Seminario: gruppo ocomunità?

Perché ci sia comunione non basta avere comuni finalità e neppure coabitare. Ogni interesse umano – per quanto nobile e valido sia, compresa la stessa intenzione di formare o formarsi come sacerdoti – è insufficiente per dare vita ad una comunità evangelica. Unica chiave per la vita comunitaria e insieme sua misura è la disponibilità a «dare la vita per i propri amici». Solo allora s’instaura quella dinamica trinitaria che è il vero “novum” della “communio” cristiana. (Ad un Convegno di educatori nei seminari, novembre 1979. Da gen’s 1/1980, pp. 4-6; 3-4/1990, pp. 71-76).

Per una riscoperta delle fondamenta della comunione

Viviamo in un’epoca nella quale lo Spirito da più parti sembra infrangere determinati schemi, come i chiusi classismi spirituali, piccoli mondi quasi incomunicanti nel mondo storico-sociale dell’esistenza; nella quale, in una società cresciuta si può dire nella distinzione di organismi alla ricerca della propria individualità e con finalità particolaristiche, lo Spirito cerca di riportare la creatura umana al valore essenziale al quale Dio attraverso Gesù ha dato una priorità assoluta: il rapporto di amore-comunione tra persona e persona, tra famiglie religiose, tra religiosi e clero diocesano, tra lo “stato di perfezione” e quello che Igino Giordani ha chiamato il “proletariato dello spirito”.

Non elenco i passi del Vaticano II che parlano di questa priorità. Cito qualche frase, come quella della Lumen Gentium dove si dice che il disegno del Padre è di elevare gli uomini alla partecipazione della sua vita divina (n. 2), che è evidentemente vita trinitaria; e che grazie a questa vita trinitaria portata in terra da Gesù si è inaugurato in terra il Regno dei cieli (n. 3); o come quella dell’Ad Gentes dove si dice che Dio, al fine di stabilire «la comunicazione intima tra sé e gli uomini e di realizzare tra gli uomini stessi una unione fraterna, decise di entrare in maniera nuova e definitiva nella storia umana, inviando il suo Figlio a noi, con un corpo simile al nostro» (n. 3).

Il fine primario di Dio riguardo all’umanità

Dio, insomma, è comunione trinitaria, e riguardo agli uomini da lui creati non ha altro fine primario che di costituirli in una comunione simile alla sua. C’è una pagina di C. Lubich che esprime questa realtà in termini tanto profondi quanto semplici e comprensivi.

«Quando un emigrante – scrive – si trasferisce in paesi lontani, specie se meno civilizzati del suo, vi porta i propri usi e costumi. S’adatta certamente, per quanto deve, all’ambiente, ma continua spesso a parlare la sua lingua, a vestire secondo la sua moda, a costruire edifici simili a quelli della sua madrepatria. Quando il Verbo di Dio si fece uomo, si adattò senz’altro al modo di vivere del mondo e fu bambino e figlio esemplare e uomo e lavoratore, ma vi portò il modo di vivere della sua patria celeste e volle che uomini e cose si ricomponessero in un ordine nuovo, secondo la legge del Cielo: l’amore. Così ci veniva di pensare ancora sotto il flagello della guerra. E fu forse anche per questo che, aprendo con amore il Vangelo, o comunque il Nuovo Testamento, nelle lunghe ore di sosta nei rifugi, ci vennero in rilievo quelle parole che più esplicitamente parlano d’amore: “Una sola è la cosa di cui c’è bisogno”; “Ama il prossimo tuo come te stesso”; “Amate i vostri nemici”; “Amatevi gli uni gli altri”; “Soprattutto conservate tra voi una grande carità”. Ci parvero parole di una potenza rivoluzionaria, d’una vitalità sconosciuta, le uniche capaci di mutare radicalmente la vita: anche di noi cristiani, cristiani di questo tempo»1.

È una pagina di grande pregnanza di contenuto e che permette di fare varie considerazioni sul nostro tema. Parlo di quella particolare struttura che è la vita comune dei religiosi in genere, dei seminaristi e novizi nel periodo di formazione, nonché di ogni forma associativa che voglia dirsi cristiana.

La differenza sostanziale tra gruppo e comunità

L’importante, mi sembra, è capire che c’è differenza sostanziale tra gruppo e comunità. Il concetto sociologico di gruppo infatti non è legato al messaggio di Gesù. Tutta l’azione di Gesù, anzi, è volta a trasformare quel piccolo gruppo dei Dodici in un’altra realtà che trascende la semplice struttura sociologica dei gruppi in genere. L’insegnamento di Gesù è coerente alla sua azione: il periodo della loro convivenza, che è periodo di formazione, è centrato sull’attuazione di una sola norma: «Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate l’un l’altro come io ho amato voi» (Gv 13, 34); è precisamente la trasposizione sulla terra della “civiltà”, del “costume”, della natura dei rapporti tra le Persone divine. Il fine estrinseco, ossia la dilatazione di questo Regno dei cieli tra gli uomini, non è disgiunto da questo comando come un’attività da svolgere o uno scopo diverso da perseguire; esiste, ma come implicito e quale conseguenza di quella attuazione: «Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni verso gli altri» (Gv 13, 35). Dagli Atti degli Apostoli si può vedere come tutte le comunità cristiane, che nascono e si moltiplicano seguendo le leggi di un organismo vivente, mantengono la stessa linea di vita: la pratica del comandamento di Gesù è la ragion d’essere della stessa comunità, è l’aspetto nuovissimo e originale che differenzia questa nuova comunità dalle altre. Si potrebbe ricapitolare tutta l’azione pastorale degli Apostoli nel far vivere a tutti il nuovo comandamento, sintesi della Legge e dei Profeti: «Questo è il comandamento – scrive Giovanni (1Gv 4, 21) – che noi abbiamo ricevuto da Cristo: chi ama Iddio ami anche il proprio fratello». Essi, gli Apostoli, questa comunione l’hanno sperimentata con Gesù e per primi hanno avuto coscienza del Regno di Dio fra loro. Loro compito sarà quello di far entrare, di far partecipi gli altri di questa comunione appunto perché è la “civiltà” originaria che Dio ha voluto comunicarci. Occorre oltrepassare il piano delle finalità estrinseche e contingenti.

È per questa comunione che una comunità si distingue da un gruppo. Ogni gruppo, si sa, è formato da membri che possiedono la medesima natura e che si distinguono da altri gruppi e dalla società generale per alcune finalità cui tendono e nell’ambito delle quali essi accettano un certo scambio, limitato cioè ai bisogni e ai fini che essi vogliono soddisfare e raggiungere. La comune volontà effettiva, ad esempio, di approfondire un determinato problema dà origine a un gruppo di studio che accetta l’interscambio di idee concernenti quel problema. Ebbene, la comunità cristiana è tale – secondo il pensiero di Gesù, – quando i membri hanno come fine proprio la volontà effettiva di comunione attraverso l’amore che unifica, ossia quando coscientemente decidono di attuare il comandamento di Gesù. Basta notare come gli Apostoli siano preoccupati che le varie comunità scivolino verso una coesione giustificata esclusivamente da finalità contingenti ed estrinseche. Quando infatti nascono gruppi funzionali di natura organizzativa (diaconi, vedove, ecc.) o gruppi che si differenziano per doni specifici (apostoli, profeti, maestri, ecc.) si corre il rischio che la coesione nei singoli gruppi risulti unicamente dalla maggior possibilità di interazione favorita dalle rispettive attitudini, ministeri e doni. San Paolo è cosciente di questo pericolo e non si stanca di insistere perché la coesione sia fondata su un valore non contingente: «Poiché c’è diversità di doni, ma lo Spirito è il medesimo...» (1Cor 12, 4). Ora, il dono dello Spirito, visto come effetto in coloro ai quali è dato, è per eccellenza la charitas, e solo dalla reciprocità effettiva di questa può essere data la “coesione” (fino all’unità), tanto che anche l’esercizio dei doni perde di “valore” senza di essa (cf 1Cor 13, 1-3).

Reciprocità senza residui

L’essenza quindi dei rapporti che intercorrono all’interno della comunità e tra le varie comunità o chiese è l’amore; la coesione interna non è data primariamente dalla medesima finalità o reciprocità di attitudini, ruoli e carismi, bensì dalla reciprocità della charitas come comunione attiva ed effettiva. Ma la comunione effettiva, socialmente, ha bisogno di termini reali, concreti e presenti (il prossimo), essendo interazione dinamica. Se si vuole portare la interazione al massimo, la reciprocità deve essere continua e senza residui nei soggetti. “Essere perfetti nell’unità” –  come Gesù chiede –  postula, per chi vi è chiamato, l’esistenza della comunità nella quale intenzionalmente si avvera la reciprocità di questo atto d’amore che è morire a se stessi per donarsi senza residui a Dio nell’altro.

È a questa condizione che la comunità cristiana realizza sulla terra il modello della divina comunione trinitaria, unico esempio e modello di comunione assoluta di persone, anzi “persone” in quanto ognuna è “relazione” (comunione, dono) totale.

Il seminario: non solo convivenza «per»

Queste considerazioni ci portano a inquadrare meglio quella particolare istituzione che è il seminario. Un luogo dove più persone conveniunt (etimo di “convento”) e convivono. Il fatto della convivenza e la coscienza che esse hanno di avere in comune la vocazione o per lo meno l’aspirazione al sacerdozio permettono di considerarle un gruppo. È quello che in sociologia chiamano gruppo psicologico: la loro caratteristica è di accettare determinate norme di comportamento e un certo scambio relativo alla finalità comune che è la preparazione al sacerdozio. Quando la convivenza in seminario viene considerata solo mezzo, facilitazione per lo scopo da raggiungere, il pericolo che i seminaristi restino gruppo è forte: si sta assieme “per”; ossia la priorità non viene data alla comunione interpersonale; il compagno resta compagno, il superiore resta superiore e non il “prossimo” col quale anzitutto stabilire la reciprocità effettiva della charitas (Ante omnia... mutuam... charitatem continuam... 1Pt 4, 8). In tal modo, non si crea la comunità cristiana, non si fa l’esperienza tipica della “civiltà” del cielo che è la comunione trinitaria. Se Gesù chiede ante omnia la reciproca carità è perché è il valore primo e fondamentale anche della socialità umana, che non può non essere il riflesso della vita della Trinità sul cui modello in principio è stata voluta. Dio infatti non ha mai inteso mutare i rapporti sociali per diventare lui termine esclusivo di tanti rapporti individuali (quando i singoli cercano ognuno il proprio rapporto con Dio astraendosi dal prossimo), quasi annullando sul piano religioso quella socialità che è caratteristica della persona creata a sua immagine e somiglianza.

Senza la presenza di Gesù generato dalla reciproca carità si fa presto o tardi l’esperienza del vuoto esistenziale e tutto perde di valore. La stessa vocazione illanguidisce e la convivenza diventa penitenza e lo studio, non più illuminato dalla Sapienza, diventa sterile professionismo. Ma non è questa, appunto, la prima condizione richiesta anche dalla Ratio fundamentalis, perché un seminario sia seminario? Quando infatti distingue ciò che è essenziale ad esso e ciò che non lo è, nella nota 74, dice: «Come si può dedurre dai documenti e dall’invariato pensiero della Chiesa, perché un seminario sia tale si richiede: una comunità che sia impregnata dello spirito di carità, – questa condizione è al primo posto, e poi prosegue – che sia aperta alle necessità del mondo di oggi e articolata come un organismo, ... –  e più avanti –  che dia la possibilità di iniziare l’esperienza di quella che sarà la condizione sacerdotale stabilendo rapporti sia di fraternità che di dipendenza dalla gerarchia...».

L’«ante omnia»: una vera comunione di vita

È la stessa Ratio che indica, al cap. 3, cosa si deve intendere per sacerdozio cattolico quale fine proprio della educazione sacerdotale, e ne riporto il testo che riguarda l’aspetto formativo: «Questa reale partecipazione all’unico e medesimo corpo sacerdotale diocesano fa sorgere intimi e molteplici legami fra gli stessi sacerdoti. –  Qui continua con una citazione del Presbyterorum Ordinis – «I presbiteri... sono uniti fra di loro per una intima fraternità sacerdotale», «che spontaneamente e vo-lentieri – prosegue citando la LG –  deve manifestarsi nel mutuo aiuto, spirituale e materiale, pastorale e personale, nei convegni e nella comunione di vita, di lavoro e di carità», «manifestando così quella unità con cui Cristo volle che i suoi fossero una cosa sola, affinché il mondo sappia che il Figlio è stato inviato dal Padre» – quest’ultimo passo è tratto ancora dal PO.

Parla di comunità impregnata di spirito di carità, articolata come un sol corpo, attraverso intimi e molteplici legami di intima fraternità, tutte espressioni che trascendono il concetto di un gruppo unicamente finalizzato al futuro e comune ministero; questa fraternità non è data dal solo fatto spirituale dell’unico battesimo e dell’unico sacerdozio, ma deve esercitarsi concretamente in relazioni interpersonali di mutuo aiuto spirituale e materiale e personale da cui verrà di conseguenza anche l’aiuto reciproco nella pastorale; e poi parla di comunione di vita, di lavoro e di carità che fa realizzare quella “unità” con cui Cristo volle che i suoi fossero “una cosa sola...”. Fin qui non ha parlato di altro che di quello che in altre parole è il porro unum, l’ante omnia, al quale si deve essere formati nei seminari, perché questa è l’essenza del messaggio di Gesù. E il fine specifico, ossia la formazione al ministero pastorale, alla evangelizzazione? Ebbene, come abbiamo detto, esso non è una cosa diversa, quasi dissociata da quella attuazione essenziale che è “essere una cosa sola”, ma direttamente emanante da essa quale prima e fondamentale testimonianza capace di convertire il mondo.

Una riproduzione di Nazareth

A conclusione di queste considerazioni voglio riportare alcuni passi di Chiara Lubich che da anni ci hanno aiutato a capire, oltre che attraverso l’esperienza di vita sua e del Movimento, come si possa attuare questa vita cristiana di comunione, soprattutto fra persone scelte da Dio e che hanno risposto alla chiamata consacrandosi al suo servizio nel celibato.

«Loreto – scrive – è il punto di partenza della mia esperienza spirituale... (nella Casetta) qualcosa di nuovo e di divino m’avvolge, quasi mi schiaccia. Contemplo col pensiero la vita verginale dei tre... Quella convivenza di vergini con Gesù fra loro ha un’attrattiva irresistibile... Più tardi, molto più tardi, si capirà: ecco una riproduzione in germe e sui generis della casetta di Nazareth: una convivenza di vergini con Gesù in mezzo a loro: il focolare»2. Non è una famiglia naturale, dirà altrove, perché quelli che vi convivono hanno lasciato padre e madre, e il vincolo che ora li unisce è il soprannaturale, chiamati come sono a dare alla loro convivenza il riflesso della Santissima Trinità: «Padre, che siano uno come io e Te».

In un’altra pagina spiega come si possa attuare, per noi in terra, questa vita: «Come due poli della luce elettrica contengono la corrente, ma producono la luce solo al loro contatto, la carità reciproca, unendo le nostre anime, portò un’esperienza nuova: ci parve di esperimentare che cosa significassero quelle parole del Vangelo: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Gesù, il fratello per eccellenza, era spiritualmente presente in mezzo a noi. E solo Lui dava senso alla nostra nuova fraternità, giacché non sarebbe valsa la pena abbandonare padre, madre, fratelli, sorelle, insomma una famiglia naturale benedetta da Dio, se non per ritrovarci in una famiglia soprannaturale con Gesù fra noi. Fu questa sua presenza in mezzo a noi che ci dette di comprendere anche che volesse significare l’ut unum sint di Gesù nella sua preghiera sacerdotale. E ci sembra di poter affermare che solo “Gesù in mezzo” realizza in pieno l’unità invocata da Cristo prima della sua morte»3.

L’unità sul piano della grazia deve esprimersi nella storia

Si potrebbe dire: ma se una persona è in grazia di Dio, non è già di per sé unita pienamente agli altri nel Corpo di Cristo, nella Comunione dei Santi?

Ma la vita cristiana è una cosa molto concreta: l’unità mistica deve esprimersi nell’unità di comunione. Chiara scrive: «Nel mondo siamo tutti fratelli, ma ognuno passa accanto all’altro ignorandolo. E questo avviene anche fra i cristiani battezzati. La Comunione dei Santi, il Corpo mistico c’è. Ma questo Corpo è come una rete di gallerie oscure. La potenza di illuminarle c’è: in molti è la vita della grazia. Ma Gesù non voleva solo questo quando si rivolse al Padre, invocando. Voleva un cielo in terra: l’unità di tutti con Dio e fra loro: la rete di gallerie illuminata; la presenza di Gesù in ogni rapporto con gli altri, oltre che nell’anima di ognuno. Questo il suo testamento, il desiderio più prezioso di Dio che ha dato la vita per noi»4.

Pasquale Foresi, in un suo libro dice: «Vivere la carità scambievole è “essere Chiesa” nel lavoro, in famiglia, in collegio. È la comunità ecclesiale che si mette a vivere. Il cristianesimo che oggi ci rimproverano è appunto il cristianesimo fatto di realtà divine: di sacramenti, di prediche; ma non di “vita” divina. E nello scambio reciproco dell’amore fra gli uomini, vi è la Vita, quella vita che è Gesù. Egli infatti ha promesso una sua particolare presenza a chi si comporta così: “Dove sono due o tre adunati nel mio nome, ci sono io in mezzo a loro”. Gesù, l’eterno presente nella vita della Chiesa, vuole esserlo anche quando due o tre cristiani decidono di essere “chiesa”, ovunque essi siano, in carcere o in fabbrica, a scuola o al mercato»5.

Ma voglio terminare con un’altra pagina di Chiara: «Se siamo uniti, Gesù è fra noi. E questo vale. Vale più d’ogni altro tesoro che può possedere il nostro cuore: più della madre, del padre, dei fratelli, dei figli. Vale più della casa, del lavoro, della proprietà; più delle opere d’arte d’una grande città come Roma, più degli affari nostri, più della natura che ci circonda coi fiori ed i prati, il mare e le stelle: più della nostra anima. È Lui, che, ispirando i suoi santi colle sue eterne verità, fece epoca in ogni epoca. Anche questa è l’ora sua: non tanto d’un santo, ma di Lui; di “Lui fra noi”, di Lui vivente in noi, edificanti – in unità d’amore – il Corpo mistico suo. Ma occorre dilatare il Cristo; accrescerlo in altre membra; farsi come Lui portatori di Fuoco. Far uno di tutti ed in tutti l’Uno! E allora viviamo la vita che Egli ci dà attimo per attimo nella carità. È comandamento base l’amore fraterno. Per cui tutto vale ciò che è espressione di sincera fraterna carità. Nulla vale più di ciò che facciamo se in esso non vi è il sentimento d’amore per i fratelli: ché Iddio è Padre ed ha nel cuore sempre e solo i figli»6.

La vita in seminario non può essere esclusivamente considerata una semplice soluzione per prepararsi al sacerdozio, ma il luogo anzitutto ove poter fare l’esperienza del Cielo in terra, in modo da poter poi testimoniare: «ciò che abbiamo visto coi nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato, e quanto abbiamo toccato con le nostre mani... questo vi annunziamo, affinché voi pure siate in comunione con noi» (1Gv 1, 1-4); un luogo ove crescere Gesù in noi e fra noi, come Gesù a Nazareth, teso verso la sua propria missione, ma per molti anni vissuto nell’unità con Maria e Giuseppe, ai quali senza complessi stava sottomesso.

Si avvererebbe allora quanto Chiara si augurava fondando il Movimento gens, ossia che una schiera di seminaristi animati da questa idea e pratica dell’unità non solo salvassero la propria vocazione, ma anche quella degli altri seminaristi; anzi, se oggi da quaranta seminaristi escono, per dire, quattro sacerdoti, l’irradiazione dell’unità dai seminari attirerebbe altri giovani in modo da fare, di quaranta, ottanta.

 

 

 

01)       Scritti Spirituali/III, Città Nuova, Roma 19963, p. 35.

02)       Scritti Spirituali/I, Città Nuova, Roma 19913, pp. 10-13.

03)       Scritti Spirituali/I., p. 63.

04)       Scritti Spirituali/III., p. 49.

05)       Teologia della socialità, Città Nuova, Roma 1965, p. 180.

06)       Scritti Spirituali/I, op. cit., p. 50.