Rilevanza formativa di una spiritualità di comunione

Nel «vivere per», nell’«integrarsi con» fino alla comunione, ossia alla reciprocità dell’amore, c’è tutta l’ascetica cristiana, la più alta forma di personalizzazione, perché vuol dire vivere la vita ad immagine della Trinità. Per una formazione globale della persona non bastano, quindi, né gli studi né l’ascetica tradizionale né la vita di gruppo. Occorre una vera vita comunitaria che, trascendendo ogni finalità estrinseca e particolare, trovi la sua misura nel comandamento nuovo dell’amore reciproco. Con queste riflessioni l’autore a distanza di anni riprende e sviluppa le intuizioni dello scritto «Il seminario: gruppo o comunità?». (da gen’s 4-5/1989, pp. 110-115).

Esigenze di una formazione globale

Farò alcune considerazioni di carattere – per così dire – interdisciplinare perché se per spiritualità intendiamo un modo di attuare il Vangelo di Gesù, se per comunità intendiamo quel particolare rapporto di comunione nella carità che è possibile grazie allo Spirito Santo, per la realtà dell’incarnazione non possiamo disgiungere questi elementi tipici del cristianesimo dal fatto di viverli tra noi, soggetti come siamo alle leggi della psicologia individuale e del comportamento sociale.

Premetto che tutto quanto dirò è stato illuminato dalla spiritualità dell’unità e dall’esperienza di vita comunitaria vissuta per anni nel Movimento dei focolari.

Originalità della comunità cristiana

In uno scritto pubblicato anni fa, intitolato «Natura e fine della prima comunità cristiana» (appendice al volume di G. Aruanno - P. Rogliardi, Parrocchie Nuove, Città Nuo-va, Roma 1972), ho cercato di analizzare quel nuovo tipo di socialità che si è evidenziato all’interno della società ebraica e che si è caratterizzato come modello culturale così diverso da quelli esistenti da costituire una autentica rivoluzione storico-sociale di fronte alla quale non si poteva restare neutrali, perché oltre a idee nuove e a una “fede” comune si portavano nella società esistente un nuovo sistema di valutazione delle realtà e nuove linee di condotta. La differenza di queste comunità particolari, chiamate Chiese, dalla società generale ebraico-greco-romana, derivava essenzialmente dal fatto che i rapporti tra le persone non erano dettati dal sangue, né da in­teressi culturali, né da altre finalità estrinseche, bensì dalla reciprocità della charitas per cui l’«altro» è presente ad ogni soggetto come un altro soggetto trascendente che esclude perciò ogni forma di oggettificazione o di strumentalità.  È la trascendenza dell’altro, del prossimo, in quanto persona che permette al singolo una forma di interazione (rapporto o scambio significativo tra due o più persone) di tipo trini­tario dove ognuno «è» nel farsi relazione d’amore, ossia: non affermando se stesso negando in qualche modo inevitabilmente l’altro, bensì affermando l’altro negando in qualche modo inevitabilmente se stesso. Non è però che l’io si spegne di fronte all’altro, né che si lascia risucchiare dall’altro.  È proprio l’opposto: nel mio atto di affermazione dell’altro come trascendente pongo e confermo me stesso come soggetto distinto e trascendente, ossia non come individuo autistico, chiuso in me stesso.

La legge della socialità e della personalizzazione

La rilevanza psicologica di questo dinamismo è evidente. Prendendo come esempio la dimensione massima di questo rapporto, io sono massimamente persona nel momento in cui liberamente e coscientemente affermo l’altro anche a costo della vita; dinamismo che Gesù esprime con queste parole: «nessuno ha amore più grande di colui che dà la vita» per gli altri. In altri termini: nessuno è così io, così persona, come colui che per salvare la trascendenza dell’altro trascende se stesso negandosi (vedi Gesù, Padre Kolbe).

Questa, che è la legge della socialità divina come ci è stata rivelata e vissuta da Gesù, è – e non potrebbe non esserlo – la stessa legge della socialità umana e di ogni forma di vita. Gesù stesso ci ha aiutato a capirla: il chicco di grano non è se stesso se non diventando spiga, ma diventa spiga solo passando per una specie di morte; dice ancora: «chi pensa soltanto a salvare la propria vita, la perderà, chi è pronto a sacrificarla... la salva» (Mc 8, 35) oppure: «chi ama la propria vita la perderà; chi è pronto a perdere la propria vita... la conserverà per la vi­ta eterna» (Gv 12, 25). Espressioni che hanno un valore sia psicologico che spirituale, perché nel processo di maturazione personale non si raggiunge un nuovo stadio senza un distacco e una rinuncia allo stadio precedente (lo svezzamento per il bambino è un passaggio che implica sofferenza, ma per trovarsi più maturo; l’accettazione del fratellino implica un passaggio sofferente da una posizione di centralità egoistica a uno stadio di socializzazione e quindi di relativizzazione di sé per integrarsi negli altri e così umanizzarsi, ecc.). Si sa che ogni “passaggio” da un modo di essere imperfetto a un altro più perfetto è necessità vitale ad ogni livello e non avviene senza sofferenza e angoscia. In ogni religione questo passaggio viene simbolizzato dai concetti di “rinascita” e di “ascesi” (dalla morte alla vita) che tradotti sul piano storico-esistenziale sono per ogni individuo la continua dialettica tra rinuncia e progresso e, per la persona, tra chiusura individuale e integrazione sociale. Questo è tanto vero che ogni nevrosi non nasce di fatto che dal rifiuto di accettare la sofferenza del passaggio per fissarsi nella situazione già conosciuta nella quale ci si trova e che viene assolutizzata. Personalizzarsi vuol dire invece superare la propria individualità aprendosi agli altri, integrandosi con gli altri, non vedendo negli altri dei soggetti che possono spersonalizzarmi, ma entrando invece in co­munione con essi per un reciproco scambio. Quando si rifiuta la comunione per salvare il proprio “io” dalla paura di venire oggettivati, risucchiati dagli altri, psichicamente si è già morti, poiché si rinuncia a un rapporto creativo e di reciproco arricchimento per stabilirsi in una situazione irreale: trovare la propria sicurezza psicologica nell’isolamento.

L’«altro» necessario all’io

Si può considerare ancora la validità psicologica delle parole del Vangelo citate sotto un altro punto di vista. Nessuno riesce ad avere il senso della propria identità se non ci sono altri che lo riconoscano. Martin Buber scriveva che gli esseri umani hanno bisogno di confermarsi l’un l’altro nel loro essere individuale mediante incontri e contatti genuini, così come hanno bisogno di comunicare la propria verità esperienziale acquisita magari con travaglio e di vedere che essa illumina gli altri. Si sa che per distruggere un altro non c’è modo più sicuro dell’ignorarlo. Se si eccettua questa posizione estrema, la conferma o la disconferma della mia identità ha una grande gamma di possibilità: dal minimo cenno di riconoscimento che io sono presente nel mondo psichico del mio prossimo (un sorriso, una stretta di mano, una parola di saluto), fino alla massima conferma di quando un altro è pronto a dar la vita per me. Questa gamma di possibilità ha due facce: può essere positiva, se vengo accettato dall’altro, o negativa se vengo respinto (reiezione); anche questa seconda, tuttavia, è una conferma che per l’altro io esisto. Può odiarmi, ma nell’odiarmi conferma la mia identità. Se la prima possiamo chiamarla dialettica dell’incontro, la secon­da è dialettica dello scontro. In questa non c’è evidentemente comunione e perciò non c’è né creatività né arricchimento: c’è solo regressio­ne psichica, poiché non esiste scontro che non implichi l’assolutizzazione di una della mie posizioni e la svalutazione dell’altro e delle sue posizioni (idee, sentimenti, ecc.).

Nella vita di comunità questa dinamica è co­stante poiché non c’è azione o parola che non significhi conferma o disconferma degli altri conviventi. Se Gesù ci ha dato come modello di rapporti interindividuali quello della Trinità (tre uguali e distinti che sono uno in comunione d’amore poiché il Padre si nega – per così dire – per affermare il Figlio, e il Figlio si nega per affermare il Padre, e per questo possiamo dire che ciascuno è «persona» anche solo basandoci sull’esperienza umana) si capisce come la strada per passare da gruppo a comunione di persone è lunga. Ma vedremo questo più avanti.

Pacomio e la riforma dell’ascetica

Voglio adesso fare un cenno a una delle esperienze nate nella vita della Chiesa e che ha segnato un momento di maturazione della Chiesa stessa: ossia il passaggio dall’ascesi anacoretica all’ascesi cenobitica.

L’anacoresi, o vita di solitudine nel deserto, si sa che è nata come ideale ascetico quando non fu più praticabile l’ideale del martirio. I cristiani si erano trovati di colpo a vivere in un mondo che, se poco tempo prima li perseguitava, ora li trattava con onore e con privilegi. Il pericolo di adattarsi al mondo ne spinge molti a ritirarsi dal mondo che essi considerano nemico della propria salvezza. Un apoftegma del monaco Arsenio sintetizza queste decisioni: «Fuggi gli uomini e sarai salvo». Tutte le auste­rità cui si sottopongono non sono che il mezzo per morire a se stessi (martirio). Ciò spiega an­che gli eccessi cui molti sono arrivati: stiliti, sepolti vivi in caverne... Oltre al contatto con Dio, questi monaci non avevano altro contatto, raramente, che con un abate già sperimentato, ma senza alcuna funzione ufficiale.

Perché Pacomio abbandona la vita anacoretica per fondare la vita cenobitica o di comunità? I motivi sono diversi, ma possiamo elencare quelli di maggior interesse: l’anacoreta, vivendo solo con se stesso, per quanto unito a Dio nella preghiera e nel lavoro, ma senza possibilità di confrontarsi con altri, è facile preda di illusioni (psichiche e spirituali) e finisce a volte di crearsi un mondo di fantasia che involontariamente lo fa regredire a stadi infantili di fissazioni e a fenomeni paranoici. Pacomio salva per un verso, almeno all’inizio, una certa solitudine nel lavoro, ma impone al monaco di pensare agli altri, sia mettendo in comune i frutti del lavoro, sia facendoli mangiare insieme, sia impegnandoli nell’accoglienza degli ospiti, sia facendoli partecipare alla preghiera comune.  È interessante notare quante volte dice “assieme” e “tutti”: basta col vivere a vostro capriccio; tutti dovete obbedire; all’ora del pasto dovete venire insieme, al lavoro andrete insieme e dovrete lavorare non al minimo, per i vostri bisogni, ma con zelo pensando a tutti. La storia dice che nessun monaco, abituato al preceden­te sistema di vita individuale, è restato nel cenobio, ma dice anche che «per una provvidenziale disposizione di Dio vennero da lui tre uomini decisi assieme a farsi monaci per servire Cristo». Questi tre uomini danno l’idea della nuova vita monacale che è vita trinitaria. Ognuno vive per gli altri, e il cenobio stesso deve aver rapporti con la chiesa locale almeno per la liturgia eucaristica. Ma la vera ascesi del monaco sta nella regola dell’obbedienza nella quale si compie il sacrificio dell’io, necessario per un rapporto di comunione. Non è strano perciò che si affermasse che l’obbedienza ha più valore della continenza (Vita di Pacomio): l’obbedienza (nel senso paolino) inserisce in un rapporto trinitario, mentre la continenza può diventare motivo di orgoglio personale e di rifugio nell’individualismo. In Cassiano le motivazioni psicologiche sono esplicite: la valutazione delle nostre azioni è più oggettiva se fatta dagli altri; i nostri pensieri e le nostre stesse ispirazioni («la nostra propria luce») vanno comunicati e sottoposti agli altri per essere al riparo dalle possibili trappole del proprio giudizio individuale, un nemico così sottile che porta per ingenuità e ignoranza a tenerli per sé invece di sottometterli al vaglio dei propri superiori (cf Conferenze, 2, 10).

Il perfezionamento portato da Basilio

San Basilio arriverà a condannare per principio la vita solitaria per privilegiare la vita cenobitica; e le sue motivazioni sono anzitutto di ordine antropologico: «L’uomo non è stato creato solitario e selvaggio bensì dolce e socievole, e niente è così proprio alla nostra natura come di socializzare gli uni con gli altri, di dipendere gli uni dagli altri e di amare i nostri simili. Questi germi di socialità che sono stati messi in noi devono portare frutto, tanto che il Signore Gesù dice: “Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri”». Qui è il passaggio dalla nostra natura sociale alla comunione trinitaria rivelata nel Vangelo: «Gesù, per invogliare i suoi discepoli a osservare questo comando... non richiede loro né prodigi né miracoli... ma li assicura che “tutti si renderanno conto che siete miei discepoli se vi amerete gli uni gli altri”» (Regulae fusius tractatae, 3, 1-2). Questo é il miracolo, la testimonianza.

In altri passi mette ancora in relazione l’antropologia della creazione e la legge evangelica dell’amore: «Il nostro creatore ha voluto che noi avessimo bisogno gli uni degli altri proprio perché viviamo in unità gli uni con gli altri... Infatti, se tu vivi da solo, a chi puoi lavare i piedi? di chi puoi prenderti cura? come fai a metterti all’ultimo posto?... la vita comunitaria è dunque uno stadio nel quale ci esercitiamo come atleti, una palestra che ci fa progredire, un esercizio continuo di perfezione nei comandamenti di Dio...» (Ibid., 7, 4). E quando un monaco gli chiede se, dopo essere stato formato dalla vita comune, può ritirarsi nel deserto da solo, risponde: «questo desiderio non è che un riemergere della tua propria volontà, cosa strana per chi vuole onorare Dio» (Regulae brevius tractatae, 74).

Il rischio di regredire a «gruppo psicologico»

Come si può notare, questa forma di vita comune impegna tutta quanta la persona, e per questo si distingue da un qualsiasi gruppo psicologico (tipo club sportivo, associazione civile o religiosa, sindacati ecc.) il quale è costituito da individui che si associano in vista di finalità particolari e che perciò interagiscono limitata-mente agli interessi comuni da perseguire (mondo del calcio, ad esempio) così che per tutto il resto (ideologie, affettività, religiosità) ognuno rimane chiuso in se stesso, geloso della propria privacy.

Ora, un seminario può correre appunto questo rischio, che l’interazione fra gli studenti avvenga unicamente a livello degli studi specifici, e che l’interazione fra essi e i superiori sia limitata a colloqui piuttosto formali per quanto riguarda alcuni problemi della formazione sacerdotale; in altre parole, che invece di formare una comunità dove la legge delle comunione tra persone ha il primo posto, non vivano che come un gruppo di individui che stanno insieme accidentalmente in vista dell’identico scopo da raggiungere, e senza perciò interagire, senza confrontarsi sugli altri aspetti della propria vita, e quindi ipertrofizzando il proprio io interiore reso inaccessibile agli altri. È individualismo, mascherato dal fatto di vivere insieme, giustapposti ma non comunicanti.

Quali vantaggi, invece, produce la reciproci­tà nell’interscambio, nel dono di sé, di quanto si è e di quanto si ha?

Da Dio-Amore scaturisce tutta la spiritualità evangelica e insieme la tecnica formativa del cristiano: la certezza che Dio mi ama personalmente mi conferma nella mia identità e mi permette di amare (= confermare) gli altri nella loro.  È una conferma reciproca e stabile creata dalla pericoresi dell’amore.

La mia identità, così come quella degli altri, non è data dalle doti, dalle idee... ma ha radice nell’assoluta certezza dell’amore del Padre: tutto il resto, frutto dell’educazione, della cultura e degli sforzi personali è relativo (parziale) e può venire relativizzato (criticato) o disconfermato senza pericolo per la mia identità; anzi, la coscienza che ogni idea è parziale apre all’a­scolto delle idee altrui e al dono delle proprie impedendo rigidismi e radicalizzazioni (che sono sempre di stampo infantile). Tutto ciò acquista notevole valore anche nel raggiungimento di una verità (sempre parziale ma meno soggettiva) o nella esecuzione di un compito comune, poiché il consenso cui si giunge è evidentemente più oggettivo (confermato dai test).

Si sa che in questo scambio di idee ed esperienze, o in un lavoro di gruppo, gli errori tendono ad annullarsi. Ma al di là di questi aspetti positivi il vantaggio maggiore è che viene salvato l’unico valore veramente assoluto, l’amore, che è relazionalità positiva e forza coesiva del gruppo, ossia comunione trinitaria.

La radicale presenza dell’amore di Dio negli altri (figli nel Figlio) facilita l’amare tutti senza discriminazioni e senza quegli attaccamenti personali (concetto radicale di castità) che si chiamavano amicizie particolari; anzi ognuno nella comunità viene a trovarsi in qualche momento al centro dell’attenzione, così che non si viene a formare una leadership unica ma alternata. Simpatie e antipatie anche se non è possibile cancellarle del tutto come movimento istintivo interiore, tendono però a scomparire a livello di comportamento esteriore, per cui anche la comunicazione non è aperta solo ad altri ma a tutti.

La prova di una reciprocità non falsificata

La stessa certezza della radicalità della presenza di Dio nell’altro che favorisce la comunione (interscambio) tra persona e persona, postula pure la compartecipazione ai beni materiali. La comunione dei beni – il fenomeno forse socialmente più nuovo e significativo della prima comunità cristiana – non può consi­derarsi un optional (faccio questo dono per essere virtuoso; mi sento buono e perciò... il che si potrebbe tradurre spesso con più sincerità in: lo faccio per sentirmi buono: autogratificazione di tipo infantile), questa comunione in realtà è la prova effettiva (ossia senza pericolo di falsificazioni) della personale risposta all’amore di Dio e quindi dell’amore al prossimo. Anche questo è un modo di perdere per essere: ci si stacca dagli idoli (mammona) per entrare nella comunione. Nel momento in cui un prossimo ha bisogno, se io ho e non do, sono – direbbero i Padri della Chiesa – un omicida; dare a chi non ha vuol dire restituire a Dio quel che è suo. La comunione dei beni spirituali, quando si rifiuta quella dei beni materiali, è menzogna in due sensi: primo perché dimostra che non credo effettivamente alla presenza di Dio nell’altro (non vedo Gesù in quel prossimo), e secondo, di conseguenza, che quanto dico non è tanto dono quanto autocompiacimento. E se non ho superfluo, ma l’altro ha bisogno e io posso lavorare e guadagnare per lui, è indubbio – per san Paolo – che devo farlo.  È menzogna, insomma, dire “Padre nostro” e “tasca mia”. Ci sarebbe troppo da dire sul significato comunionale del “lavorare per”, sulla forte coesione che crea il lavoro comune nella comunità (lavare i piatti per, scopare gli ambienti per, cucinare per, abbellire gli ambienti per il Gesù singolo e collettivo della comunità), sulla maturazione del senso estetico quando si è recettivi ai suggerimenti degli altri, sull’acquisizione di abilità tecnica quando si fa tesoro dell’esperienza degli altri relativizzando il proprio modo di vedere o la personale esperienza in quel settore particolare. Per questo pensiamo che il lavoro materiale, fatto insieme nel senso soprattutto di interscambio di esperienza e di gusto estetico, sia un fattore estremamente formativo e perciò necessario alla maturazione personale anche dei seminaristi, e quindi non tanto da istituire per una convenienza magari economica, quanto come tirocinio in cui la propria individualità nella propria espressione energetica creativa si mette a servizio degli altri. Oltretutto ognuno dovrebbe poter dire con san Paolo: «ho imparato ad essere autosufficiente» per non pesare sugli altri, bensì aiutarli.

La vera «filosofia» cristiana

Nel “vivere per”, nell’“integrarsi con” fino ad arrivare alla comunione, ossia alla reciprocità di amore, c’è tutta l’ascetica cristiana che è la più alta forma di personalizzazione, perché vuol dire vivere la vita a immagine della Trinità; vuol dire essere un solo corpo (quello di Cristo) animato da un’anima sola (la charitas infusaci dallo Spirito); vuol dunque dire essere Chiesa. Ma vuol anche dire realizzare se stessi, poiché si è veramente se stessi quando si può dire “Noi”.

Questa è la filosofia cristiana di cui parlavano san Giustino, san Clemente d’Alessandria e che Gregorio di Nazianzo ha definito «filosofia vissuta» (Oratio VI).

Non bastano gli studi teologici, filosofici, storici, esegetici, morali... per formare la persona. Non basta un’ascetica individuale – se pure fatta di preghiera e sacrifici – per formare integralmente una persona. L’uomo nuovo è colui che passa dalla morte alla vita perché, inserito come membro in Cristo, ama vivendo per le altre membra dello stesso Cristo.