dal regime militare ed erano fuggiti all’estero, tanti altri scoraggiati dalla situazione insostenibile in cui operavano, abbandonavano il ministero. Anche i seminaristi diminuivano a vista d’occhio, i seminari man mano sparivano e le ordinazioni diventavano sempre più rare.

Ricordo il lamento di dom Helder Câmara. Rivolto ad un suo sacerdote che gli chiedeva di essere dispensato dal ministero, il santo vescovo, molto rispettoso della libertà di ogni essere umano, si lasciò sfuggire una frase con un tono di voce che lasciava trasparire il suo dolore di pastore: «Ma ve ne volete andare tutti?».

Eppure non era stato così nel passato. Studiando la storia, andavamo scoprendo che questa terra aveva dato sacerdoti di grande valore. Alcuni di loro erano ancora al lavoro, altri erano diventati vescovi ed alcuni di questi si erano imposti all’ammirazione in ambito mondiale. Certamente le motivazioni dell’attuale crisi erano molte, ma quella di fondo ci sembrava fosse una sola: di fronte alla nuova presa di coscienza degli enormi problemi sociali, culturali e pastorali i preti si sentivano soli e impotenti.

Per fortuna avevamo "una casa"

Toni Weber, che nel seminario aveva contatti a livello regionale e nazionale, ripeteva spesso: «Anche in questa terra i preti non hanno “la loro casa”».

Noi eravamo stranieri e dovevamo inculturarci. È vero, avevamo nel cuore il carisma dell’unità e il Movimento dei focolari, già operante sul posto sin dagli anni sessanta, aveva attratto molte persone di ogni categoria sociale, dagli abitanti dei mocambos ai professionisti e a vari sacerdoti.

Per noi immergerci in questa comunità era come respirare l’aria pura e riprendere coraggio. Organizzavamo anche incontri per soli sacerdoti. Ne venivano pochi, ma tutti desiderosi di un’autentica vita evangelica. Erano contenti soprattutto di sperimentare concretamente l’amore fraterno.

Confesso che non avevo minimamente il coraggio di affrontare i problemi del clero locale, ma vivevo volentieri all’ombra di Weber. Egli con la sua santità e competenza teologica ispirava a tutti sicurezza.

Così per due anni. Ma un giorno, durante un incontro per sacerdoti, mi chiamò da parte e mi disse: «Il mio vescovo mi ha richiamato in Svizzera e fra due mesi dovrò partire. Il compito di portare l’Ideale dell’unità tra i sacerdoti del Brasile ora è affidato a te».

Ebbi l’impressione che il soffitto mi crollasse addosso: era assurdo, impossibile! Non fui capace di dire una parola, ma egli si accorse che il colpo era stato troppo forte e mi rassicurò: «Tu non dovrai fare altro che quello che hai fatto finora: vivere il comandamento nuovo in modo che Gesù sia in mezzo a voi, ed egli farà dono del carisma dell’unità ai sacerdoti».

Era vero. Avevamo fatto così in quei due anni ed era andata bene. Mi rasserenai e continuammo l’incontro.

Un luogo per la formazione

Dopo qualche anno venne costruito un Centro Mariapoli vicino a Recife ed io col permesso di dom Acacio Alves, il mio vescovo brasiliano, vi fui trasferito. Mio compito era dare assistenza religiosa negli incontri dei laici ed occuparmi dei sacerdoti che desideravano vivere la spiritualità dell’unità.

Durante i mesi estivi, quando in questi luoghi il sole cocente sembra spaccare anche le pietre, mi trasferivo in un appartamento affittato sulla spiaggia e qui accoglievo nel primo mese un gruppo di preti e nel secondo uno di seminaristi. Venivano da ogni parte del Brasile, erano pochi e desideravano una sola cosa: bere alla fonte del carisma dell’unità. Avevo per questo l’aiuto dei focolarini e delle focolarine.

Si vede che il buon Dio dà grazie particolari per ogni inizio, perché tanti, che oggi sono preti e vescovi, ricordano quell’esperienza con immensa gratitudine. Mentre tutto intorno a loro sembrava crollare, essi trovavano in quella convivenza la luce ed anche la gioia per andare avanti.

Ricordo un giovane prete venuto da Rio de Janeiro. Nei primi giorni era un po’ scuro in volto. Pensai fosse stanco, ma dopo chiesi a cuore aperto se avesse qualche problema. Mi rispose: «I miei compagni migliori hanno abbandonato il sacerdozio ed io mi domando se non devo fare la stessa cosa». «In questi giorni intanto ti puoi riposare – gli dissi – e poi vedremo con calma cosa sarà meglio fare». Passarono alcuni giorni e mi disse: «Qui mi sembra di essere in paradiso e voglio vivere anch’io con Gesù in mezzo a noi».

Ritornò al suo lavoro in una parrocchia di 100.000 abitanti, ma vicino a lui c’era un altro prete disposto a vivere in unità e questa comunione fu la salvezza per ambedue. Oggi questo giovane pretino di allora è arcivescovo in una capitale di uno Stato del Brasile.

L’avventura nell’Araceli

Man mano che gli anni passavano anche i sacerdoti e i seminaristi che facevano quest’esperienza di comunione si moltiplicavano. Recife non era di facile accesso per tutti loro, mentre il Movimento iniziava a San Paolo, dove convergono tutte le vie di comunicazione, la costruzione di una sua cittadella chiamata “Araceli”.

Vi andai insieme al mio vescovo per tenere un incontro di preti. Verso la fine i sacerdoti chiedevano che io mi trasferissi colà. Ma chi prendeva il mio posto nel Nordest? Nessuno aveva il coraggio di parlarne col vescovo, conoscendo le necessità della diocesi. Questi, di sua iniziativa, mi prese da parte e mi disse: «Tu devi venire qui e prenderti cura dei preti». Non credevo fosse vero e gli chiesi: «Se vengo qua, lei dovrà dare un altro prete che prenda il mio posto nel Nordest». «Tutto è possibile», mi rispose. Ed io: «Ma come farà in diocesi?». «Come vescovo devo vivere anch’io la collegialità e non posso guardare solo al bene della mia diocesi. Il tuo posto è qui. Quanto a me, il Signore mi darà il centuplo. Non ha forse detto: “Date e vi sarà dato”?». E il Signore mantenne la parola.

Prima di mettermi al lavoro mi presentai all’arcivescovo di San Paolo e spiegai il motivo della mia presenza nella sua diocesi. Egli mi benedisse, dicendomi che lavorare per i sacerdoti era la cosa più importante in quel momento storico.

Avevamo tutte le benedizioni del Cielo, ma non avevamo ancora un’abitazione. Intanto gli incontri per sacerdoti si moltiplicavano ed anche il numero dei partecipanti. In uno di questi era presente un vescovo, che spontaneamente si rese conto di questa necessità e durante la messa disse a tutti che aveva sentito una forte spinta interiore a dare un contributo per iniziare la costruzione di una casa per i sacerdoti.

Altri preti misero a disposizione quanto potevano e in breve tempo la casa era pronta e con me venne un altro sacerdote ad abitarla. Furono gli stessi sacerdoti a seguirne con noi i lavori, a preparare intorno un bel giardino, a ripulire un boschetto. Era la loro casa e oggi posso affermare che fu anche la loro fortuna.

La cittadella, infatti, cresceva in tutte le sue componenti e i suoi abitanti seguivano una sola regola: impegnarsi nel vivere il Vangelo. I sacerdoti venivano volentieri: la maggioranza una o due volte l’anno per i grandi incontri, ma un piccolo gruppo veniva ogni mese per tre giorni: si riposava, si immergeva nella vita della cittadella a contatto con gli altri abitanti e imparavano anch’essi a vivere l’unità. Venivano anche da molto lontano: qualcuno in aereo in poche ore, altri con dodici ore di macchina o di pulman.

Un giorno un vescovo mi disse tutta la sua preoccupazione, perché i suoi migliori preti ogni mese affrontavano questo viaggio. «Sono bravi e si vede quanto ciò sia dovuto al contatto col Movimento, ma se capita un incidente e muoiono, la mia diocesi verrà decimata... Non puoi venire tu qui? Ti paghiamo il viaggio in aereo».

Rimasi perplesso e spaventato. Capivo il problema reale del vescovo, ma capivo anche che l’unica ricchezza che io potevo offrire ai sacerdoti non era la mia persona o la mia scienza, ma mostrare loro un modello di società dove si vive il Vangelo. E questo, allora, in Brasile era possibile solo nell’Araceli.

Non sapendo cosa rispondere, cercai di spiegare la cosa come mi fu possibile: «Lei ha perfettamente ragione e se crede in coscienza di proibire questi viaggi, io appoggerò la sua richiesta e i preti obbediranno».

Rimase pensoso per un bel momento e poi, guardandomi negli occhi, mi disse: «È troppo grande quello che stanno ricevendo, non posso impedire loro di continuare. Che Dio ci protegga».

Dopo circa dieci anni lo stesso vescovo, venuto a Roma, mi fece visita in ospedale, mi ringraziò e mi confidò che il bene ricevuto dalla diocesi a causa di questi preti era impagabile. Uno di loro aveva riaperto il seminario e fatto rifiorire le vocazioni. In dieci anni egli aveva potuto ordinare ben 86 nuovi preti.

Il mondo dei seminari

Un altro capitolo si era aperto, infatti, riguardo ai seminari. Dopo il periodo di crisi, i vescovi volevano riaprirli, ma dove trovare i formatori? Tra gli altri, anche alcuni preti di varie diocesi che da qualche tempo seguivano la spiritualità dell’unità, furono invitati ad assumere questo compito. Rimasero molto perplessi, non avendo avuto una preparazione specifica per lavorare in questo campo, che d’altronde si annunziava particolarmente difficile. In uno degli incontri alla Mariapoli Araceli esaminammo insieme la cosa e arrivammo alla conclusione che bisognava accettare con spirito di fede l’invito dei vescovi.

Da allora ogni mese questi formatori si ritrovavano insieme anch’essi per tre giorni all’Araceli per mettere insieme le gioie e i dolori, gli esiti positivi e quelli negativi. Erano giorni particolarmente fecondi, sia per sostenersi a vicenda imparando gli uni dagli altri, sia per vedere come impostare la vita dei nuovi seminari. Potevano ispirarsi alle idee-forza del tipo di formazione che l’Opera di Maria dà ai suoi membri.

Il ruolo del formatore poteva assumere caratteristiche impensate nel passato. Per esempio il rettore di un seminario teologico doveva provvedere anche al sostentamento degli alunni, cercando la provvidenza presso i parroci e, mentre i seminaristi erano all’università, egli preparava loro il pranzo. Nel pomeriggio era poi a disposizione per aiutarli negli studi.

Questo modo di fare ha avuto un influsso molto positivo sulla formazione, facendo comprendere, più con i fatti che con le parole, che il seminario è una famiglia dove si vive l’amore fraterno e il sacerdozio è innanzi tutto servizio. Oggi questo rettore è il vescovo della loro diocesi.

La conferenza episcopale del Brasile riunì in un organismo i rettori dei seminari per prepararli meglio. Uno dei nostri preti fu scelto come responsabile nazionale e, vista la buona riuscita, fu poi richiesto come coordinatore per tutti rettori dell’America Latina. Al suo posto venne messo un altro rettore, anch’egli del Movimento, ed anche questi venne chiamato a lavorare nel CELAM(Consiglio episcopale latino americano) nel settore delle vocazioni.

Questi, per il suo lavoro, ha visitato tutta l’America Latina, dando corsi di formazione per coloro che operavano nel mondo dei seminari. In questo modo l’esperienza che aveva dato buoni frutti nei loro seminari, veniva riconosciuta e apprezzata, e si diffondeva ovunque.

Qualcuno potrebbe chiedersi cosa ci fosse di speciale nel loro metodo. Forse potremmo dirlo in una sola parola: fare del seminario un luogo di comunione come la famiglia di Nazareth o come il gruppo degli apostoli attorno a Gesù. E farlo vivendo la Parola di Dio e mettendone in comune i frutti. A volte bastava solo raccontare qualche esperienza e gli altri capivano; e la sapienza che sgorgava dal Vangelo vissuto faceva crescere le persone più che qualsiasi bella teoria.

I religiosi

In Brasile il popolo spesso non distingue un religioso da un diocesano: ogni sacerdote è chiamato “padre” e basta, e il contatto tra diocesani e religiosi è molto intenso, anche perché tantissimi religiosi lavorano nella pastorale parrocchiale. Forse per questa vicinanza essi furono facilitati ad incontrarsi con noi e scoprivano che il loro carisma, a contatto con quello dell’unità, veniva illuminato e rafforzato.

Una volta, quasi per gioco, ci dividemmo in gruppi: i diocesani da una parte e i religiosi dall’altra, e questi si suddivisero secondo le congregazioni e gli ordini di appartenenza. Ogni gruppo doveva riflettere sul proprio carisma per poi presentarlo a tutta l’assemblea.

Ai religiosi non sembrava vero poter far conoscere a tutti la bellezza del proprio carisma, mentre i poveri diocesani non sapevano che pesci prendere. Si domandavano: «Ma abbiamo noi un qualche carisma?». Finché uno di loro disse: «Mi sembra che il nostro carisma si possa riassumere nel Testamento di Gesù: che tutti siano uno». Tra la spiritualità dell’unità e la preghiera sacerdotale di Gesù il ciack era perfetto.

Dopo questo incontro i religiosi si distinsero per approfondire i loro carismi e noi diocesani continuammo il nostro cammino, pur rimanendo sempre collegati. Per esempio quando eravamo chiamati a predicare gli esercizi al clero nelle diocesi, spesso andavamo in due: un religioso e un diocesano, sapendo che avremmo incontrato anche dei religiosi.

L’unità tra i due predicatori era così vera che una volta a Manaus, capitale dell’Amazzonia, dopo due giorni un sacerdote chiese a chi li aveva invitati: «Mi devi spiegare una cosa. I predicatori sono due, ma è come se fossero uno solo e chiunque di loro parla è come se parlasse Gesù. Qui c’è sotto qualcosa di grosso che mi sfugge». L’altro rispose: «È più semplice di quanto tu possa immaginare: è veramente Gesù che parla, perché essi cercano di mettere in pratica le parole di Matteo 18,20: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”».

Era questo, infatti, il nostro sforzo continuo: far sperimentare ai sacerdoti la realtà di Gesù in mezzo a loro, pienezza di vita, fonte di luce, di pace, di Spirito Santo.

I seminaristi

La vita nuova diffusa tra i preti aveva toccato anche tanti seminaristi ed anch’essi vollero avere una casetta per loro all’Araceli. Qui alcuni di loro, col permesso dei superiori, si fermavano un anno per imparare concretamente a vivere l’unità e nello stesso tempo si mantenevano in contatto con i compagni nei vari seminari, tenendoli aggiornati e facendo circolare la vita.

Qualche superiore, impressionato per i cambiamenti che notava in seminario ad opera degli alunni che seguivano la spiritualità dell’unità, venivano da noi per rendersene conto di persona. E non era difficile spiegar le cose: bastava guardarsi attorno.

Erano a volte così entusiasti di questo stile di vita che spesso dovevamo frenarli, perché non facessero pressione sui seminaristi per venire da noi e diventare così “più buoni”. Dicevamo: «Non potete strumentalizzarli, essi devono vedere nei formatori come si vive in unità». E non era facile per la vecchia generazione, non ancora abituata a questo stile di vita.

Quando poi arrivavano le vacanze l’Araceli si riempiva di 40-60 seminaristi desiderosi di approfittare di questo periodo di libertà dagli studi per vivere un’esperienza d’unità più profonda. Il contatto con laici consacrati (i focolarini e le focolarine), con i giovani della loro età (i gen), con le famiglie – ma tutti impegnati nel seguire Gesù– era una scuola di vita. La presenza nella stessa città di focolarine e di ragazze, piene di vita e dagli occhi puri, dava ai seminaristi la misura di come dovrebbe essere il mondo femminile, facendo loro scoprire il vero disegno di Dio sulla donna: Maria.

La vita continua

Ormai da circa sedici anni ho lasciato questa terra, ma la spiritualità dell’unità, diffusa nel frattempo in quasi tutte le diocesi, continua a dare i suoi frutti.

Attualmente sono quattro le cittadelle del Movimento, dislocate dal nord al sud del Paese. Ovviamente la vita di comunione non è circoscritta in questi luoghi, ma compenetra anche le strutture stesse della Chiesa ad opera di tante altre forze vive suscitate dallo Spirito.

 

Enrico Pepe