Dalla cultura africana un contributo alla comunione tra sacerdoti

 

Patto di sangue e patto d’unità

di Johannes Distelberger

 

Nell’Africa subsahariana tradizionale una persona prima di tutto appartiene ad una comunità, perciò la famiglia e il clan giocano un ruolo molto importante. Nella visione delle diverse culture di queste regioni la persona si definisce così: “Io sono perché noi siamo”. L’africano – forse più di ogni altro – si sente realizzato pienamente soltanto quando vive in relazione con gli altri. Forse per questo la spiritualità dell’unità fa presa anche tra i sacerdoti di questo Continente.

L’anima africana

Il presidente e fondatore dello stato indipendente del Kenya, Jomo Kenyatta, diceva: «Nessuno è un individuo isolato... ma ogni persona è membro di un gruppo famigliare. La sua vita è basata su questo fatto, spiritualmente, economicamente ed anche biologicamente. Il lavoro che fa ogni giorno è determinato da questo ed è questa la base della sua responsabilità morale e di qualsiasi obbligo sociale».

Per gli africani è nella famiglia e nel clan che si sperimentano gli elementi comunitari come solidarietà, calore nelle relazioni umane, accoglienza, dialogo, comunione. Si tratta, ovviamente, di una verità valida per ogni essere umano, ma sottolinata in modo particolare e originale nella cultura africana.

Per questo motivo i vescovi nel sinodo per l’Africa in preparazione al giubileo del 2000, per definire la Chiesa hanno privilegiato l’espressione biblica “famiglia di Dio”, facendo di questa realtà l’idea centrale dell’evangelizzazione per il loro Continente. Ed hanno rivolto ai teologi l’invito a «sviluppare la teologia della Chiesa come famiglia con tutte le ricchezze contenute in questo concetto». In questo modo il sinodo non solo ha messo in luce questa dimensione ecclesiale, ma ha lanciato una grande sfida.

Essere famiglia

L’ideale dell’unità, così come è stato vissuto fin dall’inizio nel Movimento dei focolari, ha sempre avuto la caratteristica di una vita di comunione molto intensa, di vera famiglia. Quando alcuni focolarini, dietro invito di un vescovo, sono arrivati in Africa hanno trovato un terreno sotto questo aspetto molto adatto. Anche alcuni missionari legati a questa spiritualità hanno capito che dovevano presentarsi ai sacerdoti del posto vivendo lo spirito di famiglia con loro.

Non una famigliarità fatta di semplice amicizia, ma quella proposta da Gesù nel Vangelo quando dice. «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18, 20). Questo cardine della spiritualità cristiana risponde pienamente alla più schietta esigenza del mondo africano.

Formare, dunque, una famiglia che sia allo stesso tempo evangelica e africana. Nel quarto capitolo del documento sinodale africano si legge: «La famiglia è il luogo dove il valore profondo africano della vita si realizza, è protetto e nutrito, un posto dove la comunione e la solidarietà sono il cuore della vita quotidiana e dove ognuno si sente a casa».

Come realizzare questo impegno?

Quando noi sacerdoti, che in Africa seguiamo la spiritualità dell’unità, abbiamo cominciato a incarnarla nei vari aspetti della nostra vita, dall’uso dei beni all’uso dei mezzi di comunicazione sociale, abbiamo scoperto una grande consonanza con una caratteristica fondamentale del nostro popolo, quella che noi chiamiamo la famiglia come “comunità di vita”.

Vincent Mulago, nel suo libro Una faccia africana del cristianesimo, scrive: «Per il fatto che noi nasciamo in una famiglia, un clan, una tribù, siamo immersi in una corrente vitale particolare che ci incorpora, ci forma e ci orienta a vivere sul modello di quella comunità, plasmando ontologicamente tutto il nostro essere. In questo modo la famiglia, il clan, la tribù sono un “tutto” di cui ciascun membro è solo una parte. Lo stesso sangue, la stessa vita, condivisa fra tutti e ricevuta dal primo antenato fondatore del clan, scorre nelle  vene di tutti».

Anche un focolarino africano, Martin Nkafu, nella sua opera Il pensare africano come vitalogia sviluppa il concetto che “la vera personalità africana è la comunità”. E perché essa si consolidi vengono fatti tutti gli sforzi, mentre sono rifiutati quei fattori che potrebbero diminuirla.

C’è, dunque, una grande affinità fra il carisma dell’unità e questa visione della vita nella tradizione africana, e, nello stesso tempo, questi due fattori si influenzano e si rinforzano a vicenda.

Comunione dei beni

La comunione dei beni, per esempio – il primo aspetto della vita d’unità – è molto importante nella vita africana. Nella nostra tradizione non esisteva la proprietà privata, tutto era in comune. Soltanto la vita moderna ha cambiato questa realtà. Se noi sacerdoti ci sforziamo di vivere questa comunione anche nei beni materiali come i primi cristiani, siamo inseriti nella nostra più sana tradizione e nello stesso tempo diamo una forte testimonianza evangelica. Così abbiamo deciso di creare un fondo comune diviso in tre parti: la prima per le necessità ordinarie di ognuno, la seconda per i bisogni urgenti e la terza per la formazione di quei sacerdoti che desiderano approfondire questo stile di vita.

Un altro modo di vivere la comunione dei beni è la seguente: ognuno esamina quello che ha e decide se può mettere in comune qualcosa che serva ad un altro. Tutte le cose raccolte vengono messe insieme e distribuite a seconda delle necessità di ciascuno. Questo è sempre un avvenimento gioioso, perché ci abitua a misurare il nostro superfluo sulle necessità degli altri, ci fa vivere la povertà come condivisione e accresce fra noi l’unità.

Per mantenere sempre vivo questo spirito di famiglia ci troviamo insieme almeno una volta al mese. È il nostro giorno di festa per l’atmosfera di gioia che si crea tra tutti: è la famiglia che si riunisce. In queste occasioni, nella fiducia scambievole, ognuno comunica le sue sofferenze, i problemi e le gioie. Lo scambio diventa ricchezza per tutti e spesso troviamo o le risposte di cui ciascuno ha bisogno o almeno il sostegno fraterno per affrontare situazioni difficili con la forza di andare avanti, ispirandoci al Vangelo.

Un episodio significativo

Uno di noi aveva avuto una discussione con il suo parroco a proposito di un gruppo carismatico. Malgrado questo gruppo fosse riconosciuto nella diocesi, non trovava spazio in parrocchia. Il nostro amico aveva preparato una lettera molto forte diretta al parroco, difendendo il suo punto di vista. Prima di inviarla ha voluto leggerla nel nostro incontro per sentire il consiglio degli altri. Dopo avere ascoltato tutti, ha deciso di strappare la lettera. Aveva capito che doveva portare avanti la soluzione del problema non attaccando il parroco, ma cercando di ascoltarne le ragioni per poi dire il proprio pensiero con serenità e oggettività e per puro amore.

Le visite

Dopo gli incontri cerchiamo di tenere vivi questi legami di famiglia con telefonate –  quando è possibile – o con lettere e visite. Nel contesto africano le visite sono molto importanti, perché dimostrano appunto lo spirito di famiglia. Alle volte questo non è facile per le grandi distanze e per le strade molto brutte.

Un giovane sacerdote, si trova in una missione molto isolata, al confine con l’Uganda, vicino al lago Vittoria. È quasi impossibile per lui venire ai nostri incontri, perciò ci manteniamo in contatto epistolare. Un giorno abbiamo deciso di andarlo a trovare. Otto di noi siamo riusciti a liberarci dagli impegni per fare questo viaggio e portargli un segno concreto dell’amore di tutti.

Malgrado il lunghissimo viaggio di 12 ore non ci siamo mai sentiti stanchi o annoiati, perché c’era fra noi tanta gioia. Siamo arrivati di notte, ma egli e il suo parroco ci hanno accolti a braccia aperte. Il giorno dopo abbiamo celebrato la messa per la comunità cristiana locale, abbiamo visitato le opere della missione e poi abbiamo dovuto riprendere la lunga strada del ritorno.

Il parroco, alla fine della nostra visita, ha manifestato la sua ammirazione dicendo che, in quarant’anni di vita pastorale, non aveva mai visto un gruppo di sacerdoti venire da così lontano solo per salutare un loro confratello. E concludeva: «Dovete avere una grande unità tra voi!».

Ci siamo resi conto che quella visita non era stata solo motivo di gioia  per i sacerdoti e la comunità cristiana locale, ma anche un grande arricchimento per noi stessi.

In Africa le feste sono molto importanti. Chi vi partecipa, mostra che fa parte della famiglia. Per questa ragione facciamo il possibile per essere presenti quando qualcuno riceve il diaconato o il sacerdozio.

Il patto

In certe regioni del nostro Continente famiglie o persone, non legate da parentela, possono creare un’alleanza tra loro con il cosiddetto “patto di sangue”: provocano una piccola ferita e attraverso di essa mescolano il loro sangue. Coloro che lo praticano restano profondamente uniti per tutta la vita.

Noi facciamo il patto di unità che ci impegna più profondamente, perché con esso promettiamo di amarci come Gesù ci ha amati.E lo rinnoviamo ogni giorno nella messa, perché sia lui a ratificarlo. Questo è anche il momento in cui preghiamo gli uni per gli altri e, così uniti, ci offriamo a Dio per la Chiesa e per l’umanità.

Spesso, quando ci ritroviamo insieme, constatiamo che abbiamo superato situazioni difficili, perché ci sentivamo sostenuti dall’unità con gli altri.

Anche il dolore è per la comunione

L’8 agosto ‘98, John Kiongo, andando a far visita a un suo fratello che lavorava presso l’ambasciata degli Stati Uniti a Nairobi, venne a trovarsi nell’edificio proprio quando scoppiò una terribile bomba innescata da terroristi. Suo fratello e sua nipote morirono all’istante ed egli rimase gravemente ferito. Il suo braccio destro si era staccato quasi completamente e i suoi occhi non vedevano più. Abbiamo cercato di fare tutta la nostra parte per restituirgli la salute, disposti anche a trasferirlo all’estero, se necessario, per le cure più appropriate. In seguito ci ha raccontato l’esperienza di quei giorni.

«Quando ero in ospedale, gravemente ferito e cieco, ho sperimentato l’amore concreto di tutti voi. Vi siete interessati del mio caso e, nonostante i vostri impegni, siete venuti continuamente a visitarmi. Mi arrivavano in continuazione lettere, cartoline e fax. Mi avete dato tanto conforto, perché avete sofferto e pregato per me: vi ho sentiti veramente fratelli. Il vostro amore era così concreto che quasi non sentivo più i dolori ma, al contrario, provavo tanta gioia interiore che mi veniva da piangere per la commozione. Ma l’esperienza più forte l’ho fatta quando i medici mi hanno detto che molto probabilmrnte sarei rimasto cieco e senza braccio. In quei giorni, attraverso la vostra unità, ho ricevuto una forza eccezionale ed ho accettato serenamente anche questa eventualità. Poi, a poco a poco ho ricominciato a vedere ed anche il mio braccio è ritornato normale».

Una scuola per sacerdoti

Noi sentiamo fortemente il bisogno di trovare la via africana dell’evangelizzazione e abbiamo incontrato nella spiritualità dell’unità un aiuto molto concreto. Questo spiega la rapida diffusione di questo carisma in molti paesi africani e il desiderio espresso da alcuni dei nostri vescovi che sorgesse una scuola per i sacerdoti che desiderano formarsi in questo spirito nella cittadella del Movimento dei focolari presso Nairobi nel Kenya.

Essi, infatti, sanno che per costruire una Chiesa secondo le genuine aspirazioni dell’animo africano, occorrono pastori con un cuore senza frontiere.

Johannes Distelberger

 

 

Nella tragedia del Burundi         

Quando in Burundi si sparse la notizia che le due etnie erano ormai sul piede di guerra, alcuni di noi, che condividiamo la vita in unità, ci trovavamo insieme per una giornata di ritiro. Fu un dolore grande per tutti e in quel giorno rinnovammo il patto di essere pronti a dare la vita gli uni per gli altri e a lavorare insieme per la pacificazione, pur essendo coscienti di esporci alla vendetta di coloro che non vogliono la pace.           

Come poi accadde al sacerdote focolarino, Silvestre Hakizimana. Preso di mira a causa del suo lavoro di pacificazione tra le etnie, egli sapeva che la sua vita era in pericolo. Sarebbe potuto fuggire dal Paese per salvarsi, ma volle restare. Ci disse chiaramente che preferiva dare la vita per la sua gente. Venne ucciso mentre si recava a celebrare la messa.    
o stesso avvenne con mons. Joachim Ruhuna, arcivescovo di Gitega, nostro carissimo amico. Pochi giorni prima di essere assassinato, si era detto pronto a pagare con il suo sangue l’unità del popolo burundese.        
Anche un gruppo di seminaristi, la maggior parte dei queli condivideva con noi l’ideale dell’unità, fu massacrato per non aver voluto dividersi secondo le etnie. Oggi la nostra chiesa ammira in tutti loro la testimonianza evangelica dei martiri.     

Vivere l’unità è certamente una via per l’inculturazione del cristianesimo in Africa e, conseguentemente, è anche un mezzo di fondamentale importanza per risolvere alla radice i conflitti che attualmente dilaniano i popoli del nostro Continente.
     
                                                                                                                                    Léon Sirabahenda