Solo una spiritualità di comunione, incarnata ad ogni livello,
pone i cristiani
all'altezza dei tempi

Chiesa per il terzo millennio

di Piero Coda

Nella sua ultima lettera apostolica Giovanni Paolo II, rivolgendosi ai cattolici, li invita ad assumere «un deciso impegno programmati­co: quello della comunione che incarna e manifesta l'essenza stessa del mistero della Chiesa», perché solo cosi essa «si manifesta come "sacramento", ossia "segno e stru­mento dell'intima unione con Dio e dell'u­nita di tutto il genere umano"» (n. 42) e può rispondere ai segni dei tempi.

Colpisce la lettura profetica del presente e del futuro della Chiesa che Giovanni Paolo II ci offre nella Novo millennio ineun­te. Certamente c’è dietro la grande lezione del Vaticano II, c’è la grande sorpresa dell' e­vento giubilare, ci sono gli impulsi di rinno­vamento dei carismi elargiti dallo Spirito Santo con gratuita larghezza anche al nostro tempo, c’è l'esperienza di tutto il Popolo di Dio, c’è l'attesa dell'umanità.

«No, non una formula ci salverà — dice il Papa — ma una Persona, e la certezza che essa ci infonde: Io sono con voi! Non si tratta di inventare un "nuovo programma". II pro­gramma c’è già (...). Esso si incentra (...) in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasforma­re con lui la storia» (n. 29).

Ma come vivere questo? L'esperienza e le esigenze emerse nel cammino del postconci­lio ci dicono che per attuare una Chiesa trini­taria, una Chiesa-comunione, occorrono una spiritualità che muova e informi le coscienze, e uno stile di vita personale ed ecclesiale capace di tradurre in vita i rapporti trinitari.

La disillusioni e addirittura il senso di impotenza che talora è dato di percepire nelle nostre Chiese di fronte all'ideale di un'auten­tica Chiesa-comunione nasce, penso, dall'a­ver creduto che essa sia frutto dei nostri pro­getti e delle nostre azioni.

Mentre e necessario un dono dall'Alto e insieme un'esigente "scuola di ecclesiologia di comunione" — come l'ha definita Giovan­ni Paolo II.

Una scuola in cui si pratichi il passaggio da una spiritualità piuttosto individuale a una più Comunitaria e, conseguentemente, si metta in atto una formazione mirata e pro­grammata a uno stile di comunionalità, come premessa di ogni agire ecclesiale.

Comunione all'interno della Chiesa

Allo stesso tempo, per evitare la tentazio­ne di un angelismo disincarnato, occorre un'attenzione più meditata e conseguente a quelle forme e strutture di comunione e di partecipazione in cui concretamente, nella valorizzazione dei differenti ministeri e cari­smi, si incarna una reale vita di comunione.

Ho ricevuto l'altro giorno un biglietto di un caro amico, il teologo benedettino Ghi­slain Lafont che, tra l'altro, mi ha inviato il testo di un intervento del metropolita orto­dosso russo in Gran Bretagna, Antonio, che ha oltre 86 anni. Egli si domanda: «Non è forse che stiamo per mancare il momento e la possibilità che ci è offerta di trasformarci in Chiesa, mentre sinora eravamo un'organizza­zione ecclesiastica?».

È questa una percezione che attraversa tutte le Chiese: che le invita alla conversione e ad aprirsi le une alle altre. L'attuazione di una Chiesa-comunione esige, infatti, in fedeltà a ciò che è essenziale e permanente, l'umile e coraggiosa capacità di innovazione e di riforma. A tutti i livelli.

Pensiamo al rapporto tra primato e collegialità episcopale e alle importanti ricadute di una sua corretta e rinnovata comprensione ed esperienza, non solo per la vita della Chie­sa cattolica ma anche per il cammino ecume­nico.

Giovanni Paolo II, nell' Ut unum sint, ha avuto la lucidità e il coraggio profetico di affermare: «Sono convinto di avere a questo riguardo una responsabilità particolare, soprattutto nel constatare l'aspirazione ecu­menica della maggior parte delle Comunità cristiane e ascoltando la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova» (n. 95).

Qualcosa di analogo, penso, va detto sul ruolo della donna nella Chiesa, sulla parteci­pazione dei laici alla vita ecclesiale, sul rap­porto tra principio gerarchico e principio carismatico (che sulla scia della Lumen gen­tium 12, Giovanni Paolo II ha definito co­essenziali), sul modo di concepire il cammi­no verso la piena comunione tra la Chiesa cattolica e le altre Chiese e Comunità eccle­siali in chiave non di uniformità ma di scam­bio di doni — per non portare che qualche esempio.

Si tratta, in fondo, di vivere il principio della reciprocità trinitaria come Legge di vita fondamentale del popolo di Dio in tutte le espressioni della sua vita e della sua missio­ne (cf LG 9b).

A servizio dell'umanità

Perché una Chiesa-comunione? La rispo­sta è nella preghiera di Gesù: perché il mondo creda. Nella misura in cui la Chiesa diviene comunione avrà la capacità di attuare la nuova evangelizzazione.

Chi è il mondo, o, meglio, chi sono gli uomini e le donne cui, come Chiesa, siamo inviati? Anch'essi, come noi, sono già presi dentro l'evento dell'incontro tra Dio/Amore Trinità e la storia, evento che si è realizzato "una volta per tutte" in Cristo Gesù. II dise­gno d'amore e di salvezza universale di Dio, che è Abba e abbraccia tutti.

Il Figlio — scrive la Gaudium et spes, riproponendo l'insegnamento dei Padri — incarnandosi s'è in certo modo unito ad ogni essere umano (cf. GS 21) e nella kenosi della croce, spinta sino all'esperienza estrema di provare l'abbandono del Padre, ha raggiunto anche il più lontano da Dio.

Nulla, dunque, e nessuno resta più fuori dell'abbraccio d'amore del Padre realizzato attraverso il Figlio suo incarnato e crocifisso.

E lo Spirito non solo precede e prepara la venuta di Cristo, nel popolo che è "eletto" e negli altri popoli, nessuno dei quali "dimenticato", ma offre a tutti la possibilità, nei modi che Dio conosce, di venire a contat­to con il mistero pasquale di Cristo (cf. GS 21).

Tutto ciò è elementare, dal punto di vista teologico, eppure richiede e provoca una conversione del nostro sguardo e, di conse­guenza, della prassi.

Quella conversione cui ci richiama, ad esempio, san Paolo, quando afferma: «Tutto è vostro (...), ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1Cor 3, 21.23).

Oggettivamente, ex parte Dei, in Gesù Cristo tutto e tutti sono già ricapitolati e sal­vati. Nel senso spiegato da san Tommaso d'Aquino: «tutti gli uomini predestinati alla salvezza sono in qualche modo membri di Cristo e perciò la Chiesa, che e il Corpo mistico di Cristo, è costituita da tutti gli uomini che vanno dal principio del mondo fino alla fine» (Summa Theologica III, q. 8, a. 3 c). Il suo pensiero e ripreso anche dalla Lumen Gentium (n. 16).

Certo, se tutto è fatto dalla parte di Dio, come grazia, tutto resta ancora da fare dalla parte della persona umana, come libertà che accoglie e fa agire in sé la grazia ricevuta.

Annuncio e dialogo

È  di qui che nasce la dialettica, che nel nostro tempo è diventata una delle piu acute e feconde a livello teologico e pastorale, tra annuncio e dialogo.

Il Cristo crocifisso e risorto ci dice che entrambi sono essenziali. Da un lato, non può venir meno l'impegno a evangelizzare — lo sottolinea Giovanni Paolo II nella Novo mil­lennio ineunte — perché occorre annunciare e trasmettere esplicitamente, attraverso la parola, i sacramenti, la testimonianza della carità e della comunione ecclesiale l'evento di Gesù Cristo.

Dall'altro, occorre farlo non solo nel rispetto della liberta dell'interlocutore (la Dignitatis humanae è un'acquisizione fonda­mentale dell'autocoscienza ecclesiale), ma anche nel rispetto e nella valorizzazione della sua esperienza umana e religiosa.

«Il dovere missionario — scrive la Novo millennio ineunte — non ci impedisce di anda­re al dialogo intimamente disposti all' ascol­to. (...) Non raramente lo Spirito di Dio, che "soffia dove vuole" (Gv 3, 8), suscita nell'e­sperienza umana universale, nonostante le sue molteplici contraddizioni, segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo a comprendere più profondamente il messaggio di cui sono portatori» (n. 56).

 

 

Una conversione pastorale

Che cosa ne consegue, concretamente, per l'atteggiamento di ciascuno e per quello della Comunità verso chi non è cristiano?

Innanzi tutto che egli va visto, accolto e trattato — uso un'espressione di Chiara Lubi­ch — come un candidato alla comunione piena con Dio e tra i figli di Dio.

Cristo — scrive la lettera agli Efesini — ha già abbattuto «il muro di separazione che era frammezzo» (2, 14). Non hanno pin diritto di cittadinanza le contrapposizioni dentro/fuori, vicino/lontano. Ciò che era "fuori" e "lonta­no", Gesù crocifisso e abbandonato, in sé l'ha portato "dentro" e "vicino".

La Chiesa, è vero, ha una sua identità e una sua interiorità, in cui è custodita e testi­moniata la presenza del Risorto tra coloro che sono adunati nel suo Nome. Ma ciò non significa che debba considerare estranei gli altri: perché, se cosi facesse, considererebbe estraneo Cristo stesso, che s'e fatto loro.

La vita della Chiesa è un movimento rit­mico di "sistole" e "diastole": di convocazio­ne nel cenacolo del Risorto e di esodo "fuori dalle mura" per incontrare il Crocifisso.

Cosi la lettera agli Ebrei: «Anche Gesù", per santificare il popolo con il proprio san­gue, patì fuori della porta della città. Uscia­mo dunque anche noi dall'accampamento e andiamo verso di lui...» (Eb 13, 12-13).

Il Regno di Dio si rende presente e ope­rante in questo passaggio pasquale dalla koi­nonia del Crocifisso, che tutti già abbraccia, alla koinonia del Risorto, in cui riecheggia vivo l'annuncio della Pasqua che chiama a entrare "nella gioia del Signore".

La presa di coscienza di questo fatto com­porta una "conversione pastorale". «È ormai tramontata — costata il Papa —, anche nei Paesi di antica evangelizzazione, la situazio­ne di una `società cristiana' che, pur tra le tante debolezze che sempre segnano l'uma­no, si rifacevano esplicitamente ai valori evangelici» (n. 40).

Dobbiamo "prendere il largo" e dare la parola alla fantasia dello Spirito Santo e della carità: «nella causa del Regno non c’è tempo per guardare indietro» (cf. n. 15).

In concreto, occorre creare degli spazi dif­ferenziati in cui coloro che vengono a contat­to con una Comunità ecclesiale viva, possano sentirsi a casa e sperimentare, progressiva­mente, l'incontro con il Risorto.

È la grande intuizione teologica e pastora­le che sta dietro l'Ecclesiam suam di Paolo VI e I'Ecclesia de Trinitate del Vaticano II. I centri concentrici del dialogo, che la Chiesa conciliare ha cominciato a tracciare, non sono che la logica conseguenza della com­prensione cristologica e trinitaria della Chie­sa come segno e strumento dell'avvento del Regno di Dio.

Il dialogo — nel senso alto del termine, come reciproco incontro e scambio di ciò che decide ultimamente il nostro esistere — è lo spazio in cui si può dischiudere, passo passo, l'esperienza del Crocifisso/Risorto.

Nell'interpretazione dei testi e dello spiri­to conciliare offerta dal Sinodo dei vescovi del 1985 si afferma che «il dialogo autentico tende a far si che la persona umana apra e comunichi la sua interiorità al suo interlocu­tore», cosicché «Dio può servirsi del dialogo (...) come via per comunicare la pienezza della grazia».

Ancora più esplicito quanto affermato da Giovanni Paolo II a Madras il 5 febbraio 1986 ai rappresentanti delle religioni non cri­stiane: «Il frutto del dialogo è l'unione fra gli uomini e l'unione degli uomini con Dio (...). Attraverso il dialogo facciamo in modo che Dio sia presente in mezzo a noi, perché men­tre ci apriamo l'un l'altro nel dialogo, ci apriamo anche a Dio».

Analogamente, ciò vale anche per chi non crede esplicitamente in Dio.

In questo contesto mostra la sua straordi­naria attualità quell'«arte di amare» che Chiara Lubich propone come via privilegiata dell'evangelizzazione: amare tutti, amare per primi, farsi uno con l'altro sul modello di Gesù abbandonato, servire...

 

 

Un nuovo umanesimo

Della missione della Chiesa, attraverso l’incarnazione del Vangelo, soprattutto da parte dei fedeli laici nelle varie dinamiche della vita culturale e sociale, fa parte essen­ziale la testimonianza di un umanesimo e di una socialità in cui agiscano le "radici trinitarie" della salvezza.

Tutto ciò riveste una particolarissima urgenza nel nostro tempo. Mi limito a richia­mare due dati.

Il primo concerne quella che, globalmen­te, possiamo chiamare la fine della moder­nità, vale a dire la conclusione di un'epoca in cui s'è sperimentato un modello di umanesi­mo centrato sull'affermazione del soggetto in una contrapposizione programmatica all'alterità, fosse essa quella di Dio o di un altro essere umano: sia a livello individuate che collettivo. Ci troviamo in un grande spazio aperto che attende il nuovo: di qui, non a caso, il successo delle più svariate e anche riduttive e pericolose proposte di "ritorno del Sacro".

Un secondo dato riguarda il cammino irre­versibile verso l'acquisizione di una coscien­za planetaria della famiglia umana, che richiede la comprensione e la gestione delle differenze (di cultura, di tradizione, di reli­gione, ecc.) in un contesto di apertura all’­altro e di relazione reciproca, a tutti i livelli (politico, economico, culturale e spirituale). Anche in questo caso, l'umanità e sollecitata a varcare la soglia di una novità impegnativa e come tale rischiosa.

Sullo sfondo di questo quadro, diventa sorprendentemente attuale l'autocoscienza ecclesiale espressa dal Concilio Vaticano II sin dal n. 1 della Lumen gentium: «La Chie­sa, è in Cristo, come un sacramento e cioè segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano».

Dio e l'essere umano, l'io e il tu — in altri termini — non sono concorrenti secondo la logica duale del servo/padrone, ma in Cri­sto crocifisso e risorto sono accolti, rivelati e redenti nello spazio della reciprocità trini­taria.

 

 

Fermento DI una nuova socialità

La Chiesa, muovendo dalla sua realtà di comunione, è chiamata ad essere presenza viva della novità dell'amore trinitario nella storia come fermento di una socialità nuova.

Mi sembra che talvolta non riusciamo a rendere percepibile che cos’è la salvezza che Cristo ha portato e che la Chiesa testimonia e realizza. In quale senso, infatti, Cristo ci ha salvati e in quale senso la Chiesa è sacra­mento di salvezza? Nel senso che ci fa vive­re la pienezza della vita come Dio l'ha pen­sata per noi: la vita della comunione.

La salvezza, quindi, è la comunione. La comunione che si vive nella storia e in cui la persona umana si realizza secondo le dinami­che del suo esistere sociale, tendendo e atten­dendo il compimento escatologico.

Ed è, allora, proprio la comunione che diventa "utopia" non velleitaria o ideologica, ma reale e concreta, dove la società umana può trovare fermenti di rinnovamento e linee di orientamento per il proprio cammino.

E ciò senza essere ecclesiocentrici: la Gaudium et spes sottolinea giustamente che in questo cammino di progettazione e realiz­zazione di una socialità più matura, la Chie­sa impara sì dalla Parola di Dio, ma impara anche dal mondo o meglio dallo Spirito Santo che si esprime attraverso le aspirazio­ni, le conquiste e anche le sofferenze e i pro­blemi più gravi del mondo stesso.

Lo ricorda Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte: «Pur attuando un operoso e vigile discernimento, per cogliere i "veri segni della presenza o del disegno di Dio", la Chiesa riconosce che non ha solo dato, ma anche ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano» (n. 5è).

Anche questo c'insegna la contemplazione del volto di Cristo crocifisso e risorto. Guardandolo risuonano oggi in tutta la loro forza le parole: «Ho avuto fame... ho avuto sete... ero forestiero... nudo... malato... carcerato... ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più pic­coli, l' avete fatto a me» (Mt 25, 31ss).

«Questa pagina — sottolinea il Papa — non e un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo. Su questa pagina, non meno che sul versante dell'ortodossia, la Chiesa misura la sua fedeltà di Sposa di Cri­sto» (n. 49).

Si tratta di una scelta preferenziale — quella dei poveri — imposta dal Vangelo di Cristo e chiamata a «qualificare in modo egualmen­te decisivo la vita cristiana, lo stile ecclesiale e la programmazione pastorale» (ibid.).

Occorre fare in modo che i poveri, e di tutti i tipi di povertà, «si sentano, in ogni Comunità cristiana, come "a casa loro"» (cf. n. 50) e che una nuova "fantasia della carità" si faccia «servizio alla vita, alla cultura, alla politica, all'economia, alla famiglia» (n. 51).

La via della Chiesa

II volto del Cristo giovanneo, "elevato" da terra che tutti attira a sé, è la via della Chie­sa.

Come non vedere che da Lui si riversa sulla Chiesa, per tutti, quel "fiume d'acqua viva", che disseta e rinnova, infondendo spe­ranza e rivestendo di bellezza la Sposa che invoca il ritorno dello Sposo?

«Della bellezza di questo volto della Chie­sa — scrive Giovanni Paolo II — abbiamo goduto nell'anno giubilare. È forse solo un inizio, un'icona appena abbozzata del futuro che lo Spirito ci prepara» (n. 40).

Piero Coda