La vita d’unita ha preparato un giovane sacerdote brasiliano alle responsabilita di pastore nella Chiesa

 

La comunione
come
scuola di vita

 

Intervista a mons. Jose Antonio Tosi Marques

 

Si avverte sempre più nella Chiesa l’esigen­za che i sacerdoti chiamati al servizio epi­scopale siano già formati ad una vita di comunione, capaci quindi di vivere una collegialità affettiva ed effettiva. È molto signi­ficativo, infatti, che la "Novo millennio ineunte" chieda di "promuovere una spiritualità di comunione... dove si educano i ministri dell’altare" (n. 43). Su questo argo­mento abbiamo rivolto alcune domande ad un nostro amico, mons. Jose Antonio Tosi Marques, arcivescovo di Fortaleza nel Nor­dest del Brasile. Egli ci ha risposto con la sua esperienza semplice ma significativa, raccontandoci come un carisma moderno ha contribuito nel formarlo alla comunione.

 

Non pensavo di diventare prete

 

GENS: Come mai lei ha scelto il sacerdo­zio in un periodo nel quale i seminari si svuotavano e tanti preti non avevano la forza di portare avanti il loro ministero?

 

A dire il vero non ho mai scelto il sacer­dozio e per spiegarmi devo raccontare qual­cosa della mia infanzia. Quand’ero ancora ragazzo ho sperimentato una luce ed ho capi­to che Dio mi amava e che la mia vita avreb­be avuto senso solo se fosse stata un dono per gli altri. Non so dire di più, se non che que­sta realtà era entrata nella parte più intima della mia persona. Non pensavo neanche lon­tanamente al sacerdozio; volevo essere sol­tanto un cristiano che ama il prossimo. Forse per questo ad un certo momento avevo accet­tato l’incarico di catechista.

Un giorno il parroco mi rivolse questa domanda: «Non ti piacerebbe diventare prete?». Al momento risposi deciso che vole­vo essere semplicemente un cristiano. Poi quella domanda comincio a lavorarmi dentro e pian piano mi divenne chiaro che avrei potuto amare Dio e il prossimo anche diven­tando sacerdote.

Quando sono entrato in seminario, nel 1966, avevo 17 anni ed ho iniziato subito il corso filosofico. Allora nella Chiesa si respi­rava l’atmosfera del post-Concilio e tutto parlava di novità, mentre nella società civile del nostro Paese era l’epoca della rivoluzione militare con la conseguente repressione: dovunque ti giravi c’era divisione e non poca confusione. In seminario il mio entusiasmo e le mie attese un po’ ingenue si scontrarono ben presto con una realtà abbastanza dura.

 

GEN’S: Era il tempo della contestazione e si sentiva l’esigenza di cambiamenti, ma a volte si arrivava a delle esagerazioni... Lei come ha reagito?

 

Mi sono posto delle domande. Dove mi sono cacciato? Perché non tornare al mio primo progetto di semplice cristiano? In fondo in parrocchia il Vangelo lo si viveva meglio che in seminario.

Ma proprio in questo momento il rettore propose che una rappresentanza di seminari­sti partecipasse ad una Mariapoli del Movi­mento dei focolari ed io ero uno dei cinque prescelti. Non conoscevo affatto i focolarini, ma accettai volentieri.

Alla conclusione della Mariapoli mi risuo­navano nel cuore frasi come queste: «Se vuoi amare Gesù, devi amare anche la sua Chiesa; non fuggire la croce, ma abbraccia questa situazione di dolore e torna in seminario per amare i formatori e i compagni; anche lì si puo costruire una Chiesa che sia famiglia». Durante la Mariapoli, nella convivenza fra­terna di tante persone, avevo constato che era possibile vivere il Vangelo oggi, e questo poteva avvenire anche in seminario.

Stavamo muovendo i primi passi in questo nuovo stile di vita, quando terminai il corso di filosofia e cominciai lo studio della teolo­gia.

 

Una vera scuola di comunione

 

Se la spiritualità dell’unità, conosciuta in Mariapoli, mi aveva sostenuto in quegli anni, ora cominciava per noi seminaristi del sud del Brasile un periodo nuovo, perché alcuni sacerdoti diocesani, che vivevano questa spiritualità, presero a cuore la nostra formazio­ne, organizzando incontri per noi nell’ allora nascente Mariapoli Araceli (oggi Mariapoli Ginetta), vicino alla città di San Paolo.

Due cose ricordo di quel periodo. Innanzi­tutto siamo venuti a contatto con i vari punti della spiritualità, come Dio-amore, la Parola di vita, l’unità, Gesù crocifisso e abbandona­to, Maria, ecc... Era una continua scoperta dei cardini del cristianesimo in una luce cre­scente. Conseguentemente anche lo studio della teologia s’illuminava.

Mentre i professori, in quel periodo di grandi cambiamenti, spesso non sapevano cosa insegnare, per noi le verità della fede si rivestivano di luce. Non saprei spiegarlo. Può sembrare esagerato, ma io attribuisco la mia formazione teologica a questa scuola nella spiritualità dell’unita.

Ricordo che nei nostri incontri c’ era una comunione profonda tra noi seminaristi e con i sacerdoti: potevamo parlare di Vangelo vis­suto e intravedevamo il nostro futuro molto interessante.

La Comunità cristiana degli Atti degli Apo­stoli non era un’utopia o un avvenimento ormai sorpassato, ma una realtà che speri­mentavamo e un giorno avremmo potuto pro­muovere nelle nostre parrocchie, perché Dio ci stava donando gli strumenti per farlo.

Nei seminari a volte non mancavano le critiche nei nostri riguardi, dovute spesso alla non conoscenza della funzione dei carismi nella Chiesa. Questo, pero, non c’impediva di andare avanti e di creare rapporti di amici­zia con tutti. Non di rado i formatori e i nostri colleghi, stupiti della nostra serenità e dell’impegno nel creare un clima di fraternità, ce ne domandavano il perché, dandoci la possibilità di raccontare qualcosa della nostra scoperta. E il numero dei seminaristi che ci seguivano nella via dell’unità aumen­tava. Forse per questo gli anni di seminario li ricordo come un periodo di luce.

 

GEN’S: Divenuto prete, ha potuto conti­nuare questa vita di comunione?

 

Appena ordinato sacerdote, il vescovo mi pose come direttore spirituale del seminario diocesano, mentre un mio compagno di studi era nominato rettore. Sia il vescovo che noi due eravamo stati toccati dal carisma dell’u­nità e non fu difficile l’intesa tra noi. Questo facilitava un clima di fraternità nel seminario e, mentre altre regioni lamentavano la man­canza di vocazioni, noi ne avevamo a suffi­cienza.

La vita d’unità, che cercavamo di vivere in seminario, andava avanti anche fuori, perché c’erano sacerdoti di altre diocesi con i quali c’incontravamo regolarmente. Il contatto poi con i laici del Movimento, impegnati nel vivere con radicalità il Vangelo, era di stimo­lo per noi. Gli aggiornamenti, che ci venivano comunicati e che provenivano da ogni parte del mondo, davano un respiro ampio su tutte le realtà della Chiesa. E questo avveni­va senza disturbare minimamente la nostra realtà di preti diocesani, anzi la illuminava, dando maggior fecondità al nostro ministero.

Penso stia qui uno dei motivi per cui non pochi di questi miei colleghi di quel periodo sono stati scelti come formatori nei seminari e poi come vescovi.

 

Scuola che continua

 

GEN’S: E anche lei e stato chiamato al ministero episcopale. Come e avvenuto?

 

Fu una sorpresa che in un primo momento mi lascio sconcertato. Ero spaventato pen­sando alla mia piccolezza davanti a tanta responsabilità, senza dire del salto che ero chiamato a fare.

Fino a quel momento avevo lavorato prima in seminario, poi in parrocchia e nel coordinamento della pastorale diocesana ma in un ambiente prevalentemente agricolo e tradizionalmente cristiano; avevo collaborato con un vescovo che mi voleva bene e con un clero ben disposto e a me ben noto. Ora mi si chiedeva di andare a lavorare nell’archidio­cesi di Salvador da Bahia come vescovo ausi­liare di un cardinale che non conoscevo, in un ambiente cittadino che si diceva fosse par­ticolarmente problematico per la difficile situazione sociale e per la fortissima presen­za di tradizioni religiose sincretiste.

Fidandomi della parola incoraggiante del mio vescovo e dell’appoggio che mi veniva dai sacerdoti con i quali condividevo questa vita di comunione sin da seminarista (alcuni di questi erano già vescovi), dissi il mio sì.

Andai a Salvador per continuare lo stesso stile di vita in profonda comunione col cardi­nale Lucas Moreira Neves. Nello stesso tempo mantenevo vivi i contatti, insieme ad altri vescovi, con la fonte del carisma dell’u­nità, come avevo fatto da prete.

A Salvador mi vennero affidati la forma­zione permanente del clero, la cura del seminario, il coordinamento della pastorale dioce­sana e quello dei Movimenti laici, ed altro ancora. Furono otto anni di lavoro intenso, ma anche fecondo. Attribuisco questo al fatto che mi sforzavo di ascoltare le persone fino in fondo, di promuovere il positivo di ognu­no, di stabilire rapporti di unità con tutti.

 

GENS: Lei ora da due anni e arcivescovo di Fortaleza. Come sta vivendo la comunione nel ministero episcopale?

 

Quando il Nunzio mi ha comunicato la designazione pontificia, mi ha messo nelle mani un dossier su questa archidiocesi. L’ho letto ed ho avuto paura, perché Fortaleza, dal punto di vista ecclesiale e civile, e una realtà molto complessa.

I miei predecessori erano personalità di grande valore ed io mi sentivo una nullità. Ho manifestato le mie perplessità ma poi ho detto di si, confidando nell’aiuto di Dio e dei fratelli.

In questi due anni ho percorso l’intera arcidiocesi, ho stabilito una relazione personale con tutti i sacerdoti, ho visitato tutte he parrocchie e le Comunità religiose. Ed ho sperimentato che, cercando di vivere il comandamento nuovo, anche le situazioni più difficili si aprono alla speranza.

In fondo tutti, dai preti alle autorità civili, dagli adulti ai bambini, vogliono essere accolti e trovare ascolto nel vescovo. Ho incontrato molte problematiche e spesso non avevo alcuna soluzione nella manica, ma almeno potevo condividere le gioie e i dolori altrui.

Tante volte, dopo aver stabilito un rappor­to di fiducia, veniva anche la Luce per risol­vere i problemi concreti o almeno per affron­tarli insieme senza sentirsene schiacciati. Penso che è qui il fondamento di ogni pasto­rale.

In fondo la vita del Vangelo è di una sem­plicità straordinaria, ma con frutti sorpren­denti.

 

Collegialità affettiva e poi effettiva

 

GEN’S: Come ha cercato di vivere la collegialità episcopale durante questi anni?

 

La mentalità ancora corrente vede nel vescovo il responsabile di tutto e da lui ci si aspetta tutto. Ho cercato di migliorare quest’immagine. Per l’esperienza vissuta fin da giovane ho visto che chi riveste un ruolo di autorità deve mettersi a servizio degli altri, creando un clima di famiglia, muovendosi non come "padrone" ma come perno d’unità.

Non ho mai visto la collegialità come spartizione di poteri, ma come comunione fraterna. La condivisione delle responsabilita avviene di conseguenza e nell’armonia dell’ insieme.

Anche da vescovo sento il bisogno di continuare la mia formazione a questa vita di comunione e il carisma dell’unità mi ha aiu­tato molto. Se da prete mi ritrovavo regolar­mente con altri sacerdoti, perché non farlo anche da vescovo? È vero che noi vescovi viviamo lontani gli uni dagli altri, ma abbia­mo tante occasioni per incontrarci.

Quest’anno, per esempio, un bel gruppo di vescovi abbiamo passato le vacanze insieme in una località tranquilla della mia arcidiocesi. La convivenza fuori dell’ambiente di lavoro ha favorito la preghiera, ha permesso lo scambio di esperienze in conversazioni infor­mali e, soprattutto, ci ha fatti sentire fratelli. Abbiamo avuto la sensazione di rivivere, secondo la misura della nostra piccolezza, l’esperienza degli apostoli attorno a Gesù. E in questo ambiente che mette radici la colle­gialità affettiva per poi diventare anche effet­tiva. Prima l’essere, poi il fare.

È vero che ogni vescovo si confronta col suo presbiterio, ma lì egli e visto più come colui che fa la parte del Maestro; invece in questi incontri informali tra noi soli, siamo tutti fratelli e l’unico Maestro e Gesù. La sua presenza da gioia, ma anche purifica, rad­drizza e soprattutto armonizza l’insieme. E ogni vescovo torna a casa arricchito da que­sta esperienza di comunione.

 

GEN’S: Ma questi incontri avvengono solo tra vescovi che condividono questo stile di vita. Non c’è il pericolo di chiudersi in un circolo ristretto di amici?

 

Come accennato sopra, quando ero prete mi trovavo con altri sacerdoti per approfon­dire la spiritualità dell’unità e quella convi­venza, anche se di pochi giorni, ci rinnovava. Poi ognuno di noi tornava nella sua diocesi con nuovo slancio, pronto ad amare tutti, a portar bene la propria croce, a costruire ponti...

La stessa cosa sta avvenendo adesso tra noi vescovi. Ci ritroviamo insieme, quando possiamo, per approfondire non tanto teori­camente ma in modo concreto la spiritualità di comunione. Questo non ci chiude tra noi, ma ci allena e ci rende più disponibili verso tutti, facilitando i rapporti con gli altri fratel­li vescovi nella Conferenza episcopale regio­nale e nazionale. E questo lo stiamo già sperimentando, perché la spiritualità di comu­nione non tende alla chiusura ma alla realiz­zazione della preghiera sacerdotale di Cristo: "che tutti siano uno".

D’ altra parte il Papa nella Novo millennio ineunte avverte di non farci «illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servi­rebbero gli strumenti esteriori della comu­nione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita» (n. 43).

 

a cura di Enrico Pepe