Schiettezza, semplicità, comunione

di Oreste Basso

 

Ho conosciuto d. Silvano nel 1955 a Vigo di Fassa durante una delle prime Mariapoli estive nelle Dolomiti e l’ho poi potuto conoscere più profondamente nel 1963 ad Ala di Stura sopra Torino. Da allora ho seguito con molto interesse e con vero affetto la nascita e la crescita della diramazione dei sacerdoti diocesani che aderivano alla nostra spiritualità. Li ho sempre ammirati: erano persone schiette, pure, che vivevano con semplicità cose che per altri erano difficili. E d. Silvano era in testa a questa schiera. Si vedeva in lui e in coloro, che sempre più numerosi lo seguivano, la stupenda vocazione di non essere attaccati a niente, né alle cose materiali né ad altre cose appariscenti.

Povero e quindi ricco di Dio

La vita di d. Silvano sin dai primi tempi era di assoluta povertà evangelica. A Roma, a metà degli anni ’60, è vissuto solo, senza che nessuno lo aiutasse; era come la punta di un diamante e non faceva pesare su nessuno la sua situazione. La viveva con semplicità. Trovava sempre il modo di donarsi e donare.

Stupiva la disponibilità nell’intraprendere delle azioni, nel cercare aiuti per sovvenire ai bisogni altrui. La sua era una povertà che diventava ricchezza donata. Quando non poteva personalmente, si ingegnava per cercare aiuti da altre parti. E questo non solo nel mettere a disposizione il proprio denaro, ma giocando tutto se stesso. Uno dei suoi tratti caratteristici era la generosità nel vivere per gli altri, nel dare agli altri, usando per sé lo stretto necessario.

Questo suo atteggiamento era ed è una caratteristica di tutti i sacerdoti che hanno vissuto con lui lo spirito del Movimento. D. Silvano era la punta avanzata e gli altri lo seguivano. Riguardo alla comunione dei beni, per esempio, molti di loro la praticano in modo totale, vivendo con radicalità evangelica la povertà personale, senza toccare i beni della Chiesa che essi amministrano. E lo fanno fino ad oggi con una discrezione ammirevole. Per me è stata una delle cose più belle, una delle realtà più vere e forti che ho visto nei sacerdoti diocesani che vivono la nostra spiritualità  Il loro essere poveri per il Regno di Dio vuol dire essere ricchi di Dio che non vuol far mancare nulla ai suoi figli. Non è una cosa semplice e banale, è indice della vera autentica ricchezza.

Indicava la strada, ma non imponeva

In d. Silvano questa disponibilità si manifestava in tutti i campi, perché egli metteva le sue doti umane – e ne aveva tante – a servizio degli altri. Aveva una grande capacità di mettere in comunione anche i beni intellettuali, facendosi capire da tutti e aiutando tutti a mettere in comune pure loro queste doti. Negli argomenti teologici era ben preparato, ma sapeva capire l’altro e portarlo al punto giusto senza costrizioni. Era capace di donare l’essenziale.

Ho una immensa riconoscenza per d. Silvano, perché è stata una persona veramente amabile giacché amava. Era di una delicatezza bellissima, di una grande capacità espressiva ma non aggressiva, così penetrante che entrava nell’anima e coglieva i tratti intimi senza dire tante parole. Si metteva a tu per tu con quella persona e faceva venir fuori da lei le cose più belle. Poneva le persone a loro agio in modo squisito anche quando trattava argomenti e situazioni difficili.

Poi non pretendeva mai niente. Indicava la strada, ma non imponeva che tu la seguissi, mostrava la via e ti lasciava libero. Non si metteva dietro a spingere, ma trascinava con l’esempio, con l’amore. L’ho visto agire con i sacerdoti: non faceva pesare l’autorità, amava essere un fratello. Questo era alla base della sua vita. Era sempre costruttivo e non andava sul duro. Aveva ereditato dalla natura sì un carattere duro, ma l’aveva reso dolce vivendo l’Ideale dell’unità. La severità naturale si era trasformata in fedeltà al Vangelo.

Aveva una grande facilità di creare la gaiezza dell’incontro tra più persone col suo modo di vivere nella gioia. Anche nei momenti di svago era bellissimo il rapporto con lui, gioioso, spontaneo, in Dio, condivisibile. Questo rapporto schietto e sereno lo aveva con tutti, anche col barista o col padrone del ristorante quando a volte andavamo a cena. Creava rapporti belli e immediati.

Così la sua vita privata è rimasta sempre un capolavoro di povertà, onestà, sobrietà di costumi, serenità e gioia. Una simile vita si può spiegare solo se vissuta in Dio. A mio avviso egli rappresenta un tipo di santità che va ripresa nella Chiesa. Una santità non eclatante, non discostante, ma amabile; che non fa paura, ma avvince e si fa amare.

Il suo capolavoro

Per me un punto particolarmente luminoso è stata la Giornata dei settemila sacerdoti e religiosi nell’Aula Paolo VI il 30 aprile 1982. Quell’evento fu il suo capolavoro: essere arrivato a quel punto significava aver costruito passo per passo un rapporto con quei sacerdoti, averli raggiunti e averli vivificati. Ed è stata una grande testimonianza nella Chiesa: settemila concelebranti col Papa, tutti uniti! L’Osservatore Romano parlò della “più grande concelebrazione dall’istituzione dell’Eucaristia”. Fu un frutto dell’azione dello Spirito in d. Silvano e nei suoi collaboratori.

Don Silvano e Chiara Lubich

Il rapporto di unità tra Chiara e d. Silvano era bellissimo. Lei aveva una stima grandissima di lui e come focolarino e come sacerdote: come focolarino, perché viveva la spiritualità del Movimento in maniera esemplare; come sacerdote perché faceva vedere cosa è il sacerdote che vive la spiritualità dell’unità. È stato un grande aiuto, una mano destra per Chiara.

Egli sapeva bene cosa è l’Ideale dell’unità e cosa è la Chiesa e sapeva tessere il rapporto tra queste due realtà senza snaturarle, anzi le rendeva ancor più luminose. Egli non aderiva al Movimento perché era una cosa bella e basta, ma si rendeva conto che l’Ideale dell’unità – il Testamento di Gesù – era fondamentale per la vita dei sacerdoti e delle parrocchie, era un punto di forza che veniva dal carisma dato a Chiara.

Di fronte a tante difficoltà nei riguardi dell’appartenenza dei sacerdoti diocesani al nostro Movimento ha mostrato che essi possono essere pienamente inseriti nell’Opera di Maria pur restando pienamente diocesani. Vivendo integralmente la spiritualità, i sacerdoti hanno testimoniato concretamente, con intelligenza e giudizio, che il loro legame col Movimento li rendeva ancor più disponibili nei confronti dei loro vescovi.

Bisognerà sempre di nuovo prendere in mano i discorsi con i quali Silvano ha “costruito” i sacerdoti. In essi egli trasmetteva il pensiero di Chiara, non ripetendo le parole di lei, ma con parole sue testimoniate con la propria vita. La sua grandezza era, appunto, che egli stesso era presenza viva di come deve essere un prete diocesano oggi secondo il carisma dell’unità e secondo il pensiero della Chiesa.

La stella polare, il punto di riferimento di tutti i suoi discorsi ai sacerdoti era quello che Chiara Lubich ha chiamato il sacerdozio “mariano”, con tutti i crismi del sacerdozio ministeriale: un sacerdozio puro, forte, integro e non annacquato da compromessi. I sacerdoti che vogliono condividere la vita e la spiritualità del Movimento dei focolari dovranno sempre rispecchiarsi in quelle pagine.