Celebrando l’Eucaristia e unendosi a Gesù nelle proprie sofferenze, ogni cristiano "completa in se stesso quel che manca alla passione di Cristo" per il bene dell’umanità

 

Ogni giorno della vita è un dono

Quando la malattia ti accompagna ogni giorno e non ti lascia progettare il futuro, allora impari più facilmente a vivere il momento presente e scopri per sola grazia che hai tra le mani un tesoro: puoi trasformare la tua sofferenza in amore e contribuire al bene dell’umanità come e più di quando godevi buona salute.

Dietro al cucchiaio

Non avevo sentito molto dolore quando cadendo dalla bicicletta, troppo alta per me, che avevo preso di nascosto al papà, mi ero fratturato il braccio destro. Avevo, credo, nove anni e per salire sulla bici mi ero accostato a dei gradini ma, terminata la corsa, è stato più problematico scendere.

L’ambulanza è arrivata subito e mi sono trovato in ospedale con un braccio al collo. In tutto questo trambusto non avevo pianto. In fondo quel guaio me l’ero procurato da me. A cena mi servono una scodella di minestra, ma senza il cucchiaio. In quel momento mi sono messo a piangere.

Non l’avevo fatto né al momento della frattura, né mentre mi portavano in ambulanza e neppure al pronto soccorso. Solo in quel momento ho preso coscienza che mi trovavo in un posto dove non avevo con me la famiglia.

È stato forse il mio primo dolore: la percezione di una realtà nuova, la solitudine.

Per una spinta fallosa

Passano gli anni ed entro in seminario. Mi trovo bene con i miei compagni di studio, cresce il rapporto con Dio e la vocazione al sacerdozio trova il suo centro nell’amore a Gesù che sulla croce aveva sacrificato la sua vita per tutti. Non posso tenere solo per me questa certezza, devo comunicarla a più persone possibili.

In questa serena realtà c’è anche lo spazio per lo sport, come le partite di calcio. Una domenica pomeriggio mi trovo sotto porta con una possibile azione da goal e un pensiero mi passa per la mente: perché non provare anch’io una volta a spingere l’avversario e rubargli così un pallone prezioso per il risultato? Attuo l’idea che risulta in tutti i sensi funesta: l’avversario si sposta e io mi trovo per terra e non riesco a rialzarmi, non riesco a sollevarmi perché il braccio sinistro nella precipitosa caduta si è incrinato. All’ospedale riscontrano una frattura. Lì mi trovo in camera con un pluritraumatizzato per un incidente sul lavoro piuttosto grave. Attorno a lui un andirivieni di colleghi. Un giorno, avendo saputo che ero seminarista, uno di questi mi chiede perché mai Dio a quel loro compagno, il più buono tra i lavoratori, aveva permesso una disgrazia così grave.

Mi trovo alle strette, come un pugile messo alle corde. È una domanda che mi supera e che mette in discussione il centro della fede, cioè Dio-Amore.

Quella domanda ha sottolineato in me la stessa considerazione del mio interlocutore: veramente quell’uomo dolorante, disteso accanto a me, era buono e soffriva molto. E mi è venuto un pensiero, forse un’ispirazione: certamente se c’era un uomo buono, giusto, era Gesù e lui è andato in croce tra mille sofferenze. Nello stesso tempo non potevo nemmeno dubitare che Dio Padre non lo amasse infinitamente. Ho semplicemente detto questa mia convinzione a quell’operaio. Forse per la prima volta prendevo coscienza che Gesù si era fatto uno come noi, come me, come il mio compagno d’ospedale per dare risposta ai nostri grandi "perché", riempiendo di significato e di valore ciò che solitamente cerchiamo di scrollarci dalle spalle: il dolore.

Una luce nuova sul mio cammino

Sono al penultimo anno di teologia e faccio l’assistente di una classe di alunni di terza media. Un giorno chiedo al rettore che intervenga nei confronti di uno di loro che si diverte a prendermi in giro. Il rettore mi ascolta, rimane un momento in silenzio, poi mi dice: "Bisogna fare come Gesù sulla croce: stava dando la vita per quelli che lo avevano crocefisso e ha pregato per quelli che in quel momento lo deridevano".

Sono rimasto senza parole. Quello che mi viene detto in quel momento è vero. Quel prete ci crede e vive così. Non basta studiare il Vangelo, devo incominciare a viverlo concretamente. E avendoci provato mi sono reso conto che, volendo bene a quel ragazzo, comprendo la sofferenza che sta dentro di lui e che lo fa reagire in quel modo. Ed anche lui, sentendosi capito, ha poi cambiato atteggiamento.

Una luce nuova penetra in me attraverso quel rettore che, come ho saputo in seguito, è un prete focolarino.

Mi accorgo che altri due miei compagni fanno meditazione come me su un libro di Chiara Lubich. Cominciamo allora a scambiarci le esperienze e ci aiutiamo a vedere Gesù nei superiori e nei compagni. Sperimentiamo una libertà e una gioia mai provate prima. Possiamo dire sinceramente: "Siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli".

Questa esperienza ci ha profondamente legati e dopo l’ordinazione sacerdotale, anche se sparsi in luoghi distanti, siamo rimasti uniti. Il poterci vedere un giorno alla settimana e sentirci collegati anche per telefono ci ha fatto sperimentare la concretezza del corpo mistico di Gesù.

È stato fondamentale aiutarci a riscegliere Dio mettendolo al primo posto nelle situazioni concrete, come quando il vescovo mi chiama ad una nuova destinazione pastorale. Chi mi dà forza e decisione nel lasciare i miei progetti per seguire il progetto di Dio? Certamente il Signore che ‘parla forte’ tra noi uniti nel suo nome.

Io non avrei avuto la forza di continuare ad amare quei 1600 ragazzi e giovani di cui sono direttore spirituale in un collegio. Ma questi amici sacerdoti mi ricordano che se io non ho la forza, Gesù in me invece ne è capace. Così ricomincio ad amare e tutto diventa più semplice. Con la forza che viene dall’unità mi è stato quasi naturale accettare la proposta di fare il cappellano in un ospedale con 1800 ammalati e 5000 operatori sanitari.

È evidente che solo Gesù tra noi può "sfamare tanta gente" e dare la vera risposta ai "perché" gridati dal dolore degli ammalati e dei loro parenti.

Ricordo che un giorno, mentre sto per iniziare la visita ai reparti, mi viene spontaneo dire a Gesù che sono disponibile ad offrire quello che lui vuole perché tra noi operatori sanitari ci sia la sua stabile presenza. Ed ho constatato come a lui tutto è possibile: è lui che dà la forza di dire di sì alla vita anche quando svaniscono le speranze umane e tanti si riconciliano con quel Gesù crocefisso e abbandonato che sentono così vicino.

Dopo sette anni mi sono ammalato ed ho dovuto lasciare il lavoro, ma in quell’ospedale Gesù è rimasto presente in un gruppo di operatori sanitari uniti nel suo nome.

Solo di fronte alla morte

Da alcuni mesi mi ritrovo con un’asma bronchiale. Una mattina mi sento soffocare ed ho la netta impressione che sto per morire. Mi dispiace che in quel momento non ci sia nessuno. Poi mi riprendo e supero quella crisi. Più tardi riesco a comunicare ad un amico sacerdote quanto avevo provato. Come risposta mi dice: "Sai, capita anche a me. Ma tutto è amore di Dio". Non mi aspettavo quella risposta e in quel momento ho fatto fatica ad accettarla. Poi mi sono ritrovato a fare meditazione su un testo di Marisa Cerini: Dio Amore nel pensiero di Chiara Lubich. È così forte quanto mi viene annunciato che sembra sparire quanto avevo sperimentato qualche ora prima, o meglio rientra in questa nuova luce: veramente è tutto amore di Dio. Poi un momento in cappella davanti a Gesù Eucaristia: lì è come se tutto si decantasse e potevo aggrapparmi a colui che è la Vita. Prima non ci avevo mai pensato. Ci voleva l’esperienza del morire per trovare il Vivente e il Vivificante.

Vivo ma morituro

Proprio un anno e mezzo fa, dopo due broncopolmoniti ravvicinate ho sperimentato ancora che cosa vuol dire la mancanza d’aria. Chiedo, con quel poco fiato che mi resta, di aprire le finestre della stanza del pronto soccorso, ma sono io incapace di respirare. L’ossigeno prontamente dato e le flebo che scendono a tutta velocità mi hanno ripreso "per i capelli" e mi sono ritrovato in un letto d’ospedale accanto ad altri cinque pazienti. Il giorno seguente possono staccarmi l’ossigeno, ma la situazione richiede esami approfonditi e invasivi come la broncoscopia e la tac. Non posso negare l’evidenza. Davanti a Gesù Eucaristia nella cappella dell’ospedale mi ritrovo a pensare seriamente alla morte. Capisco che devo prendere coscienza della morte come normale condizione umana. Sì, in teoria lo sapevo già, ma ancora come qualcosa che riguarda gli altri. Qualcosa giustamente da evitare, da tenere lontano. E quindi pensavo che in realtà non mi riguardasse. Invece no, mi riguarda, fa parte della vita. Devo fare, dunque, un altro passaggio: devo accettare la mia morte. Arriverà per me il momento in cui ogni rapporto umano qui cesserà per sempre.

La situazione di malattia in cui vivo puòportarmi anche a breve scadenza a questo evento. Lo spessore della concretezza entra dentro di me in maniera nuova. Infine è necessario che la morte diventi la mia morte, acquisti le dimensioni dello spazio, del tempo e le modalità che ancora non conosco ma che si realizzeranno certamente. Quando, dove, come avverrà? In quel momento di preghiera silenziosa vengo educato (nel senso etimologico del termine, condotto fuori) a passare dall’incoscienza del mio essere vivente alla coscienza dell’essere vivo ma "morituro". Devo accettare questa realtà anzitutto come uomo, prima che come cristiano. Questo mi fa ritrovare tanto simile ad ogni uomo, solidale con ciascuno, unito nella stessa esperienza di precarietà e nello stesso tempo di fortissima comunione.

Perché esisto?

Sto pregando col rosario in mano, solo. È una bella giornata, fuori. Dentro sono meno sereno, quando, ad un certo punto di quella salita verso il cimitero di Rocca di Papa mi sorge dentro spontanea una domanda: "Perché esisto?". Mi stupisco e mi preoccupo: "Cosa mi viene in mente?". Ma subito quasi a superare quella domanda inquietante ritrovo una risposta ugualmente di fondo: "Esisto per puro amore gratuito". Certo, è vero, perché fra tante persone possibili in tutto il mondo, in tutti i tempi, mi sono trovato ad esistere per pura gratuità, senza alcun merito mio ma per l’amore di Qualcuno verso di me.

Incalzante però un’altra domanda più concreta: "Perché sono qui?". Tra centomila e più possibilità, sono qui per puro amore gratuito. Sicuramente non poteva venirmi in mente una risposta più giusta e guardacaso è uguale alla prima. Allora forse, anzi senza forse, anche quello che mi accadrà non potrà essere che "puro amore gratuito". Che scoperta! Passato, presente e futuro racchiuso dentro lo stesso Amore e io non ci pensavo, ed è così evidente.

Anche dentro di me si rispecchiava quel sole che splendeva fuori.

La malattia ci unisce di più a Dio

Un po’ per curiosità, un po’ perché i medici chiedono dei tuoi trascorsi di malattia (trascorsi poco onorevoli, ma alquanto onerosi, che per fortuna si vivono uno per volta), così mi sono trovato lo scorso agosto su un letto d’ospedale per degli accertamenti a contare quante volte sono stato in quei luoghi come ammalato. Sono ben quindici.

Altre volte, istintivamente, mi sarei chiesto il perché, ma questa volta sento più forte l’unità coi fratelli per i quali offro questa mia nuova situazione dolorosa.

Davanti a Gesù Eucaristia nella cappellina del reparto è ancora più chiara la presenza di Gesù lì "per me", "per noi" come dono totale di sé, quasi mi voglia dire: "Sono qui per te, per voi tutti" e "non c’è amore più grande di chi dà la vita per i propri amici". Allora quando vengono i dolori è più facile dirgli: "Per te".

Una luce particolare mi è venuta da un pensiero di Chiara Lubich trovato proprio in quei giorni. In quello scritto dell’undici agosto 1980 riferisce di un suo colloquio con Gesù: "Vada – dice Chiara – secondo i tuoi programmi, non badare a me, perché tu sai che quando ci bastoni un pochino, siamo tutti in gamba, nel senso che torniamo tutti a te, siamo pronti sempre a tutto…".

In questa luce tutto acquista significato e valore, aldilà del sapere quando uscirò dall’ospedale e aldilà dell’esito dei numerosi esami.

Poter vivere ancora! Che gioia!

La malattia è stata l’occasione per prendere più coscienza che Gesù ha una cura speciale per ognuno di noi. È stato capire che quello che vale è l’unione con Dio durante il "santo viaggio" della vita, l’affare più importante dell’umana esistenza.

A volte mi domando quanto tempo ho ancora da vivere. Forse poco. E mi ritrovo con le mani vuote. Come mi presenterò davanti a Dio? Che cosa avrei potuto fare di bene e non l’ho fatto?

L’esito degli esami mi ha rivelato che il "gioco" della vita per il momento si riapre. E proprio in quel giorno ho avuto tra le mani un altro scritto di Chiara, quasi una conferma del mio riprendermi in salute.

Vi si legge: "Lì davanti a lei (la Madonna) ho capito, mi sembra, il motivo per il quale lei mi ha guarita. In quest’ultimo periodo della mia vita avevo come un dolore: quello di non riuscire a ricominciare la vita per farmi veramente santa, non per me, lo sapete, ma per fare un piccolo dono a lei che lo portasse a Gesù.

"So che Paolo dice: "Voluntas Dei santificatio vestra: è volontà di Dio la vostra santificazione", e quindi, se è volontà di Dio avrei voluto diventarlo a tutti i costi, ma mi sembrava di avere poco tempo. Ero quindi presa da una specie di dolore, profondo, per non avere ancora il tempo e gli anni necessari per poter farmi santa.

Mi sembra che la Madonna mi abbia guarita per dirmi: puoi ricominciare".

L’ho preso come un augurio per me ed un impegno a spendere i giorni che mi restano per servire nel migliore dei modi – col dolore, con la preghiera e col lavoro – l’umanità nei fratelli che Dio mi mette accanto.

Mario Bodega