Un centro di formazione alla spiritualità di comunione

Nel 1966, tempo dell’immediato post-Concilio, Chiara Lubich e d. Pasquale Foresi danno vita, a Grottaferrata, a un Centro per offrire ai sacerdoti e seminaristi diocesani la spiritualità di comunione fiorita nell’ambito del Movimento dei focolari. D. Silvano Cola ne è il primo responsabile che, in stretta unità con Chiara, ne concretizza la realizzazione lungo i decenni. In questo articolo descrive il dinamismo e l’esperienza di questa scuola di comunione che nel frattempo si è moltiplicata anche in altri Continenti. (da gens 3-4/1992, pp. 71-75).

Come a Nazareth

I focolarini erano laici erano professionisti o operai. Vivevano insieme e due volte al giorno, tornando a casa dal lavoro, si preparavano i pasti. Nessuna persona di servizio: la piccola comunità era completamente autosufficiente, cosa che permetteva una vita autentica di famiglia dove ogni azione, ogni parola era motivata dall’amore. Seppi più tardi che la fondatrice, C. Lubich, aveva visto il modello di questo tipo di convivenza nella casa di Nazareth, dove vivevano «tre cuori di carne vestiti di verginità». Anche solo l’idea era affascinante, ma tu vedevi che era così. Guadagnavano tanti soldi col proprio lavoro ma vivevano con lo stretto necessario, giorno per giorno, perché il superfluo era un capitale di Dio che andava distribuito ai fratelli poveri: agli «imprevisti» doveva pensare la Provvidenza, e succedeva veramente. Ma questa comunione di beni materiali, era soltanto un segno esteriore di quella comunione di beni spirituali che permetteva loro di vivere la vera povertà interiore che è anche castità e obbedienza.

Per la prima volta capivo la logica di Gesù che non ha dato una serie di precetti, ma solo quello dell’amore scambievole. In un’anima libera, perché spossessata di ogni cosa, non c’è più ostacolo alla comunione personale: è la povertà che ha come corrispettivo il Regno dei Cieli (Mt 5, 3). E si sperimentava effettivamente. Lì scompariva ogni nostalgia, ogni desiderio di altre cose; fuori del focolare avevi nostalgia del focolare, forse come l’uomo Gesù doveva aver nostalgia della Trinità.

Accostando i focolarini si poteva capire e valutare l’abissale differenza tra i “predicatori” e i testimoni. Il nostro linguaggio “apostolico” era per lo più astratto, si riferiva sempre ad altri, non poteva essere perciò che dogmatico e moralistico. C’è differenza tra il solo parlare del Vangelo e il fare l’esperienza del Vangelo. Se tu il Vangelo lo vivi puoi dire con tutta tranquillità: oggi ho cercato di vivere questa Parola di Gesù ed è successo questo e questo; con un duplice risultato, che incarnando la Parola ti trasformi in Gesù, e che comunicandola incarnata diventa “comunione”col prossimo, comunione del tuo io più vero che, donato, non diventa tua ricchezza o prerogativa gelosa, bensì libertà interiore che ti rende capace di farti ogni momento tutto a tutti lasciando nel contempo “liberi” gli altri.

L’apostolato lo si vedeva come testimonianza di vita: prima essere e poi, quando è il caso, parlare. E veniva in evidenza la verità dell’affermazione di Gesù: «da questo conosceranno che siete miei discepoli, se vi amate gli uni gli altri». In realtà la vita basta da sola a farsi propaganda. Lo si vedeva nelle riunioni, nelle Mariapoli dove la vita, non ideologizzata, attirava buoni e meno buoni, non cattolici e non cristiani e persino chi si professava ateo. Lo si vedeva nei focolari dove tanti andavano a riscaldarsi a quel fuoco spirituale che sprizzava da persone che si consumavano in uno come legni incrociati.

E lì trovavi Maria, perché il loro servizio silenzioso ti metteva a contatto con Dio, e quando parlavano ti davano Dio donandoti il frutto della Parola vissuta, ossia le esperienze individuali e comunitarie che facevano vivendo giorno per giorno una frase del Vangelo. Trovavi delle persone di cui si poteva effettivamente dire che «vivevano in cielo»: vestra conversatio in coelis est (Fil 3, 20).

Gesù in mezzo, il formatore

Poi capivi che sotto sotto c’era molto di più: che la sostanza della loro vita spirituale era “avere il Santo in mezzo a loro” per la promessa di Gesù del “dove due o più” di Mt 18, 20; e che questo comportava un’ascetica allo stesso tempo individuale e collettiva, perché per vivere quella realtà dovevi continuamente «passare dalla morte alla vita amando il fratello» che ti stava accanto (cf Gv 3, 14), e che questo implicava per te quello spogliamento interiore ed esteriore che ha il suo esemplare tipico in Gesù che si spoglia di tutto per farsi “uno” con noi e divinizzarci. E ti veniva allora da dire: ma qui c’è un abisso di dottrina teologica, ascetica e mistica; qui non solo pregano, qui vivono la Trinità! E in realtà capivi che il problema della “formazione” (in quella specie di “seminario” che era il focolare) era molto semplice: si viveva per avere Gesù in mezzo in quella piccola comunità, e il formatore era Gesù in mezzo e il fine della formazione era costruire persone che sapessero vivere 24 ore su 24 nell’amore reciproco, ossia costruire delle piccole cellule di vita trinitaria sulla terra (piccole icone del Regno di Dio). Con quella esperienza di vita alla base, si capiva come mai anche all’esterno creassero comunione.

E un’altra scoperta ancora facevi: che non si parte dai libri per arrivare ad essere formati, ché anzi i focolarini passano tutti per la fase cosiddetta del «mettere i libri in soffitta» per non conoscere altro che «Cristo e Cristo crocifisso» che è però la Sapienza di Dio. I libri, per essi, non erano che uno strumento che serve all’amore di Dio e del prossimo, ad avere un sano apprezzamento dei valori culturali che sono anch’essi espressione della presenza del Verbo nella Storia.

Non gruppo ma comunione

A me, per quel po’ di psicologia che avevo studiato e insegnato, colpiva in particolare un aspetto nuovo della loro vita: vivevano assieme in piccoli gruppi, ma la psicologia del gruppo non si adattava troppo a loro. Lì appariva evidente che tra vita di gruppo e comunità di persone la differenza è abissale. Si sa che un gruppo psicologico è formato da individui che si associano in vista di finalità particolari (gruppo sportivo, sindacale, assistenziale...) e che perciò interagiscono limitatamente agli interessi comuni che vogliono perseguire, così che per tutto il resto ognuno rimane chiuso in se stesso, nella propria privacy.

In altre parole, nel gruppo non esiste una comunione totale tra persone, quella che può essere espressa dalla legge della socialità trinitaria vivibile sulla terra: «Siate una cosa sola...», quella legge sociologica, dunque, che Gesù aveva insegnato a vivere agli apostoli, i quali avevano la cassa comune, l’anima in comune perché Gesù li faceva parlare e li incitava a comunicare i loro pensieri che così potevano venir confermati, disconfermati, discussi... Sembra proprio che l’unico “chiuso alla comunione” sia stato l’Iscariota: nessuno conosceva i suoi pensieri, le sue ansie e le sue trame.

In termini di vita spirituale la “comunione tra persone” non ne cambia la dinamica psicologica ma, grazie allo Spirito Santo presente in esse, si produce in ciascuna una disposizione stabile che san Basilio chiama hexis dalla quale dipendono sia i pensieri nel loro nascere, sia le parole che si pronunciano, sia gli atteggiamenti esteriori presi dall’insieme della persona.

E san Basilio dice che simili pensieri, parole e atteggiamenti, quando vengono condivisi con gli altri credenti realizzano fra essi una comunione spirituale (koinonia pneumatiké) della quale possono sperimentare i benefici soltanto coloro che vivono da vere membra del Corpo di Cristo. Grazie a questa comunione, infatti, si stabilisce tra esse una “singolare identità”: con una passione che solo lo Spirito sa donare, ciascuno partecipa alle sofferenze e alle gioie che scandiscono la vita dei fratelli come se fosse lei al posto loro1.

In questa descrizione, che Basilio fa, degli effetti che produce la vera comunione, ho visto confermata la radicale diversità che esiste tra gruppo e comunità, ma soprattutto che la «comunione» di cui si parlava e che avevo scoperto tra i focolarini non era soltanto un essere uniti nella fede e misteriosamente inseriti (per il battesimo) nel Corpo di Cristo, ma era vivere con Lui, concretamente, la vita trinitaria in qualsiasi espressione della vita quotidiana, così che effettivamente si poteva dire di vivere una spiritualità “collettiva”.

Scuola come tirocinio alla vita di comunione

È anche vero, del resto, che spiegare questo tipo di comunione è difficile se non se ne fa l’esperienza. E tanti di noi sacerdoti, frequentando i focolari, l’abbiamo fatta. Ora, questa è precisamente la “scuola” indispensabile da fare, come lo è stata per gli apostoli con Gesù: si tratta di un effettivo cambiamento o spostamento di idee e di valori e quindi di comportamento che tocca anche le fibre più nascoste della persona, in quanto devi capovolgere letteralmente i punti di riferimento: l’ante omnia mutuam et continuam charitatem (1Pt 4, 8) diventa la priorità assoluta poiché, se manca, nulla ha valore. È evidente pertanto che la “formazione” deve essere adeguata a questa antichissima e nuovissima spiritualità comunitaria.

E siamo convinti che non è una moda, bensì una riscoperta del vivere cristiano oggi più che mai necessario nella cultura in cui viviamo.

Il Movimento dei focolari, con la sua spiritualità dell’unità che appunto lo anima, è nato prima del Concilio Vaticano II e in pochi anni si è diffuso in buona parte del mondo2. Molti sacerdoti ne erano venuti a contatto e si esercitavano a viverne la spiritualità; e quando i Padri conciliari emanarono i loro Decreti, soprattutto il Presbyterorum Ordinis e l’Optatam Totius, noi esultammo di gioia scoprendovi le stesse istanze alla vita di comunione tra sacerdoti e tra sacerdoti e laici che noi stavamo già praticando.

Nel 1964, data l’abbondanza delle vocazioni laiche alla vita consacrata nei focolari, la fondatrice del Movimento, Chiara Lubich, fondò a Loppiano, presso Firenze, una Scuola che servisse per così dire da noviziato ove apprendere la tecnica del vivere in unità, esperienza effettivamente affascinante perché faceva riscoprire la vita del Vangelo come la più straordinaria avventura dell’uomo che non ha paragoni con altri ideali umani.

Così nacque la «Scuola sacerdotale»

Fu nel ’66 che Chiara mi disse: «Perché non mettiamo su anche una scuola per i sacerdoti e i seminaristi? Dovrà essere una scuola più breve, forse di un anno, forse di sei mesi...». E mi ripeteva l’idea che già si stava concretizzando a Loppiano: «Noi sentiamo la vocazione di dare Dio al mondo attraverso una città posta sul monte, una città che lo testimoni e lo doni, una città che vuole essere vita, essenzialmente vita, solamente vita: vita di carità, quindi Vangelo; carità reciproca, con Gesù in mezzo a noi...». E mi riferiva che lo stesso cardinale Florit, allora arcivescovo di Firenze, le aveva detto, dopo aver visitato Loppiano: «Ci vorrebbe una Loppiano anche per formare i sacerdoti!».

Lanciata l’idea 1’11 settembre, il 24 ottobre si inaugurava la Scuola nella Villa Maria Assunta di Grottaferrata che una nipote di Pio XII, la contessa Pacelli, aveva affittato al Movimento. “Miracolo”: contro ogni previsione umana otto sacerdoti e tre seminaristi, di sei nazionalità e di tre continenti diversi iniziano quest’avventura col permesso dei loro vescovi. Ai quali occorreva un buon coraggio e una buona dose di discernimento, in quegli anni dell’immediato postconcilio, quando tutti stavano ad osservare cosa sarebbe successo di una Chiesa così aperta, tra l’altro, ai laici.

L’unica a non essere preoccupata era proprio Chiara. I vescovi che avevano conosciuto lei e i focolarini erano tutti più che favorevoli e usavano espressioni che quasi non osavamo ripetere. Come queste: «L’Opera di Maria è proprio quello che ci vuole nell’era postconciliare, e quindi anche per i sacerdoti postconciliari»; «È lo spirito che ci vuole oggi. Si parla tanto in questo tempo della Chiesa come comunità: ebbene, lo spirito dell’Opera di Maria sta penetrando in tutta la Chiesa come fermento di unità»; «L’Opera di Maria è in primissimo piano nello svolgere una formazione provvidenziale in seno al laicato e in funzione del rinnovamento di tutta la Chiesa»; «L’Opera di Maria è un bozzetto di ciò che il Concilio deve attuare»...

Per altri vescovi il pensiero dominante erano i sacerdoti, e si rivolgevano a Chiara: «I sacerdoti hanno enorme bisogno di spiritualità, e la vostra è una spiritualità che rinnova la vita e il ministero sacerdotale». Tutte affermazioni, queste, che sarebbero state poi confermate autorevolmente da Giovanni Paolo II nella visita che fece al Centro del Movimento nell’agosto del 1984: «... Voi non siete un movimento, voi avete la fisionomia della Chiesa del postconcilio... La scintilla ispiratrice del Movimento, infatti, è la carità».

La magna charta

Chiara espose, come in una magna charta, le finalità della Scuola sacerdotale:

«Se i sacerdoti sapranno posporre tutto, anche il sacerdozio, per assicurarsi la presenza di Gesù fra loro vivendo come bambini il Regno di Dio, sarà inevitabile che Gesù faccia venir fuori una pastorale nuova, dei seminari nuovi... E se ci sarà anche l’unità con la parte laica del Movimento, si darà origine a quello che ho chiamato “città-Chiesa” o “società-Chiesa” che farà vedere al mondo come esso sarebbe se fosse tutto clarificato da Gesù, dal suo Vangelo.

Stiamo mettendo qui la prima pietra di una realtà che sboccia dopo il Concilio, ma che ha le sue radici prima del Concilio, perché le ha in Dio che ha suscitato quest’Opera. Potremo offrire al mondo sacerdoti che saranno “nuovi”, perché vivono il Comandamento nuovo che trasforma tutti gli aspetti della vita».

Un po’ di cronistoria

A questo punto non c’è che da registrare un po’ dell’esperienza di questi 25 anni di vita della Scuola sacerdotale.

Bisogna dire che la voce che si andava diffondendo ovunque, che alla “Scuola sacerdotale” si lavorava manualmente mezza giornata non soltanto per essere autosufficienti ma per “imparare” a svolgere qualsiasi servizio amando; il fatto che anche monsignori o docenti universitari o vicari generali o superiori di seminario fossero addetti alla cucina, alla pulizia delle toilettes, alla lavanderia o ad altri lavori più tecnici per scoprirvi la gioia del lavorare per Gesù presente nei fratelli; che gli stessi andassero al mercato a fare la spesa scoprendo la gioia di poter amare nella quotidianità il panettiere e il salumiere e il verduraio; sapere di dover dormire in camere a più letti dopo essere stati abituati per anni alla camera singola; dover ascoltare, quando si era abituati a parlare; comunicare come si era vissuta la Parola di vita durante la giornata davanti a giovani seminaristi... ebbene, poteva far prevedere un calo netto delle frequenze, e invece si verificò proprio l’opposto: la casa fu troppo piccola e si dovette affittarne un’altra. Nel ’71 eravamo arrivati a un centinaio di presenze per cui occorreva trovare ancora una soluzione. Tecnicamente non è il numero grande che fa difficoltà, se c’è la possibilità di far vita di famiglia in piccoli «focolari» dove la comunione possa essere concreta e costante. E la Provvidenza ci venne incontro quando nel ’72 la Curia generalizia dei Cappuccini ci mise a disposizione il convento «cardinale Massaia» di Frascati. Un lavoro da matti per ristrutturarlo, ma le mani non mancavano e i calli che si formavano erano la testimonianza che, se si ama, tutto è sacro.

Chi non ricorda in quegli anni la figura di d. Anton Weber, detto Toni, medaglia d’oro per la teologia all’Università Gregoriana, inserito nel Movimento fin da studente e inviato, subito dopo la laurea, in Brasile a lavorare per i sacerdoti, ed ora responsabile di questa Scuola?3

Ma Chiara aveva sognato una “città”, e quella che era nata a Loppiano lo era, costellata di casette-focolare, di famiglie-focolare, di aziendine, di ateliers e, naturalmente, di scuole. Mancavano solo i preti e i frati. Ed ecco, puntuale, la Provvidenza: ancora i figli di san Francesco, sempre loro, i Minori questa volta, ad offrici ai piedi di Loppiano un altro convento. Ci spostammo dunque là, a Incisa Valdarno, nel luglio dell’84. A Toni Weber – che viene inviato ad iniziare la stessa Scuola a Tagaytay, nelle Filippine, su richiesta rivolta a Chiara dalla Conferenza episcopale filippina a servizio di tutto l’Estremo Oriente e dell’Oceania – succede d. Giuseppe Aruanno, che fin dall’inizio della Scuola a Grottaferrata ne è sempre stato corresponsabile.

Altro lavoro, altri calli, altre piroette spirituali, linguistiche, culturali, temperamentali... Ma sì, tutti concludono, il mondo unito è possibile perché in questa città lo si vede: è una città di vivi dove tutti vogliono amare, dove tutti sono a servizio degli altri, dove si mettono le basi per portare nel mondo la civiltà dell’amore: perché lì ti accorgi che effettivamente l’unico formatore è Gesù.

 

 

 

 

1)         Cf  S. Basilio, De Spiritu Sancto, 26, 61; 24, 57; 26, 62, cit. da G. Bentivegna, L’effusion de l’Esprit Saint chez les Pères grecs, in «Nouvelle Revue Theologique», 113/5, 1991.

2)         Cf C. Lubich, L’avventura dell’unità, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1991.

3)         S. Cola - E. Cambón, L’ansia di Toni Weber. Far casa ai sacerdoti, Città Nuova, Roma 1994.