Obbedienza: riscoperta di un rapporto

Di fronte alla crisi odierna dell’obbedienza riemerge il suo genuino significato cristiano: molto più che prassi ascetica, essa è conseguenza sulla terra della dinamica trinitaria iscritta nella vocazione di ogni persona. Chi per amore dona la propria libertà si realizza non solo come persona spirituale, ma come persona integrale. (da gen’s 2/1989, pp. 25-31)

Nel Primo Testamento

È  impossibile, al di fuori della Rivelazione, capire l’obbedienza. Poiché tutti gli uo-mini hanno per natura lo stesso valore, perché un uomo do-vrebbe fare la volontà di un altro? La può fare, certo, ma per un patto, accettando una situazione di convenienza reciproca: io faccio quel che tu vuoi e in cambio tu mi dai quello che io voglio. Ma nel rapporto con Dio, quando egli si rivela, le cose cambiano, perché tra il Creatore e la creatura si stabilisce di per sé una tale comunione vitale che essa non ha altro modo di raggiungere la propria pienezza se non uniformandosi al disegno divino.

Tutto il Primo Testamento non è che la storia di un popolo e di singole persone con cui Dio ha voluto amorevolmente fidanzarsi nell’amore e nella fedeltà (cf Os 2, 21 ss.) per far-li vivere in una privilegiata intimità con sé.In questa fedeltà, aderendo cioè al suo volere, l’uomo conosce Dio e conosce se stesso, vive in intimità con Dio ma cosciente della propria creaturalità. Il peccato originale ha significato senza dubbio aver voluto affermare l’autonomia totale di sé pur sapendo di essere soltanto creature. Allora ecco la caduta e poi il rifidanzamento, di nuovo l’infedeltà e ancora il rifidanzamento... Ma è sempre da Dio che riparte l’offerta di alleanza, perché l’uomo dime-ntica facilmente qual è il suo vero bene. Disobbedendo, infatti, alla Parola di Dio, l’essere umano inaridisce e muore, mentre se vi aderisce trova la pienezza della vita (cf Sal 118).

Già nel Primo Testamento ubbidire a Dio o alla Legge e ai Profeti sono sinonimi: Dio parla attraverso mediatori umani i quali sono suoi portavoce, e gli esseri umani, obbedendo ad essi, vivono in comunione con Dio. Ma gli Israeliti, invece di ascoltare la Parola che li immette nella comunione d’amore con Dio, finiscono con l’aderire alle prescrizioni materiali della Legge per trovarvi una sicurezza psicologica. Cadono cioè in un’altra forma di idolatria: se col peccato idolatravano se stessi invece di amare Dio, nell’osservanza materiale delle prescrizioni della Legge lasciano cadere il rapporto d’amore con Dio e idolatrano la propria autosufficienza a salvarsi, dimenticando che la salvezza viene come dono da Dio a chi accetta di entrare in comunione d’amore con lui.

Nel Nuovo Testamento

All’inizio del Nuovo Testamento troviamo la figura di Maria. Il suo «fiat mihi secundum verbum tuum» non è più un fi-danzamento ma lo sposalizio di Dio con lei che personifica l’umanità obbediente alla Parola, alla volontà di Dio. In questa obbedienza radicale di Maria la Parola non resta solo Parola ascoltata, ma diventa Verbo incarnato e generato tra noi che diventiamo così suoi fratelli. Tutta la tradizione spirituale della Chiesa vedrà in questo avvenimento unico, del Verbo che diventa carne in Maria, il modello di ciò che succede nei singoli quando per amare Dio fanno la sua volontà: generano Cristo in se stessi.

La figura di Gesù: nell’obbedienza rivela il suo essere Figlio

Se Maria è la creatura totalmente aperta alla Parola, ossia alla volontà di Dio, Gesù è, in ogni attimo della sua esistenza umana, la volontà viva del Padre. Come nella Trinità il Verbo non si pronuncia da sé, ma è pura espressione di chi lo pronuncia, così Gesù, Verbo incarnato, non è che l’espressione del Padre. Von Balthasar, commentando le parole del Cristo: «Sono venuto dal cielo per fare non la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato», scrive: «Questa dichiarazione di Gesù su se stesso può essere considerata come il principio della sua esistenza... Il senso di questa incarnazione e di questa umanità di Cristo ci si presenta anzitutto come un “non fare”... la sua propria volontà. Questa negazione iniziale, sorprendente, è a servizio di un’affermazione più profonda...: il compiere la volontà del Padre». Per questo egli può dire con tutta verità: «Io e il Padre siamo una cosa sola».

Gesù sulla terra, come uomo, continua lo stesso rapporto col Padre che ha in Cielo come Verbo: lassù è Figlio e Persona unicamente perché è espressione del Padre; quaggiù è l’Uomo per il rapporto che ha col Padre, perché tutto riceve dal Padre e senza manipolazioni lo trasmette a noi. Se la volontà del Padre è il suo cibo, è perché la sua si identifica con quella del Padre, come unico è l’amore che li fa uno. La volontà del Padre, anche se viene dall’alto, non è qualcosa che viene dal di fuori, ma dal di dentro di Gesù stesso, per cui può dire: «Io sono». È massimamente persona, è massimamente libero, perché solo in questo rapporto d’amore trinitario obbedienza e libertà personale coincidono. Quando san Paolo dice che Gesù «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2, 7-8), non fa altro che elevare un inno alla perfetta libertà di Gesù, alla sua adesione non passiva bensì creativa, come uomo, al Padre nel quale è contenuto il suo disegno divino.

Inoltre, questa sua obbedienza fino alla morte per realizzare il proprio disegno, che è la volontà del Padre su di lui, lo costituisce Signore (Fil 2, 5-11), lo rende perfetto, capace di salvare a sua volta chi gli obbedisce, chi si conforma alla sua vita.

Nel rapporto d’amore Gesù-apostoli, obbedienza e libertà coincidono

La dinamica del rapporto Padre-Figlio si trasporta nel rapporto Cristo-apostoli: chi osserva la sua volontà, chi attua il suo comandamento, entra in rapporto d’amore con lui, è in lui come lui è nel Padre, così che anche gli apostoli vengono mandati per essere manifestazione di Gesù come i tralci sono espressione della vite, e i loro frutti non sono propri ma della vite. Ma ubbidire a Gesù è anche l’unica condizione per conoscere la verità e per diventare persone libere (Gv 8, 31-32), poiché non è un’obbedienza di schiavi, ma di figli e amici che hanno conosciuto l’amore del Padre e hanno fatto propria la volontà di lui e tutto ciò che il Padre vuole è proprio quello che vuole l’apostolo. Nel rapporto d’amore Gesù-apostoli obbedienza e libertà coincidono e anche gli apostoli diventano perfetti, capaci di trasmettere la salvezza a chi obbedisce alla loro parola.

I primi cristiani: a servizio gli uni degli altri per amore

Dopo la risurrezione di Gesù e la sua ascesa al cielo, questa dinamica trinitaria si trasporta nel rapporto apostoli-cristiani e nel rapporto reciproco tra i cristiani. C’è un continuo richiamo al «comandamento che abbiamo ricevuto», quello di amarsi l’un l’altro, di essere i primi ad onorare il fratello, di accettare l’ammonimento degli altri, di avere gli stessi sentimenti e gli stessi pensieri. Sono tutte espressioni che sottolineano la totale libertà, per chi ama, di sottomettersi, poiché chi ama è più grande. Mettersi a servizio di tutti, obbedire ai fratelli è la caratteristica del cristiano perché è stato il titolo di Gesù che si è fatto servo. San Paolo scrive: «Siete stati chiamati alla libertà..., ma per amore siate a servizio gli uni degli altri» (Gal 5, 13). I figli di Dio sono tali perché osservano il comandamento (e i comandamenti) per amore (cf Gv 14, 15; 1Gv 2, 5; 2Gv 6), avendo in se stessi «gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2, 5). San Tommaso commenta: «Ciò che rende l’obbedienza degna di lode è la carità che l’ispira... La carità è inseparabile dall’obbedienza, poiché essendo amore di amicizia realizza l’identità delle volontà» (S. Th. IIa IIae, q. 104).

L’olocausto della propria volontà non è dunque diminuzione del proprio essere, bensì comunione con Dio e con i fratelli, apertura al bene comune e ai piani di Dio sull’umanità. L’olocausto della propria volontà, anche nei confronti degli uomini, non è altro se non l’attuazione della legge evangelica del morire a se stessi per amore degli altri, per essere appunto pienamente se stessi. L’obbedienza, ossia la rinuncia a sé, rientra nel mistero di quell’amore trinitario che per essere vitale e fecondo deve passare attraverso la croce.

L’adesione ai disegni di Dio sull’umanità e sulla storia spiega anche il perché san Paolo raccomandi l’ubbidienza anche alle autorità familiari e civili di questo mondo: un’obbedienza che deve essere fatta con totale libertà interiore, perché il cristiano sa che tutta la storia e tutte le strutture create non possono che ubbidire, in definitiva, allo Spirito di Dio che, malgrado i limiti umani, le conduce. Quando Paolo parla di questa obbedienza, aggiunge sempre «obbedite... come al Signore» (Ef 6, 7). È infatti al Signore della storia che si obbedisce.

I Padri della Chiesa: i figli amano, sono i servi ad avere timore

L’obbedienza all’interno della Chiesa e delle comunità ecclesiali acquista la dimensione di servizio all’edificazione dell’unico corpo. Obbedire al vescovo è obbedire a chi è strumento di Dio per la salvezza, è obbedire a Dio stesso. Sant’Ignazio di Antiochia scrive: «So che i vostri santi presbiteri non hanno abusato dell’aspetto giovanile del vostro vescovo, ma come persone che hanno il senso di Dio, si sottomettono a lui, anzi, non a lui ma al Padre di Gesù Cristo che è il vescovo universale» (Ad Magn. 3, 1). E san Girolamo: «Sta’ sottomesso al vescovo e consideralo come il padre della tua anima. I figli amano; sono i servi ad avere timore» (Lett. 52, 7).

L’obbedienza dei cristiani si estende anche alle autorità civili, in quanto anch’esse sono chiamate ad esprimere la volontà divina nel loro campo specifico. Esiste evidentemente tutta una casistica tra l’obbligo di coscienza e l’obbligo di obbedienza alle autorità civili. Senza addentrarci in essa ricordiamo che i cristiani, sempre obbedientissimi alle leggi giuste dell’Impero, hanno preferito morire piuttosto che bruciare incenso agli idoli.

Le comunità monastiche: l’obbedienza al fondatore e alla regola è libertà donata dallo Spirito

Tutti i fondatori da san Pacomio a san Basilio, a sant’Agostino e a san Benedetto hanno voluto per i loro figli un’obbedienza che mette in evidenza sia l’unione con Dio che la fraternità e il servizio reciproco.

Per san Benedetto l’obbedienza è il cuore della vita comune. L’abate è per i monaci il rappresentante di Cristo, ma essi devono anche obbedirsi e farsi servi gli uni degli altri: «I fratelli si ubbidiscano a vi-cenda, sapendo che per questa via raggiungeranno Dio» (Regola, 71).

San Benedetto ha conosciuto in realtà monaci di tutti i tipi che vivono senza la regola dell’obbedienza: gli anacoreti e gli eremiti, autosufficienti; i sarabaiti che erigono a regola la lo­ro esperienza e i loro desideri; i monaci girovaghi che egli chiama vagabondi spirituali. È convinto che l’obbedienza è una necessità se si vuo­le che la ricerca di Dio non resti nel vago. Chi entra nel monastero rompe con una società esterna gerarchizzata secondo la ricchezza o la scienza, per entrare in una nuova società dove ognuno, chierico o laico, ignorante o istruito, deve onorare ogni essere umano perché in ciascuno c’è Cristo, siano essi i confratelli o gli ospiti che vengono accolti, ma in primo luogo l’abate o il maestro di spirito: «Accogli volentieri i consigli di un tenero padre e mettili effettivamente in pratica: così, grazie all’ascetica dell’obbedien­za, puoi far ritorno a Colui al quale avevi volta­to le spalle per la disobbedienza».

Anche per Benedetto, dunque, l’obbedienza non è schiavitù, bensì libertà, quella libertà data dallo Spirito Santo che passa attraverso il rapporto padre-figlio.

Ma anche nei monasteri, se viene a spegnersi questo rapporto padre-figlio che salva la libertà perché è il figlio che vuole interiorizzare la figura del padre che è la regola viva cui si conforma – e questo succede facilmente con la morte del fondatore – la vita di comunità tende a sclerotizzarsi: l’obbedienza allora diventa necessità organizzativa. Alla figura del padre col quale si ha un rapporto personale è facile che si sostituisca una Regola impersonale. Così quel rapporto trinitario, che all’inizio era lo stile di vita di tutta la comunità cristiana e che in seguito era sopravvissuto quasi esclusivamente nei cenobi (cf San Cassiano, Conferenze, III,15), piano piano va illanguidendosi anche in questi luoghi dove non viene più in evidenza il rapporto fraterno tra i monaci, dando inizio ad un tipo di spiritualità individualistica.

Già nel sec. XII San Bernardo di Chiaravalle, considerato il padre della mistica occidentale centrata su Cristo, dice che ci sono due modi di essere in rapporto con Dio: da servi e da figli. Servo è chi possiede la volontà propria poiché «ciascuno si fa una legge propria quando preferisce la propria volontà» ed è pertanto «sotto un giogo pesante e insopportabile che incurva le nostre teste, di modo che la vita nostra assomiglia al soggiorno dei morti... Ed è un decreto giusto ed eterno di Dio che chi rifiuta la legge soavissima di Dio si imponga per casti­go una legge propria, e chi spontaneamente ha rigettato il giogo soave e leggero della carità debba sopportare recalcitrando il peso insostenibile della propria volontà». Invece «la nostra gioia deriverà... dal vedere adempiere la volontà di Dio in noi ed a nostro riguardo» poiché allora «come una piccola goccia d’acqua infusa in una grande quantità di vino si disperde per prendere colore e sapore di vino; come il ferro infuocato e incandescente diventa somigliantissimo al fuoco perdendo la sua forma primitiva; come l’aria, quand’è inondata dalla luce del sole, viene trasformata nel medesimo splendore, nella medesima chiarezza tanto da non sembrare che sia illuminata ma che sia piuttosto luce essa stessa, così succede ai santi: venuto meno in loro ogni attaccamento umano, si trasformano nella volontà di Dio» (De diligendo Deo).

I Santi: attraverso i superiori e la regola conformare la propria volontà a quella di Dio

San Francesco cerca di riportare nel convento il senso genuino dell’obbedienza. Nella Prima Regola scrive: «Nessun frate faccia del male o dica del male ad un altro; anzi, per carità di spirito volentieri servano e si ubbidiscano vicendevolmente». L’obbedienza perfetta – dice nella Terza Ammonizione – è quella di chi «abbandona tutto quello che possiede e perde il suo corpo e la sua anima nelle mani del suo superiore... E anche se il suddito vede cose migliori e più utili all’anima sua di quelle che gli ordina il superiore, sacrifichi le cose proprie a Dio e cerchi di adempiere effettivamente quelle del superiore. Infatti questa è la vera e caritativa obbedienza che soddisfa Dio e il prossimo... Vi sono infatti molti religiosi che col pretesto di vedere cose migliori di quelle che ordinano i loro superiori, guardano indietro e ritornano al vomito della propria volontà. Questi sono degli omicidi...».

Come i primi francescani vivevano l’obbedienza ci viene raccontato da Tommaso da Celano nella Vita prima: «E realmente essi erano minori, sottomessi a tutti... E su questa base solida edificarono, splendida, la costruzione della carità... Com’era ardente l’amore fraterno dei nuovi discepoli di Cristo! Ogni volta che in qualche luogo o per strada si incontravano, era una vera esplosione del loro affetto spirituale, il solo amore che sopra ogni altro amore è fonte di vera carità fraterna. Ed erano casti abbracci, delicati sentimenti, santi baci, dolci colloqui, sorrisi modesti, aspetto lieto, occhio semplice..., piena unanimità nel loro ideale, pronto ossequio ed instancabile reciproco servizio».

Santa Chiara nella sua Regola rivolge alle monache queste esortazioni: «Le sorelle suddite ricordino che hanno rinunciato alla propria volontà per amore di Dio. Quindi sono fermamente tenute ad obbedire alle loro abbadesse in tutte le cose che hanno promesso al Signore di osservare... L’abbadessa, poi, usi verso di loro tale familiarità che possano parlarle e trattare con lei come lo fanno le padrone con la propria serva, poiché così dev’essere, che l’abbadessa sia la serva di tutte le sorelle» (cap. VIII).

Anche nella spiritualità di Francesco l’obbedienza non è che la piena libertà di amare, ma col passar del tempo, al significato trinitario del rapporto si va sostituendo un significato quasi esclusivamente ascetico. Per essere virtù l’obbedienza deve certamente essere animata dalla carità, ma tende ad aver valore quasi unicamente come rinuncia e spogliamento di sé perché ognuno possa unirsi a Dio. È vista più co­me una strada che conduce individualmente l’uomo alla perfezione che come trasposizione in terra delle relazioni personali esistenti all’in­terno della Trinità. Ciò non toglie che si sia sviluppata una mistica dell’obbedienza, vissuta da molti santi, in rapporto individuale con Dio a volte altissimo, ma più spesso arrestatosi a livello ascetico: l’ubbidienza viene vista come sacrificio-virtù per meritare la salvezza.

Santa Teresa d’Avila scrive: «Il demonio sa che il cammino più veloce per arrivare alla perfezione è quello dell’obbedienza... In realtà la più alta perfezione non consiste nè nelle gioie interiori, nè nelle grandi estasi, nè nelle visioni, nè nello spirito di profezia: consiste invece nel rendere la nostra volontà conforme a quella di Dio in modo da farci abbracciare con tutto il cuore quella che sappiamo essere la sua volontà...» (Fondazioni, c. 5).

Le fa eco san Giovanni della Croce che sinteticamente dichiara: «Questa divina comunione consiste in definitiva nel fatto che l’anima tiene la volontà propria completamente trasformata nella volontà di Dio, in modo che nulla ci sia in lei di contrario alla Sua Volontà, e che ogni suo movimento dipenda unicamente dalla sola volontà di Dio... Allora queste due volontà non sono che una, ossia la volontà di Dio, e la volontà di Dio è anche la volontà dell’anima» (Salita al Carmelo, c. 11).

San Vincenzo de’ Paoli vuole che le Figlie della carità dimentichino se stesse per «obbedire e preferire il comodo dei malati al loro». Per lui, come per san Camillo de Lellis, i malati sono i padroni da servire perché sono Gesù. Si ricorda la risposta di san Camillo a un cardinale: «Un momento solo, Eminenza! Finisco di curare il Signore Gesù Cristo e sono subito da lei». Per essi i malati sono lo scopo specifico delle loro fondazioni, e ad essi si deve obbedienza come ai propri superiori. Naturalmente all’interno della propria famiglia religiosa è il superiore che esprime la volontà di Dio.

Ai nostri giorni: una crisi e una riscoperta

Tutti conosciamo la crisi dell’obbedienza oggi, non solo nelle famiglie religiose, ma in ogni settore della società. Potremmo forse dire che l’obbedienza ha fatto un lungo percorso: dapprima si è staccata dal principio della fraternità comunitaria per essere praticata solo per motivi ascetici, quindi è stata semplicemente sopportata come condizione necessaria per la sopravvivenza di una struttura (Chiesa, ordine religioso, diocesi), e ai nostri giorni è stata considerata alienante, spersonalizzante. E tale essa è quando non la si vive nel suo valore di conformazione a Cristo obbediente per vivere con lui il mistero pasquale della morte-risurrezione, e – più ancora – come legge della vita stessa delle Persone nella Trinità. L’obbedienza perde di senso se non la si vede inscritta nel comandamento dell’amore scambievole, perché solo in esso trova significato pieno, perché lì coincide col suo modello divino, tanto che i santi hanno potuto dire: «obbedienza per obbedienza: se qualcuno obbedisce a Dio, Dio obbedisce a lui». È impossibile esprimere più realisticamente come la vera obbedienza, vissuta come amore, immetta automaticamente nel circuito della vita divina.

È pertanto nella vita comunitaria, se sussistono e perdurano queste condizioni, che si può attuare la più autentica realizzazione di sé, purché si viva il rinnegarsi, legge della croce, come dono di sé e non come atteggiamento masochista. Chi fa dono di se stesso per amore, e quindi per amore dona anche la propria libertà, si realizza non solo come persona spirituale, ma anche come persona totale, proprio come Gesù che, fattosi obbediente fino all’abbandono e alla morte in croce, ha raggiunto il punto in cui l’essere umano si è fatto Dio e Dio in lui si è fatto pienamente umano.

L’obbedienza nel pensiero di Chiara Lubich

A questo punto, per completezza storica, si dovrebbe innestare il concetto e la pratica dell’obbedienza portati oggigiorno da Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei focolari. Ma non basterebbe un solo volume. Diciamo solo che lei, fissando gli occhi nella Trinità, ha riportato fra gli uomini il rapporto esistente fra le divine Persone scoprendovi la legge della vita; ha visto nell’obbedienza di Gesù fino alla morte lo stesso rapporto del Verbo col Padre e ha delineato la tecnica dell’unità nel rapporto con ogni prossimo, riconducendo la pratica dell’obbedienza alle sorgenti stesse del cristianesimo; ha conciliato in ogni rapporto il principio d’autorità con quello della fratellanza, riportando l’obbedienza, così rinnovata, dall’interno dei conventi in mezzo al popolo cristiano. Credere all’amore di Dio, fare la sua volontà, attuare il comandamento nuovo, meritare la presenza di Gesù nella comunità, rivivere Gesù abbandonato, farsi uno, vivere Maria, vivere la Chiesa sono praticamente tutti sinonimi che contengono l’atteggiamento fondamentale del cristiano che vuole essere Gesù: morire per es­sere, obbedire per essere liberi, realizzare in terra la società del Cielo: «Sia fatta la tua volontà come in Cielo, così in terra».

Modello altissimo: la famiglia di Nazareth

Citiamo uno scritto inedito di Chiara Lubich del 1951 dove descrive i rapporti di reciproca obbedienza tra i componenti della famiglia di Nazareth, su cui cercano di modellarsi i membri del Movimento dei focolari.

«Nella famiglia di Nazareth Maria certamente comandava, però comandava ascoltando la voce dello Spirito Santo dentro di lei, che era in armonia col Figlio-Dio, che era di fronte a lei. Comandava quindi al suo bambino, ubbidendolo. D’altra parte Gesù bambino – il quale era la guida della famiglia di Nazareth, perché Dio – era anche soggetto a Maria e a Giuseppe, come dice la Scrittura. Giuseppe, da parte sua, capo della famiglia agli occhi esterni, perché padre putativo di Gesù, perché Gesù lo obbediva e perché Maria senz’altro l’avrà obbedito, era nello stesso tempo sottomesso a Dio e alla madre di Dio. Da tutto questo si vede che tutti e tre, da un punto di vista comandavano e tutti e tre, da un altro punto di vista, obbedivano».

L’estensione di questi rapporti all’interno di ogni gruppo umano (famiglia, società, comunità religiosa, Chiesa) rappresenta una summa di quello che dovrebbero essere i rapporti interumani nel pensiero di Gesù, il quale non ci ha rivelato altro che il disegno di Dio sull’umanità.

Il rapporto che chi deve avere col suo “superiore” è duplice. Esso «è simile – continua Chiara Lubich – al rapporto che ogni membro del Corpo mistico ha con Gesù. Gesù è fratello di ogni membro e, come tale, ama i membri fino alla morte e alla morte di croce. È tanto vero che è fratello che, per dire come è l’amore che passa fra i membri, dice che si amino come lui ha amato noi.

L’altro rapporto è quello di capo delle membra e quindi un rapporto di autorità. Coloro che obbediscono quindi amano, in chi esercita l’autorità, il fratello e il proprio capo. «Vi è quindi – dice Chiara Lubich – un rapporto fraterno, che è rapporto di carità, e un rapporto di obbedienza che si ha perché si considera il superiore, nei confronti dei sudditi, come capo di essi. È come avviene fra Gesù e il Padre: tra Gesù e il Padre i rapporti sono sovrapposti. Infatti Gesù amava il Padre, lo amava tanto da essere uno con lui. Egli dice di sé: “Chi vede me, vede il Padre”. Il Padre era in lui per l’amore. Infatti il Padre è uno col Verbo per lo Spirito Santo. Ma siccome considerava il Padre superiore – “Il Padre è dappiù di me” – egli lo amava, obbedendolo».

Il «porro unum» dell’obbedienza

«L’obbedienza – continua la Lubich – è quindi in Gesù l’espressione dell’amore verso il Padre. Come la povertà e il sacrificio e tutto ciò che vi è di bello e santo non ha valore se non nella carità, così l’obbedienza non vale nulla se non nella carità, anzi se non è carità. Anche i membri con Gesù loro capo debbono l’obbedienza come espressione d’amore. Infatti Gesù dice: “Chi mi ama osserva i miei comandi”; “Non chi dice Signore, Signore, ma chi fa la volontà del Padre mio”. Alla base si mette il rapporto di carità e solo su quel piano si stabilisce il rapporto di autorità. Così era in Gesù nei confronti col Padre.

L’obbedienza di Gesù per il Padre, essendo espressione del suo amore per il Padre, era profonda come questo amore, nel senso che portava con sé la morte di sé e morte anche di croce. Aveva quindi, verso il Padre, annientato il proprio modo di pensare, di volere, tutto se stesso.

In modo identico deve fare il suddito col superiore. Presentandosi al superiore deve essere completamente morto, per amore di Gesù, nel superiore. È questa morte totale di sé, questo distacco assoluto (che si ha allorchè vive nel suddito Gesù e cioè allorchè c’è l’amore in lui) il modo che ha il suddito di amare il superiore.

Il superiore poi per conto suo, facendo le veci del Padre, dona pure al suddito tutto se stesso come espressione di amore perché pure lui deve comandare nella carità e per la carità, ed in tal caso il comando e cioè l’esposizione della sua volontà onde il suddito l’adempia, è l’espressione d’amore del superiore verso il suddito.

In questo reciproco amore è veramente il rapporto fra Gesù ed il Padre. Infatti fra il suddito e il superiore si stabilisce Gesù in mezzo: Gesù che li fa uno. Succede che nel suddito è il superiore e nel superiore il suddito, proprio come in Gesù è il Padre e nel Padre Gesù».

Non obbedienza cieca, ma obbedienza illuminata

«Il suddito, insomma, obbedendo a un comando, che sente e vede evidente, si sentirà libero della libertà dei figli di Dio perché avverte di obbedire non a un uomo, bensì a Dio; ma si sente pure uguale a lui e figlio con lui d’un unico Padre. Il superiore sarà pure felice perché sentirà di non aver dato al suddito un comando che viene dalla propria volontà, ma da quella di Dio. Si sente perciò strumento di Dio e come tale uguale al suddito. Anzi, ammirerà nel suddito la virtù così grande d’averlo fatto uno con lui e quindi interprete della volontà di Dio su di lui...

In questa atmosfera di amore reciproco è comprensibile l’obbedienza che si deve – come atto d’amore – al superiore».

Dopo aver gettato uno sguardo sulla storia dell’obbedienza, è facile intuire come questa pagina di Chiara Lubich può portare un contributo alla soluzione delle antinomie filosofiche libertà-obbedienza e delle antinomie sociologiche individuo-società, ma soprattutto può illuminare la teologia e la prassi cristiana dell’obbedienza, riportandoci alle fonti genuine del cristianesimo.