Nella persecuzione o nella libertà ciò che ci salva è la vita di comunione

 

Perseguitati ma uniti

di Karel Pilík

 

Oggi noi dimentichiamo molto facilmente, ma l’esperienza di comunione, vissuta durante la persecuzione comunista in un Paese dell’Est da sacerdoti che vennero a contatto con il carisma dell’unità, merita di essere ricordata. Essi, oltre ad aver conservato eroicamente la fede in Dio e la fedeltà piena alla Chiesa, sono riusciti a conservare intatto anche il loro equilibrio fisico e psichico ed hanno aiutato in maniera molto concreta tanti cristiani.

Un po’ di storia

La storia della Chiesa nel nostro Paese negli ultimi cinquant’anni è stata molto drammatica. Il 25 febbraio 1948 si è realizzato il colpo di stato comunista e man mano si è scatenata una drastica persecuzione contro la Chiesa e altre componenti della società. Abolizione di tutti gli istituti ecclesiastici, seminari compresi; isolamento dei vescovi, alcuni imprigionati, e molte centinaia di sacerdoti in carcere. Nell’aprile del 1950, nel corso di una notte, vennero soppressi tutti gli ordini religiosi maschili e i loro membri deportati in un campo d’isolamento strettamente sorvegliato dalla polizia. Le religiose vennero confinate in campi di lavoro, gestiti anch’essi dalla polizia. I superiori maggiori maschili e femminili, dopo processi inscenati, furono condannati a molti anni di prigione.

Il regime, inoltre, faceva di tutto per distruggere il legame della nostra Chiesa col Papa, per scalzare l’autorità dei vescovi e mettere al loro posto fondazioni pseudoecclesiastiche, come il Movimento dei preti per la pace o più tardi quello chiamato Pacem in terris.

La cortina di ferro paralizzava qualsiasi contatto con la Santa Sede. La vita della Chiesa era forzatamente chiusa all’interno delle chiese, i parroci incessantemente sorvegliati dalle spie, sempre in pericolo di essere imprigionati o privati del consenso statale necessario per svolgere il lavoro normale nelle parrocchie. I seminari diocesani (erano circa 12) aboliti e sostituiti da due soli seminari sotto controllo permanente della polizia segreta.

Il profilo spirituale e morale del clero di quel tempo era in genere abbastanza alto. Ci si alimentava con la Sacra Scrittura e i sacramenti, si nutriva una forte fiducia nella Madonna e si rimaneva spiritualmente uniti col Papa, per quanto lontano e irraggiungibile; i vescovi imprigionati erano venerati come martiri per la loro fedeltà alla Chiesa.

Anche noi che eravamo in carcere cercavamo, pur fra tante difficoltà, di vivere una vita cristiana intensa, e clandestinamente celebravamo ogni giorno la messa, senza libri liturgici, tutto a memoria.

Anche quelli, che in seguito abbiamo conosciuto la spiritualità dell’unità, abbiamo trascorso molti anni in carcere con tutte le sofferenze tipiche di questo ambiente, ma anche con il vantaggio di poter testimoniare il Vangelo nella sua essenza.

Una sorprendente scoperta

E questo fino al 1960, quando la maggioranza degli imprigionati politici potè beneficiare di un’amnistia generale ed essere rimessa in libertà. Non potevamo però ritornare nelle parrocchie: dovevamo lavorare come operai per otto anni, fino al 1968, quando ci fu la cosiddetta “primavera di Praga”. Il regime diventò più liberale, i vescovi (con eccezione dell’arcivescovo Beran di Praga) potevano ritornare nelle loro sedi e noi sacerdoti potevamo riprendere il lavoro parrocchiale. Fu in questo periodo che siamo venuti a contatto con il Movimento dei focolari. Alcuni di noi già nell’anno ’67, a causa di una certa liberalizzazione del regime, altri nel ’68.

In quel tempo l’Occidente per noi era chiuso, ma si poteva aver contatti con la Germania dell’Est. Un sacerdote di Dresda, Joachim Reinelt – attualmente vescovo – parlò a me e ad un altro sacerdote mio amico,  Bohumil Kolar, di un gruppo di medici focolarini e focolarine. Quello che ci raccontava ci fece un’impressione profonda, suscitando in noi il desiderio di conoscere questo Movimento alla fonte. E ciò fu possibile per noi proprio nel tempo dell’occupazione sovietica del nostro paese nell’agosto ’68. In quel tempo, paradossalmente e per breve tempo,abbiamo respirato di nuovo un po’ di libertà e abbiamo ottenuto i passaporti per poter andare a Roma.

La nostra unica intenzione era di entrare in contatto con l’Opera di Maria. Giunti a Roma ci rivolgemmo a Igino Giordani, che avevo conosciuto quand’ero ancora seminarista nel Collegio Nepomuceno negli anni ‘40, ed egli ci aprì la porta. Facemmo ripetute visite al Centro sacerdotale a Grottaferrata, avemmo un brevissimo ma indimenticabile incontro con una delle prime compagne di Chiara, Natalia Dalla Piccola, e con il dottor Giuseppe Santanchè – allora ambedue responsabili dei focolarini nella Germania dell’Est.

Tutto c’incantava, offrendoci uno stile di vita cristiana che sorpassava di molto ogni nostra aspettativa, perché si poteva vivere anche nelle situazioni drammatiche della nostra terra. Visitammo anche la cittadella di Loppiano, che allora era agli inizi, ma le esperienze ascolate rimasero così impresse che le ricordiamo ancora.

Restammo profondamente impressionati dai frutti della spiritualità dell’unità nelle realtà  parrocchiali e dalla vita evangelica dei focolarini, che parlavano della vita spirituale con un’incredibile competenza che poteva venire solo dall’esperienza.

Ci ha sostenuto
la vita di comunione tra noi

Sarebbe bello raccontare come Dio aveva scavato profondamente nella nostra vita con nove anni di carcere duro in mezzo ai comuni delinquenti, ma questo non rientra nel quadro di un articolo.

Per farla breve, noi avevamo trovato e ritornavamo in patria con la convinzione che l’unica cosa necessaria era vivere l’unità.

Nel venerdì santo del ’69 due focolarine vennero a ricambiarci la visita a Praga. Col loro aiuto cominciammo ad incontrarci in un piccolo gruppo. Eravamo sacerdoti, seminaristi, giovani e ragazze. Andavamo avanti insieme con la Slovacchia, dove il punto di riferimento era un altro sacerdote, Peter Wiederholt. Nell’estate del ‘69 facemmo la prima Mariapoli nell’attuale Repubblica Ceca, sotto l’etichetta di vacanze in montagna per non dare all’occhio della polizia.

Purtroppo, dopo un breve periodo di libertà, venne la cosiddetta “normalizzazione”: di nuovo chiusi dietro la cortina di ferro e sotto l’occupazione sovietica. Per molti fu un colpo terribile: la perdita di ogni speranza. Non vorrei banalizzare gli aspetti negativi, che erano molto rilevanti, ma nei piani della Provvidenza questa permissione di Dio portava anche qualcosa di positivo. Mi spiego. Questa nuova chiusura verso l’Ovest ritardava il riversarsi da noi del consumismo occidentale e, nell’atmosfera dell’oppressione, ci si rendeva conto che nella vita c’è un solo ideale che non dipende dalle vicende politiche: Dio, la fede in lui. E per parecchi il tramonto della libertà si cambiava in albori di una vita cristiana più profonda. In questa situazione noi eravamo coscienti che la spiritualità dell’unità era il modo migliore di vivere il cristianesimo senza farci condizionare dal regime comunista.

La maggioranza delle persone venute a contatto con questa spiritualità erano in un primo tempo soprattutto sacerdoti e seminaristi, ma poi si sono moltiplicati anche i laici. Incontrarci per avere Gesù in mezzo a noi diventava sempre più frequente e regolare. Ci trovavamo nelle nostre parrocchie, negli appartamenti di alcune famiglie, che diventavano vere chiese domestiche, dove si imparava a vivere il Vangelo in maniera direi affascinante. Spesso facevamo lunghi viaggi per passare insieme un giorno e mezzo in baite di montagna, dove ci sentivamo più liberi.

I focolarini ci seguivano e ci visitavano dalla Germania comunista e noi copiavamo a mano il materiale che ci portavano. Le bobine viaggiavano continuamente da un posto all’altro e venivano tradotte a viva voce. Il piccolo magnetofono lo portavamo sempre con noi, come un amico prediletto, nelle montagne, nei boschi, per ascoltare Chiara.

Al nostro gruppo si unirono anche molti religiosi di diversi ordini, ufficialmente proibiti e perseguitati. Quando qualche volta la polizia scopriva che un sacerdote era religioso, era peggio che se avessero scoperto un delinquente. Nei seminari i giovani erano costretti a fare una dichiarazione scritta che non erano religiosi, altrimenti non potevano essere ordinati.

Tanti allora avevano paura di ritrovarsi insieme, ma noi avevamo un’altra ottica. Nonostante il clima di persecuzione, facevamo di tutto per incontrarci regolarmente, coscienti che non facevamo questo per far dispetto al regime, ma per avere Gesù tra noi. Il contatto con i religiosi dispersi contribuì molto a mentenere vivo il loro carisma. Facevamo ogni tanto incontri solo per loro; poi anche per religiose. Le suore che in quel tempo lavoravano negli Istituti per handicappati, c’invitavano nelle loro comunità desiderose anch’esse della nostra spiritualità.

Attorno a noi si costituirono piano piano diversi gruppi di sacerdoti, che si prendevano cura di altri preti, facendo sperimentare loro il clima di famiglia. Tra noi c’era anche quel sacerdote che faceva il lavavetri delle vetrine di Praga, Miloslav Vlk, attualmente cardinale e arcivescovo di questa città.

Non fa meraviglia se in seguito il Papa ha scelto alcuni di questi sacerdoti per il ministero episcopale. Penso che la loro esperienza di fedeltà al Vangelo in circostanze critiche e la loro vita di comunione sono, in un certo senso, una garanzia che saranno capaci di costruire la fraternità nella nostra Chiesa.

Forse ora ci vuole più coraggio

Nel 1989, dopo 40 anni, ci veniva ridata la libertà. Passata l’euforia del nuovo clima, sono venuti a galla nuove possibilità di lavoro pastorale, nuovi bisogni, ma anche tanti problemi. I sacerdoti diocesani corrono il rischio di essere soffocati dal lavoro.

È più difficile incontrarsi ora che durante la persecuzione. Sembra un paradosso, ma è così. D’altra parte, se la vita di famiglia ci ha tanto sostenuti nei tempi duri, ci aiuterà anche oggi a non farci travolgere dall’attivismo e dal consumismo, e a renderci testimoni credibili del Vangelo.

 

Karel Pilík