Lo stress dei preti

 

Si sa che lo stress e la depressione sono sempre più diffusi, specialmente nelle grandi città e nel mondo sviluppato. Ultimamente la psicologia ha coniato un nuovo termine: il burn-out, utilizzato nell’originale inglese per non aver trovato ancora una traduzione adeguata nelle altre lingue. Significa che una persona è “bruciata”, è “scoppiata” o “cortocircuitata” psicologicamente, a causa di una professione particolarmente logorante.

È una sindrome che si manifesta soprattutto nelle professioni “prosociali”: personale sanitario che lavora con malati terminali, assistenti sociali, psicoterapeuti, polizia carceraria, docenti, certe frange di avvocati, ecc. Venendo a contatto con persone in situazioni estreme, spesso questi operatori rimangono molto scossi emotivamente, soffrono perdita di autostima per non riuscire a risolvere i problemi, arrivando in alcuni casi a vere e proprie ossessioni che prendono tutta la loro vita, per cui devono abbandonare il lavoro e chiedere aiuto terapeutico.

Le cifre diventano così allarmanti, che ormai esiste una miriade di pubblicazioni e il tema entra nei curriculum di formazione. Si cerca d’individuare quali siano gli atteggiamenti necessari affinché non siano distrutte quelle persone che – spesso con motivazioni ideali ed altruistiche – assumono delle professioni d’aiuto.

Ultimamente si moltiplicano anche gli studi sul burn-out dei sacerdoti, che stanno diventando una delle categorie a più forte rischio, non soltanto per le caratteristiche del loro ministero ma anche per i contesti in cui devono muoversi.

È evidente che non è facile per essi trovare il proprio ruolo ed avere incisività in società sempre più secolarizzate, atee, indifferenti. Rischiano di sentirsi un po’ come gli ultimi esemplari d’una specie in estinzione, difensori senza troppa speranza di ideali negati dai più, carenti dell’apertura di mentalità e delle nuove categorie necessarie per rispondere alle attuali esigenze. Per cui spesso non trovano successo né rilevanza nella loro azione, con i conseguenti contraccolpi anche sulla psiche.

Nei posti invece dove i cristiani sono esigua minoranza o dove i problemi sociali e d’inculturazione sono enormi, la nuova consapevolezza con cui li si avverte fa sì che i sacerdoti sentano, a volte con una coscienza drammatica, che il loro compito supera totalmente le proprie forze e possibilità.

Questi e tanti altri problemi ben noti, possono portare i sacerdoti a diventare degli individualisti che si rifugiano in un cantuccio con una spiritualità miope e intimista. Oppure rischiano – ecco il burn-out – di ridursi a una specie di burocrati dell’istituzione, ripetitivi, senza grandi ideali né prospettive, insoddisfatti a livello affettivo, demotivati… Le vere e proprie crisi di rigetto che può provocare una tale situazione, sono tra le cause che spiegano certi abbandoni del ministero e persino qualche suicidio.

Attraverso gli eventi storici, lo si sa, Dio ci chiama a cercare un cristianesimo sempre più genuino e rispondente ai bisogni dei tempi. Nessuno però, di fronte alla complessità e alle dimensioni dei problemi, è oggi in condizioni di farlo da solo. Per cui molti sacerdoti cercano di condividere la propria esistenza in una comunità dove sia possibile integrare i diversi aspetti della vita: salute e riposo, equilibrio psichico, sapienza nell’ordinare le proprie attività, aggiornamento spirituale, pastorale e teologico, e così via.

Certo, non può trattarsi di una condivisione dovuta semplicemente a motivi funzionali, per andare incontro al loro numero sempre più scarso, al loro invecchiamento e al moltiplicarsi delle attività pastorali. Tanto meno possono essere delle comunità che riducano la loro finalità ad una compensazione affettiva e ad una protezione. Il cristianesimo ci presenta delle mete ben più alte e sostanziose.

Perciò in questo numero, più che parlare in modo teorico della “crisi del prete”, abbiamo preferito mostrare nella pratica certe condizioni che possono aiutare ad evitarla o superarla. Offriamo un’ampia gamma di esperienze, in diverse situazioni ecclesiali, sociali e culturali, sulle possibilità e conseguenze della “vita di famiglia” tra i sacerdoti.

Se il Regno di Dio che Gesù ha annunziato è la stessa vita della Trinità – incarnata nella storia fino al suo compimento nell’eschaton –, se la missione della Chiesa è quella di “trinitizzare” la vita del mondo («come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda», Gv 17, 21), si capisce come mai il Nuovo Testamento presenti la dimensione comunitaria frutto dell’agape come il cuore del messaggio evangelico.

Se in altri tempi un certo stile di separazione dal mondo e le mura degli edifici sacri costituivano una difesa, oggi si sente l’esigenza di una comunità di vita che faccia sperimentare, nel mondo, tutta la bellezza e l’attrattiva della presenza di Dio in mezzo a noi. D’altronde, come farebbero i pastori ad assecondare le spinte dello Spirito verso l’unità che si producono a tutti i livelli civili ed ecclesiali, veri segni dei tempi, senza possedere loro in prima persona un’esperienza profonda d’unità?

Evidentemente la comunione autentica non è qualcosa di facile o di sentimentale. Molte volte da queste pagine (cf. il n. 4-5/1999, interamente dedicato al tema) abbiamo sviluppato la realtà di Gesù crocifisso ed abbandonato come chiave dell’unità. Senza quel passaggio essa non è possibile. Anche quando non lo dicono esplicitamente, è questo il “segreto” della riuscita di ognuna delle esperienze che riportiamo.

E. C.