Non basta essere intellettualmente preparati, occorre essere soprattutto esistenzialmente testimoni

 

Crisi o esigenza di autenticità?

di Andrea Caelli

 

La vita del prete oggi, come nel passato, non è priva di difficoltà, ma quello che più impressiona è una certa stanchezza interiore che in molti si manifesta, già nei primi anni di ministero, con tentazioni neo-clericali o spinte a facili abbandoni. È un problema da affrontare con le dovute attenzioni. Cosa fare? Uno sguardo al presente, che tenga conto del passato, potrà essere di aiuto per accogliere con spirito di fede quanto Dio vuol dirci attraverso le attuali circostanze. L’autore dell’articolo, rettore del seminario di Como, ha scritto un libro sull’argomento1.

Per venire incontro ai bisogni dei sacerdoti, soprattutto giovani, si creano spazi di formazione permanente, si studiano processi graduali d’inserimento nella pastorale, s’interpellano esperti e si creano figure educative nuove.

Nell’epoca della globalizzazione il clero sembra omologarsi attorno alle stesse tensioni. I contesti culturali ed ecclesiali possono essere differenti ma tratti comuni connotano la struttura del clero di oggi. Non mancano tentativi di lettura del problema.

A questo riguardo si svolgono convegni e si fanno analisi sul disagio pastorale del prete. Rimando, ad esempio, alla bella lettera dell’episcopato tedesco sulla vita e il ministero sacerdotale del 1992.

Uno sguardo alla storia

Lasciando agli esperti possibili ipotesi d’interpretazione socio-culturale, vorrei mettere in luce brevemente alcuni criteri evangelici, che provengono dalla storia della spiritualità e che ci possono aiutare per guardare con fiducia e realismo al futuro della vita e del ministero presbiterale.

Ogni rinnovamento ecclesiale ha avuto origine da forti carismi, dati da Dio per fermentare col tempo l’intera Chiesa. Così dal monachesimo fino ai nostri giorni. Il cardinal Ratzinger direbbe che ogni tanto, nei momenti cruciali della storia, lo Spirito “riprende la parola”.

E il clero come ha reagito? Alcuni a volte hanno osteggiato le novità, altri sono rimasti a guardare ed altri ancora, per fortuna, hanno colto i segni dei tempi e si sono lasciati trasformare dall’azione dello Spirito.

Interessante è stata la reazione del popolo cristiano che nell’antichità andava nei monasteri a cercarsi i propri pastori. Così il monasterium clericorum di Sant’Agostino ha fornito vescovi a tutta l’Africa del nord e quello di Eusebio a Vercelli ne ha dati molti a tutta l’Italia del centronord. San Gregorio Magno, con la sua Regola pastorale d’ispirazione benedettina, ha avuto per lungo tempo un influsso decisivo sul clero di tutto il mondo allora evangelizzato.

Basterebbe poi pensare all’incidenza sul presbiterio dei canonici regolari, della spiritualità ignaziana, dei chierici regolari del ‘500 o degli Oratori francesi del ‘600, dei sacerdoti per le missioni popolari o degli istituti di vita apostolica dell’800…

Nella misura in cui un carisma risvegliava la vita evangelica nel popolo, anche i presbiteri camminavano di pari passo, ispirandosi alla vita apostolica, dove fraternità, generosità evangelica e disponibilità missionaria trovavano una forte sintesi.

Un richiamo a vivere il Vangelo

Si potrebbe dire che le crisi non sono mai di alcuni soggetti ecclesiali ma della Chiesa nel suo insieme, in quanto chiamata a fare un passo in avanti nell’incarnazione del messaggio evangelico nelle nuove realtà storiche. In questa visione le difficoltà, che i preti incontrano oggi, non sono una disgrazia ma una opportunità ed uno stimolo per una vita cristiana più autentica.

È interessante notare la presenza di questa costante evangelica: in periodi storici completamente diversi, si ripropone sempre come soluzione l’Apostolica vivendi forma. Le attuali crisi presbiterali diventano così richiamo per una vita sacerdotale radicata nella comunione come gli apostoli attorno a Gesù.

«Fin dall’epoca di sant’Agostino di Ippona, – raccontano gli storici – si erano avuti dei tentativi isolati di riunire i chierici dell’episcopio a vita comune, fondata sull’esempio dei primi cristiani, che implicasse il celibato, una riserva comune per il vitto e l’abbigliamento, e uno stile di vita quasi monastico. All’epoca della decadenza, questo tipo di organizzazione scomparve. Riapparve ad ogni seria riforma»2.

Per questo penso che le difficoltà odierne del clero, sentite in maniera speciale dai giovani, non vanno disgiunte dalle tante vissute nella storia della Chiesa. Anche se cambia il modo in cui accostiamo il problema, dobbiamo metterci davanti alla crisi non con ansiosa preoccupazione ma con sano realismo e con profondo spirito di fede. Dentro questo nodo della storia attuale della Chiesa dobbiamo trarre nuova forza e rinnovata spinta evangelizzatrice.

Un principio che porti all’unità

Ovviamente ha profondo significato l’attenzione tutta particolare rivolta ai giovani preti, che hanno un loro modo di pensare, agire, progettare. Come ogni età, anche questa non va enfatizzata, ma neppure trascurata né demonizzata. L’età giovanile, anche quella del prete, avverte oggi in modo spesso drammatico la frantumazione che porta alla dispersione e al disordine anche interiore, e sente l’urgenza di trovare un principio unificatore che dia senso ad ogni azione della giornata.

Una prima grossa frattura è quella ereditata dalla mentalità dualistica greca: corpo-anima, sentimenti-ragione…

I risvolti di questo pensiero dualistico nella vita presbiterale sono molteplici. Basti pensare alla pressante e irrisolta difficoltà di coniugare in sé vita umana e sacramento dell’ordine, pastorale e spiritualità.

Il giovane prete è immerso in questa tensione. Non regge più questo dualismo destrutturante. Invoca unità tra le esortazioni teoriche – così abbondanti nel periodo della formazione – e le esperienze concrete – spesso contraddittorie nel primo impatto ministeriale.

Ecco allora la prima grande chance: tradurre, riconvertire, creare percorsi unitari, nei quali la spiritualità metta al centro la persona in tutte le sue dinamiche soggettive e comunionali. Questa conversione richiede una paziente riproduzione di categorie, di esperienze, di progetti, che non si possono ridurre a facili slogans, ma che richiedono una lenta e personale adesione al mistero di Cristo dentro un’esperienza di vita evangelica. È un lavoro lungo che si deve tradurre in itinerari flessibili, percorsi inediti, cammini spirituali nuovi.

In un contesto comunitario

Il contesto esperienziale evangelico che fa vivere e prepara testimoni per il mondo è quello comunitario: i preti giovani e meno giovani, imbevuti di una cultura prevalentemente individualista, necessitano di confronti, verifiche, incontri fraterni, anche se non privi di difficoltà per diversità di vedute.

Spesso sono loro stessi, che si organizzano in incontri informali, esprimono una richiesta esplicita di una vita di comunione. «Mostrami la tua umanità e dirò chi è il tuo Dio», diceva già Teofilo d’Antiochia. Potremmo tradurre: «Mostrami la tua capacità e qualità di relazione e ti dirò chi è il tuo Dio».

Già da tempo vanno nascendo gruppi di preti che cercano la fraternità, non in chiave prettamente funzionale, ma come espressione di una vita cristiana che necessita di relazioni concrete dove s’impara ad accogliere e a comporre anche i conflitti e le diversità.

D’altra parte sono gli stessi vescovi che riconoscono l’esigenza di una vita fraterna e comunitaria: «Di fronte a queste difficoltà, ma anche in considerazione del fatto che la particolare testimonianza del Vangelo deve effettuarsi nella comunione, si raccomanda uno stile di vita comunitario da parte del sacerdote… Dovremmo riflettere più profondamente sui modi diversi di una vita in comune, che anche il Concilio Vaticano II raccomanda caldamente»3.

Alcune esperienze sembrano andare esattamente in questa direzione. L’istanza che emerge è quella di cercare e creare centri di fraternità con modelli nuovi di vita evangelica, anche al di fuori delle istituzioni già esistenti.

Oggi è richiesta una vita comunitaria che tenga conto anche del cammino dei singoli, dell’ospitalità e dell’accoglienza di quanti vogliono vivere la gioia della vita comune e del servizio. Un ambiente dove sia vissuto l’ecumenismo, inteso come apertura alla grande tradizione cristiana. Una comunità con la presenza armoniosa di differenti vocazioni, con la riscoperta dei valori della gioia e dell’amicizia, e la condivisione anche di momenti di svago e di studio. Questi modelli comunitari assumono il carattere di vero richiamo per il presbiterio diocesano, i cui incontri spesso si mostrano solo organizzativi e formali.

Nessuno dovrebbe meravigliarsi se questi modelli comunitari si ispirano ai carismi sorti nella Chiesa in questi ultimi cinquant’anni. Che sarebbe accaduto, se il clero avesse rifiutato l’influsso del carisma di sant’Ignazio di Loyola nei seminari sorti dopo il Concilio di Trento? Lo stesso si dica di tutte le altre spiritualità che lungo i secoli hanno formato tanti sacerdoti.

Troppo spesso si teme che, chi aderisce ad un carisma, possa allontanarsi dalla vita diocesana o non abbia la capacità di essere a disposizione di tutti. Dovrebbe essere il contrario: più uno vive il Vangelo - ed è questo che tutti i carismi esigono - più dovrebbe sentire l’esigenza dell’unità all’interno e l’apertura al dialogo verso l’umanità intera.

In una Chiesa-comunione

Alcune difficoltà del prete, soprattutto in Occidente, sono legate ad una caduta della sua leaderschip anche sul piano religioso e culturale. Ne consegue spesso la ricerca di una compensazione col fare una quantità di attività per sentirsi utili. Quando poi ci si accorge che si spende cento per produrre uno, subentra scoraggiamento e stress e cominciano i dubbi anche circa la propria vocazione.

La ricomprensione della figura del prete, poi, è troppo spesso affidata in gran parte alla sua sensibilità, competenza, generosità. Ne risulta che, al meglio, i tentativi di soluzione, appaiono parziali e frammentari.

Anche l’attenzione alle singole competenze personali ha in sé un grosso rischio che porta alla settorializzazione e ad una carenza di visione d’insieme. Senza poi contare che gli interessi particolari assunti e vissuti come assoluti e indispensabili nelle scelte pastorali, sono in realtà per qualcuno un riscatto e motivo di superamento delle problematiche connesse con l’identità.

Quest’approccio, a seconda dei casi, fa leva sulle caratteristiche più varie e più richieste, come la capacità di animazione, il talento organizzativo, l’impegno entusiasta, la gestione economica…

Tutto questo non fa che catturare energie, tempi, forze organizzative senza offrire un vero contenuto evangelico. Nasce così un nuovo modello presbiterale molto clericale, accentratore. E ciò sta accadendo spesso nei giovani.

Per evitare questi pericoli e per essere al passo con i tempi lo Spirito richiede a noi preti di non vivere e agire da leaders solitari, fortemente clericali, ma di lavorare in modo più comunitario, di progettare insieme con gli altri presbiteri e con i laici, di sapere dialogare sia con chi vive nelle strutture ecclesiali come con coloro che se ne stanno fuori.

Ecco che questo disagio dei preti ci interpella allora sulla realtà più ampia della Chiesa comunione. È urgente che siano posti segnali forti e positivi a chi rischia di essere travolto dalla mancanza di speranza e di fiducia.

Urge una proposta di vita per il clero che miri all’edificazione del Regno di Dio e si compia nello stile evangelico di una convivenza fraterna; e che abbia di mira la crescita delle persone senza trascurare le strutture, l’adesione a Gesù senza trascurare la conoscenza teorica di una dottrina.

Il problema si sposta sulla formazione del clero, che le istituzioni devono favorire con intelligenza e lungimiranza, valorizzando gli apporti che oggi ci vengono da tutti i carismi. Per far questo gli educatori dovrebbero essere esperti in comunione, non solo in teoria, ma anche e soprattutto nella quotidianità della vita.

Vale anche qui il richiamo del Papa che «l’annuncio di una verità, soprattutto nell’ordine morale-spirituale, è tanto più credibile quanto più chi lo proclama ne è, non solo accademicamente dottore, ma innanzi tutto esistenzialmente testimone»4.

 

Andrea Caelli

 

 


1)                  A. Caelli, La vita comune del clero – storia e spiritualità, Città Nuova, Roma 2000.

2)                  2)   M. D. Knowels – D. Obelenky, Nuova storia della Chiesa. Il medioevo, II, Marietti, Torino 1971, 216.

3)                  3)   Conferenza Episcopale Tedesca, Il servizio sacerdotale in Germania, n. 29, Bonn 1992.

4)                  4)   Messaggio di Giovanni Paolo II al card. W. Baum; cit. in Radiovaticana del 3 aprile 2000.