Con Gesù abbandonato le fratture si
compongono in unità
di mons. Giancarlo Maria
Bregantini
L’autore
è vescovo di Locri-Gerace ed è noto in Italia per le sue coraggiose e sagge
prese di posizione in campo sociale. Egli ha partecipato al convegno e, durante
una delle concelebrazioni, al momento dell’omelia, ha offerto questa sua
testimonianza.
È
con gioia grande che presiedo questa Eucaristia,
edificato e commosso per le realtà rivissute oggi insieme con voi, in questa
straordinaria esperienza che riempie il mio cuore di gioia e di coraggio.
Sono
un vescovo che ha avuto, fin dall’inizio, grandi legami con l’esperienza dei
Focolari. Anch’io sono trentino come Chiara e nel mio
linguaggio, da bambino, la parola “popo”1 è sempre stata presente.
Noi, da ragazzi, ci chiamavamo i “popi” del paese. E quindi questa
esperienza si è innestata nella mia realtà anche perché ho ricevuto la
Cresima proprio da mons. Carlo De Ferrari, il vescovo che ha accompagnato,
verificato e sostenuto l’esperienza e il carisma di Chiara Lubich, e come Carlo
De Ferrari sono anch’io religioso stimmatino.
Tutte
queste esperienze mi hanno accompagnato sempre: nella mia vita di studente
stimmatino e poi di sacerdote e ora di vescovo nella situazione non facile, ma appassionante di Locri-Gerace. Un’esperienza che ho rivisto questa mattina in modo nettissimo nella
testimonianza di don Renato Chiera in Brasile. Vicino a me c’era il parroco di
Secondigliano con il quale condivido molte realtà
difficili del Sud dell’Italia. Nello stesso tempo queste realtà nel loro essere
di fatica sono estremamente preziose, proprio perché
lette alla luce di quel Gesù abbandonato che sempre più scopro come la risorsa
grande di speranza che Dio dona alla mia vita di vescovo, come la dona a voi, come la dà ad ogni credente, come l’ha data in modo speciale
a Chiara.
Mi
ha affascinato la risposta che lei ha dato quando le
hanno chiesto che fare di fronte alle crisi della realtà sacerdotale, di fronte
alle fatiche dell’essere prete oggi. Lei ha risposto che la grande
risorsa è riscoprire Gesù Cristo nella sua radicalità, il Vangelo vivo che Dio
dona oggi anche tramite la risorsa straordinaria dei Movimenti, quel Gesù che
fa rialzare quell’uomo paralitico che sembra rappresentare le nostre situazioni
di fatica. «Proprio per la fede riposta in lui – dice Pietro – il nome di Gesù
ha dato vigore e perfetta guarigione a quest’uomo che voi vedete e conoscete».
Come
non leggere, in questa immagine del paralitico, tante
situazioni di fatica, di dolore, ma insieme di coraggio a livello personale della
vita nostra, oppure in alcune realtà sociali come sono state indicate oggi e
ieri. Quella fede in lui, quella forza che ci dà lo sguardo a Gesù abbandonato,
è estremamente rinnovatrice.
Nei
momenti difficili, nelle situazioni drammatiche o con persone morenti, spesso
medito le sette parole di Gesù in croce, partendo proprio dalla prima grande parola: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». E poi, adagio adagio,
le altre: «Oggi sarai con me in Paradiso»; lo sguardo a chi è accanto alla
croce, Maria: «Ecco tuo figlio», «Ecco tua madre»; lo
sguardo alla sua propria vita: «Tutto è compiuto»; lo
sguardo al futuro: «Ho sete»; lo sguardo a chi gli ha fatto del male, quando
dice, con grande, immensa forza: «Perdona loro perché non sanno quello che
fanno»; e chiudo con quella parola bellissima che è il vertice delle parole di
Gesù «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito».
Queste
sette parole mi hanno sempre aiutato, partendo proprio da quella dell’abbandono
che rende vere tutte le altre, proprio perché è drammatica, immensa, terribile:
l’esperienza dell’abbandono. Poi questa rinascita dentro il cuore di Cristo:
egli risente il Padre nel mentre si affida a Lui
morente. In tutta questa realtà appare evidente il dramma del nostro presente.
Un
giorno a una professoressa di matematica, divorata dal
cancro, ormai morente, ho potuto raccontare queste sette parole di Gesù,
partendo proprio da: «Perché mi hai abbandonato?».
Mentre spiegavo lentamente le sette parole, lei si illuminava
di una luce intensissima di speranza inattesa, imprevedibile. E quando ho concluso il cammino mi ha detto con la sua straordinaria
tenacia fatta non di forza fisica, ma di fede: «Ora capisco perché in Gesù
tutte le frazioni si compongono in unità».
Vanno
lette in questa luce le esperienze di oggi, tutte le
frazioni di cui si è parlato qui, tutte le fratture del mondo, quelle dentro di
noi, nella Chiesa, nella società: in Gesù tutte le fratture si compongono in
unità. È stata così bella questa frase che i figli di quella professoressa l’hanno
scritta, giustamente, sulla sua tomba. Questa frase così alta, così elevata e
profetica, vale anche per noi: veramente in Gesù tutte le fratture, tutte le
frazioni si compongono in unità, in quel Gesù che appare in mezzo ai discepoli di Emmaus. La sua presenza sembra la conferma sacramentale
di quanto in questi giorni stiamo sperimentando e questo ci dà una profonda
carica spirituale e pastorale.
Il Padre non ha figli «vicini» e figli «lontani»
Mi
sono piaciute molto, questa mattina, le esperienze raccontate dai parroci. In
particolare ho registrato la parola di don Carlo Malavasi
quando ha detto che non usa più la parola “lontani”. Mi ha illuminato.
Purtroppo la usiamo ancora spesso, anche a livello sociologico, anche nei
nostri documenti pastorali.
In
verità il Padre non ha figli vicini o lontani, ma ha solo figli: tutti vicini,
tutti da lui amati, nessuno dimenticato. E il nostro
scopo, come sacerdoti, è di riconoscere questa verità, non di decidere noi. Dio è già presente, Cristo ha già operato, lui è all’opera da
sempre; a noi la gioia e insieme l’umiltà gratuita e leale di riconoscere la
presenza sua che ci precede; di riconoscere che anche tu, anche se
apparentemente lontano, in realtà sei dentro il cuore di Cristo. E questo dà alla vita pastorale un’esperienza completamente
diversa. Non ci sentiamo più i protagonisti, non calcoliamo più il numero, che
è la nostra grande difficoltà e insieme la nostra
pietra di inciampo, nella quale tutti incappiamo. Non calcoliamo più
l’apparente appartenenza, ma sentiamo tutti dentro.
«È arrivato lo Sposo»
E in queste nostre fatiche, in queste esperienze personali ed
ecclesiali, sperimentiamo che è arrivato lo “Sposo”. Frase dolcissima di
Chiara, che siamo invitati a dirla anche noi, a
sceglierlo come nostro “Sposo”. Così l’esperienza nostra diventa vera.
L’anello
episcopale me lo ricorda continuamente, ma lo ricorda
a tutti, perché vi siamo tutti coinvolti e sperimentiamo che Dio ci dà una
grande speranza, perché siamo figli di profeti, tutti autenticamente capaci di
un’esperienza più grande.
Benedica
il Signore tutti noi, benedica questi giorni in cui ho
avuto grandi grazie nell’ascoltare, nel condividere, nel sostenere. Ringrazio i
sacerdoti e i seminaristi presenti qui, anche quelli della mia diocesi.
Benedico il Signore e condivido con voi la gioia che mi avete manifestato dopo
che ho inviato alle diocesi italiane il profumo del crisma, il profumo del bergamotto che ha intessuto di grazia il crisma
di tutte le Chiese d’Italia. È un gesto nato dal cuore, un gesto di quella
comunione che viviamo in modo così intenso qui fra noi, dove il profumo lo si sente perché mettiamo in atto l’amore reciproco.
Ed è
quello che auguro a me e a voi: poter sentire tutti i giorni non il cattivo
odore dell’invidia, delle gelosie, delle cattiverie, ma
quel profumo che ci rende autentici, capaci di attrarre, non di decidere noi,
ma di attirare gli altri attorno a Gesù. Se sentiranno questo profumo, come ci
dice il salmo, che scende sulla barba, sulla barba di Aronne,
saremo capaci di sperimentare che c’è ancora un Dio che ci ama, che ci ama
nonostante le mille fatiche. Anzi proprio là dove ci sono più lacrime, più
grande è la sua presenza e il suo amore.
mons. Giancarlo Maria Brigantini
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01) “Popo” è l’espressione trentina per
indicare il bambino ed è rimasta nel linguaggio del Movimento dei focolari per
indicare il “bambino evangelico” a cui fa riferimento Gesù.