I consigli evangelici

Per camminare verso la propria autenticità cristiana – che per tutti è la perfezione nella carità – urge riscoprire l’attualità dei «consigli evangelici» nella loro rilevanza non solo per i consacrati ma per ogni cristiano. Esigenza della carità, essi sono, secondo la lettura qui offerta, anche segno di vera libertà interiore.

Riscoprirne l’attualità

Non intendo fare una trattazione sistematica, ma solo esprimere alcune riflessioni che l’esperienza passata e presente di moltissime persone, religiose e laiche, suggeriscono.

È un fatto che per troppo tempo noi cristiani abbiamo considerato i consigli evangelici come privato appannaggio della vita religiosa consacrata. Si diceva: «Belli, i consigli evangelici, ma per i religiosi; per noi cristiani – o sacerdoti diocesani – che viviamo nel mondo, ci vuole un altro stile, un’altra spiritualità». Ora, i consigli evangelici non sono affatto una pia pratica o una invenzione ascetica riservata a qualcuno, bensì punti di passaggio obbligatori e vitali per autenticare con la vita l’invito ad essere, come cristiani, seguaci di Gesù.

Per Gesù non è mai stata una questione teoretica questa. Diceva: «Chi vuol venire dietro a me e non lascia padre, madre, fratelli, sorelle, moglie, figli, campi...; chi non rinunzia a se stesso, alla propria vita, non può essere mio discepolo». Parlava così a chi pensava di seguirlo; parlava così a chi vuol essere cristiano. È la condizione base che pone per iniziare l’avventura della sua sequela. Se vogliamo essere veri discepoli di Gesù, non possiamo percorrere un cammino che ignori i consigli evangelici.

L’equivoco e, per molti, il rifiuto istintivo dei consigli evangelici si spiegano probabilmente col fatto che a un certo momento si è trovato un comodo alibi quando si è visto che la Chiesa richiedeva a chi entrava in determinate strutture (tipo gli ordini religiosi) un impegno specifico nel vivere i consigli. Se ne è concluso che erano un affare riservato a loro, quando non si è arrivati a vedere in essi uno strumento di potere che la Chiesa usava per garantirsi la fedeltà dei suoi figli.

In realtà i consigli evangelici sono un’intima esigenza della carità. Questa è l’esperienza che hanno fatto ad esempio, con Chiara Lubich, i primi focolarini e le prime focolarine. Non è che loro puntassero sulla povertà o sulla castità. Il loro ideale, il loro programma di vita era la carità, Dio-Amore; ma avendo conosciuto Dio-Amore e cercando di vivere nell’amore si erano trovati a vivere lo spirito e la lettera della povertà, della castità e dell’obbedienza.

Libertà dalle cose: la povertà

I tre consigli evangelici sono distinti, quanto al loro oggetto, ma c’è da chiedersi se essere poveri nel senso evangelico non significhi essere anche casti e obbedienti. Se cioè la povertà evangelica – l’altissima povertà di cui parla san Francesco – non contenga implicitamente la castità e l’obbedienza.

La povertà infatti è un concetto molto più ampio di quello che pensiamo usualmente. Quando, parlando di povertà, si fa riferimento ai soli beni materiali, si ha una visione ancora rudimentale della vita cristiana. Forse, in questo senso, sbagliano alcune comunità di base di stampo europeo che, volendo rendere credibile la Chiesa, dicono: «Noi rendiamo credibile la Chiesa se viviamo la povertà». Ma se questa povertà non implica anche un’altissima povertà riguardo alle persone e a se stessi, non è testimonianza cristiana. Potrebbe darsi che sia pura filantropia, o altro sentimento umano: potrebbe darsi che sotto sotto esprima quella forma di autocompiacente condiscendenza o di paternalismo che tanto critichiamo sotto altre forme. Dare i beni ai poveri può essere relativamente facile.

Libertà dalle persone: la castità

Se uno dicesse, d’altra parte, che castità e celibato rendono credibile la Chiesa ridurrebbe il concetto di castità. Perché la castità evangelica contiene la povertà e l’amore verso ogni prossimo: significa «non possedere» diritti sul proprio corpo e su quello di altri, ma «per» un amore più grande. Mi ha sempre colpito una meditazione di Chiara Lubich in cui si parla della castità di Dio con un concetto così semplice, intuitivo, che davvero sbalordisce. Perché Dio è casto? Perché è semplice. È la semplicità la castità, è il non possedere. Perché chi possiede è complicato. Per questo Chiara dice che la castità non è restringere il cuore, ma dilatarlo sulla misura del cuore di Gesù, per amare tutti; essere libero interiormente da legami per avere la libertà di amare ogni prossimo che mi passa accanto, attimo per attimo. E se in cuore resta un rimasuglio di affetto per il prossimo amato un minuto prima, vuol dire che il prossimo non si è amato per Gesù ma per se stesso, cioè ancora in modo egoistico. Questa è la castità che dobbiamo imitare, che è libertà da qualunque condizionamento che ci viene dalle creature, come la povertà e la libertà da qualunque condizionamento che ci viene dai beni terreni. Ma la castità, senza la povertà di sé sarebbe una virtù legalistica e monca, e priva dell’amore diverrebbe puro egoismo. Si sa che la non-castità impedisce l’unione piena con Dio, così come succede per l’attaccamento ai beni materiali. C’è in proposito una testimonianza esplicita di Teresa d’Avila. Nella sua autobiografia sta scritto che quando riceveva un regalo dai genitori e lo teneva per sé, senza metterlo in comune, non riusciva più a pregare, sentiva che il possedere le ostacolava l’unione con Dio.

Libertà da se stessi: l’obbedienza

L’obbedienza è povertà di se stessi. Si dice che è la cosa più difficile, perché è ancora facile rinunciare a qualcosa o a qualcuno che sono sempre «fuori» di me, ma rinunciare a se stessi sembra arduo. Forse è perché non abbiamo capito quanto sia necessaria e costruttiva questa rinuncia: perché i condizionamenti più forti alla nostra libertà ci vengono proprio dall’attaccamento a noi stessi. Perché siamo portati, in quanto creature, ad affermare noi stessi nei confronti degli altri, mentre la legge della vita è proprio negarsi per affermare l’altro.

Di questo dovremmo essere ben convinti. L’obbedienza ha valore in quanto esprime una realtà ontologica che è condizione della vita umana, psicologica e spirituale. È vero dal punto di vista psicologico perché è fatto acquisito che ogni realtà interiore tenuta gelosamente per sé diventa veleno per l’anima, e che ogni chiusura di sé diventa vera autodistruzione. In verità, esiste vita psichica là dove c’è donazione, comunione, apertura sull’altro, tanto che la maturità umana viene a coincidere con la totale apertura agli altri: non vivere più per sé, ma per gli altri. Dal punto di vista spirituale è precisamente la stessa cosa. Gesù ce l’ha detto in tutti i toni. È una verità ontologica. Non esiste vita spirituale senza comunione con Dio e col prossimo.

Cos’è in definitiva l’obbedienza? È totale carità. Quando sei totalmente amore, non puoi non essere totalmente obbediente, perché non fai più la tua volontà, ma quella dell’altro, non scegli più la tua iniziativa personale ma cerchi di promuovere l’iniziativa dell’altro. E se per caso l’altro prossimo che ti sta accanto o che vive con te fa la stessa cosa nei tuoi confronti, in questo scambio di amore c’è l’Amore. Allora non è più la tua iniziativa o l’iniziativa dell’altro, la tua volontà o la volontà dell’altro che vengono in evidenza, ma la volontà di Dio. Cioè noi siamo come Cristo.

Per essere come Gesù

Infatti, nel Vangelo di Giovanni si trovano molto spesso queste parole di Gesù: «Quello che io vi dico non viene da me ma dal Padre..., le opere che io faccio non sono mie ma del Padre...». Gesù sembra rinunciare ad ogni autonomia nei confronti del Padre; perde ogni autonomia, ma è Gesù, quella persona umano-divina, incarnata nella storia, apparentemente condizionata dalla cultura e dalle strutture del tempo, ma in realtà totalmente libera, tanto da essere capace di offrire la propria vita e morire “per” l’umanità. E nessuno ha amore più grande, cioè nessuno è così vicino alla perfezione di Dio, come chi dà la vita per gli altri. Ora, il dar la vita implica il distacco da se stessi e dalle persone, rinunciare ai propri beni e alle proprie idee, alla propria cultura, alla propria formazione spirituale, alle proprie iniziative. Cioè vivere i consigli evangelici.

Questo del resto è il pensiero di san Paolo quando dice di farsi tutto a tutti e quando esorta ad obbedirsi gli uni gli altri. E questo lo dice ai semplici cristiani. Ma cos’è allora l’obbedienza se non povertà: non essere, e non avere? Che cos’è l’obbedienza se non castità, cioè l’essere semplici, privi di attaccamenti a se stessi e agli altri e alle cose?

Per questo il Vangelo non fa una piega. Il Vangelo è logico in se stesso, perché è la rivelazione di Dio, è la rivelazione della Trinità. Rivelandoci la vita trinitaria Gesù ci spiega come si fa a diventare come Dio: amore. Per essere amore occorre essere liberi, e viceversa. E non c’è libertà senza distacco da ogni sorta di condizionamenti. La formulazione può essere espressa con le parole: «Chi non rinuncia al padre... ai beni... a se stesso» non esprime che la strada obbligata da percorrere per essere “come Dio”.

Questa è in fondo la chiamata cristiana, troppo ardua magari per qualcuno, certo difficile per chi vi si avventura da solo. Ma chi ci ha provato può dire con certezza di avere, tra l’altro, già ricevuto «cento fratelli, sorelle e madri...». Ritorna anche a proposito dei consigli evangelici la stessa logica del Vangelo: date e vi sarà dato.