La comunione può illuminare tutti gli aspetti della vita

 

Fare del presbiterio una famiglia

di Carlo Malavasi

Non farò un tema teologico o pastorale, racconterò semplicemente qualcosa della nostra storia. Sento una certa ritrosia, dovendo parlare di noi stessi. Mi muove unicamente un sentimento di riconoscenza verso Dio che ci ha fatto incontrare la spiritualità dell’unità.

Sì, queste pagine sono qualche tratto di storia, di una quarantina di sacerdoti, dei quali i più giovani hanno solo sei mesi di ordinazione mentre i più anziani celebreranno già le nozze d’oro. Apparteniamo ad una ventina di diocesi collocate nelle regioni di Emilia, Romagna e Marche. Abbiamo in comune l’aver trovato un bel giorno una perla preziosa: la spiritualità dell’unità, che ha arricchito in modo straordinario il nostro essere preti diocesani. Per alcuni questa esperienza è iniziata verso la fine degli anni cinquanta, per altri nei decenni successivi fino ai nostri giorni.

Ebbene, cosa è avvenuto? Innanzitutto, la scoperta di un Dio che ci ama immensamente. Non più lontano, altissimo e severo come lo spiegavano la teologia del dopo guerra ed una rigida spiritualità che da essa scaturiva, ma vicino a ciascuno, un Dio che ama ognuno personalmente. Amore, appunto, fino a dare il proprio Figlio sulla croce.

Incontrare questa spiritualità e sentirsi una cosa sola fra noi è stato un tutt’uno. Abbiamo iniziato a frequentarci, secondo le possibilità, a volte tutti insieme, più spesso a piccoli gruppi. Dedicavamo, ed è così anche oggi, al nostro stare insieme un giorno alla settimana. L’abbiamo chiamato il “nostro” giorno del Signore. In quei lunedì il nostro vivere si svolgeva, in assoluta libertà, in attività nuove non consentite dal premere degli impegni durante gli altri giorni. Nel dialogo fraterno ci si raccontava come le singole parole del Vangelo iniziavano ad irrigare i mille momenti della nostra settimana. Le chiamiamo “esperienze sulla Parola di vita”. Oppure un far dono agli altri delle fasi di vita spirituale, in cui l’amore di Dio introduceva ciascuno di noi. Sempre si è trattato di una condivisione profonda, molte volte commovente. Quale forza scaturisce da questo ascoltarci, da questo edificarci l’un l’altro nella scelta di Dio solo!

Poi, passeggiate e cucina, aggiornamenti teologici secondo le competenze di ciascuno. Ma non solo questo.

Comunione a tutti i livelli

Da allora abbiamo messo in comune i problemi: la situazione di un familiare malato e l’arredamento della casa canonica, gli stati d’animo difficili e le necessità economiche. Già, perché non aveva senso tenere ciascuno i propri soldi, quando si era già condivisa la parte più preziosa di noi, come il rapporto con Dio, le nostre esperienze umane e di lavoro pastorale. “In comune le nostre esperienze, in comune anche il nostro portafoglio”. Può sembrare un motto ed è stata, invece, una esigenza profonda.

In questo modo, in quasi quattro decenni di vita condivisa, fra noi non c’è mai stato alcun indigente, come si afferma della prima comunità cristiana. Tutti hanno avuto il necessario nel momento in cui occorreva. Un necessario visto non dagli occhi di uno solo, ché il giudizio può essere troppo stretto o troppo largo, ma guardato con gli occhi e il cuore di tutti.

In definitiva, abbiamo vissuto una vita normale, quella stessa che i nostri laici sono chiamati a vivere nelle loro famiglie. Perché noi preti non possiamo avere una famiglia, bella, armoniosa, seppure originale? Noi l’abbiamo trovata, e tuttora cresce in bellezza, giacché abbiamo sperimentato che i rapporti di amore reciproco, per i quali ciascuno vede e serve Gesù nell’altro, generano vincoli più solidi e durevoli dei normali affetti umani.

Con Gesù come gli apostoli

Sì, fra noi vive Gesù, come promette il Vangelo a coloro che sono uniti nel suo nome. Questa straordinaria presenza è la nostra forza, la nostra gioia, che ci consente di correggerci nell’amore e di ringraziarci per gli esempi costruttivi che riceviamo. In questa famiglia è presente anche Maria, nella sua veste di madre di casa. Perché ognuno di noi si prende cura dell’altro: della sua salute e del vestito, del lavoro e dell’abitazione, degli studi e del riposo, come una madre in famiglia. Non lo raccomandava anche san Francesco ai suoi frati? È splendido!

Si diceva che siamo preti giovani e anziani, insieme. Facile o difficile? Soprattutto arricchente. Se in ciascuno primeggia la scelta di Dio, se si è pronti a dare la vita per il fratello, che impedimento può essere l’avere età diverse? I giovani portano allegria, vivacità; gli anziani esperienza e non di rado anche provata santità.

Siamo preti diocesani e null’altro

Il legame con il Movimento dei focolari è solo una ricchezza, non un vincolo giuridico. Siamo sempre stati pronti a dire di sì ad ogni richiesta del nostro vescovo, anche per gli incarichi meno appariscenti o comunque non facili. Cerchiamo di rapportarci con lui e con gli altri preti con lo stesso stile sperimentato fra noi. Il nostro stare insieme, il “far focolare”, come diciamo noi, suggerisce idee e proposte concrete su come potrebbe essere la vita d’unità di un presbiterio attorno al pastore della diocesi. Dove si mette al primo posto l’amore reciproco, dove si cerca per prima cosa la presenza di Gesù fra tutti, pronti a perdere tutto il resto, come pensieri, desideri e persino ispirazioni personali, perché accada fra noi solo il regno di Dio.

Molte volte abbiamo potuto immedesimarci e risolvere problemi e difficoltà di altri sacerdoti, facendo tesoro dell’esperienza vissuta fra noi.

Di questo amare per primi l’altro, perdendo tutto il resto, abbiamo un modello perfetto in Gesù crocifisso e abbandonato, che guida le nostre scelte, aiutandoci a preferire ciò che in quel momento può essere meno gradito, in una parola “ciò che ci fa male”.

I frutti

Siamo preti diocesani e ci teniamo. Siamo pronti alla vita comune, la desideriamo. Qualora se ne presenti la possibilità, la chiediamo ai vescovi lasciandoli liberi di comporre e scomporre queste nostre comunità secondo le esigenze delle singole persone e delle situazioni. In tanti dei diversi aspetti sopra descritti ci pare di poter realizzare quella vita di comunione che il Concilio propone e caldamente raccomanda a tutti i sacerdoti. Una vita di comunione che scaturisce spontaneamente dal carisma che abbiamo incontrato, il testamento di Gesù: “che tutti siano uno”.

Questo stile di vita ha prodotto effetti positivi nella vita pastorale. Ci ha insegnato a metterci veramente al servizio dei parrocchiani, a non pretendere mai, ma a dare sempre, ponendoci sulla loro sponda di una fede poco conosciuta e vissuta, ponendoci dentro le loro ferite di matrimoni in difficoltà o falliti. Quante persone, dopo che ci siamo fatti uno con loro, hanno sentito dal di dentro il desiderio di conoscere e abbracciare quel Gesù che il nostro atteggiamento aveva fatto scoprire già presente, già all’opera dentro di loro.

Ci impegniamo a non considerare nessuno fuori dalla Chiesa, nessuno lontano da Dio. Anzi, guardiamo ad ognuno come già amato da Dio, riconoscendo il volto di Gesù abbandonato nelle loro situazioni difficili, un volto di salvezza e di misericordia. Essi stessi riconoscono questa sorgente di vita e vi si legano fino a rinnovare pezzo per pezzo la loro esistenza. Così le convivenze o i matrimoni solo civili spesso vengono consacrati nel sacramento e non sono mancati casi di coppie che, per poter ricevere l’Eucarestia, hanno scelto spontaneamente di vivere nella castità in attesa che la Chiesa dia un giudizio sulla eventuale nullità del matrimonio precedente.

La parrocchia?
È dove si vive l’amore reciproco

Intanto le parrocchie non sono solo luogo di culto, ma divengono l’ambiente dove si vive l’amore reciproco, dove anche chi non crede o dubita può trovarsi a casa. Le stesse celebrazioni hanno al primo posto l’amore fra le persone, sono attraenti per un clima che molti non si sanno spiegare, ma che è generato da chi viene in chiesa per amare prima ancora che per il bisogno della preghiera personale e comunitaria.

Sono comunità guidate non da un uomo, pur investito di un ministero ufficiale, ma guidate il più possibile dalla presenza di Gesù nella comunità. Dove le persone sono tutte uguali, tutte importanti, perché importa soprattutto l’amore che ciascuno dona.

I sacerdoti vecchi e ammalati
sempre tra noi

Su trenta anni di sacerdozio ne ho vissuto 18 in curia, a fianco di tre vescovi.

La nostra è una diocesi piccola, vivace certamente ma con poche strutture, senza la possibilità concreta di far fronte a tutte le necessità ed emergenze, come ad esempio i sacerdoti anziani che si ammalavano.

Essi venivano collocati sistematicamente su di una collina isolata, in una bella casa del clero, dove venivano trattati molto bene, ma si sentivano completamente sradicati dai loro affetti e dalla vita pastorale diocesana.

Nei frequenti ricoveri in ospedale noi preti giovani ci davamo il turno nell’assistenza soprattutto notturna. Poi, però, non si riusciva a reggere. I sacerdoti giovani erano pochi e gli anziani bisognosi di assistenza crescevano di numero. Quando un giorno il vescovo riunì il consiglio per vedere dove collocare un sacerdote affetto da tumore e bisognoso di assistenza, non c’era altra scelta che inviarlo alla già descritta destinazione.

Ricordo lo stato d’animo provato con grande chiarezza. «No, quel prete era mio fratello, non poteva essere allontanato, doveva vivere e morire fra noi». Dissi queste convinzioni con una forza insolita, quasi con una decisione che non ammetteva repliche. Dissi che mi assumevo io tutti gli oneri di questa scelta, purché restasse nella casa del seminario, dove anch’io ero ospite. Poi affermai che era ora di dare vita ad una piccola casa del clero dove i sacerdoti potessero rimanere sempre in famiglia con noi.

Qualche giorno dopo il vescovo mi disse che aveva deciso di adattare una parte del seminario allo scopo, a patto che io trovassi i soldi per ristrutturare e far vivere questa nuova realtà. Mi chiese cento milioni per le opere murarie.

Dopo appena qualche mese gli portai duecento milioni, tutti raccolti tra i sacerdoti della diocesi, che avevo visitato ad uno ad uno e che avevano aderito volentieri all’iniziativa.

Poi fu la volta di reperire il personale di assistenza, fondare un consiglio per regolare lo svolgimento della vita in questa casa del clero, dove ci sono otto mini appartamenti singoli con la mensa in comune con gli ospiti del seminario, l’assistenza 24 ore al giorno, ecc. La casa funziona tuttora bene, i sacerdoti sono tutti contenti, la gente dice che non solo predichiamo che occorre fare il possibile per tenere in casa i propri anziani, ma lo facciamo.

E i giovani che si stressano?

Un giovane sacerdote, dopo alcuni anni di attività febbrili, è entrato in periodo di oscurità. Egli stesso racconta come ha recuperato la gioia della propria vocazione.

«Ho vissuto un periodo in cui tutto mi diventava difficile e l’entusiasmo per il lavoro pastorale, era sparito. Per fortuna sentivo di avere una famiglia molto attenta e vicina, con un amore concreto, frutto della presenza di Gesù in mezzo a noi; e questo mi facilitava  anche il farmi aiutare. Ho aperto cuore, anima e mente ad un fratello durante una passeggiata  e ho fatto presente la situazione difficile che stavo vivendo. Potevo dire tutto il negativo che mi tormentava, perché sentivo un amore vero e sincero da parte sua e di tutti ed avevo la certezza che nessuno di loro mi giudicava. Era vero: dovevo fermarmi col lavoro pastorale per curarmi e riposare. Ci organizzammo in modo da poterlo fare e in questo tempo di sosta sentivo la vicinanza reale e discreta di questi amici. Nel clima d’amore reciproco, vedevo nella luce anche questa prova che stavo passando e riscoprivo una nuova consapevolezza delle motivazioni che stanno alla base del mio ministero sacerdotale. Nell’unità vissuta con loro, ho riscoperto l’amore di Dio per me ed una rinnovata gioia di appartenergli».

Occhi e cuore ben aperti

Questo giovane ha ritrovato le forze e la luce per andare avanti, ma l’episodio ci ha fatto riflettere.

Della quarantina di sacerdoti che aderiscono alla spiritualità del Movimento dei focolari e di cui abbiamo descritto qualche esperienza, una quindicina hanno meno di dieci anni di messa. Fino ad ora, nonostante le difficoltà esterne, fra noi non si è verificato in tutti questi anni alcun ritiro dalla vita presbiterale. È una grazia grande, ma non possiamo cullarci sugli allori, dobbiamo avere gli occhi e il cuore aperti per far bene la nostra parte.

Siamo sicuri che i preti giovani oggi faticano di più nell’inserirsi nelle attività pastorali e soprattutto nel rimanere fedeli al celibato. In un mondo così pieno di sollecitazioni, sperimentano la stessa fragilità dei loro coetanei che affrontano scelte impegnative per tutta la vita.

Essi, dunque, meritano più attenzione, più premure da parte nostra. Noi adulti non possiamo guardare e criticare, dobbiamo dare loro di più: ascoltare, capire, condividere. Ed ecco cosa è scaturito da queste riflessioni: perché non attingere al bagaglio delle nostre esperienze, anche delle difficoltà da noi sostenute e dagli errori da noi commessi alla loro età e metterle in comune, per parlare poi insieme di quello che loro stanno vivendo o che temono di affrontare?

Abbiamo deciso di dedicare nella prossima estate una settimana intera di vacanze in un posto accogliente e isolato in Svizzera, a questo dialogo a tutto campo. Ci confronteremo su affettività e unione con Dio, tentazioni di managerialità e ascolto dello Spirito, capacità di leggere i segni dei tempi per poi collaborare con un’attività pastorale illuminata che incida sull’oggi e costruisca il futuro sulla roccia del Vangelo.

 

 

Carlo Malavasi