Il modo di pensare di Klaus Hemmerle e il suo significato per il futuro del cristianesimo

L’uomo del primo amore

di Bernhard Casper

Assieme a Klaus Hemmerle e Peter Hünermann, il filosofo delle religioni Bernhard Casper fu discepolo di Bernhard Welte. Durante il convegno accademico ad Aquisgrana su «La potenza di un Carisma: Klaus Hemmerle (1929-1994)», egli tratteggiò con maestria il “modo di pensare” di Klaus Hemmerle. Dopo aver indicato come punto di partenza la fenomenologia tedesca, l’autore si sofferma su alcuni tratti distintivi: “il rapporto con l’altro”, l’essere come “essere storico”, l’esperienza del “fallimento” nel movimento sempre nuovo di “superamento di noi stessi”, che è però sotteso dal fatto che l’essere si dona a noi: siamo già da sempre amati. Casper descrive quindi la vita e il pensiero di Hemmerle alla luce del principio di Franz Rosenzweig secondo il quale «l’essenza eterna di Dio» viene sperimentata come «amore che si ridesta nuovo in ogni momento, amore sempre giovane, che è sempre il primo amore». Sottotitoli redazionali.

Se nei testi che egli ci ha lasciato, c’è una frase in cui Klaus Hemmerle si esprime pienamente con l’impareggiabile chiarezza che lo contraddistingue – così come quando era in mezzo a noi e penso ci sia tuttora –, allora questa frase è: «L’essere umano si svela come l’essere dell’amore di Dio»1.

Al primo ascolto, questa affermazione, che capovolge tutto e allo stesso tempo a tutto dà un nuovo fondamento, ci sembra semplice. E ci sembra anche pia. Ci pare come un’evidente conseguenza del messaggio della Bibbia, sia quella ebraica sia quella cristiana. Come molte espressioni di Klaus Hemmerle che al primo impatto sembrano molto semplici, essa porta però in sé una carica impressionante. Ce ne rendiamo conto al secondo ascolto, più attento e concentrato, un ascolto che, con l’ingenuità di chi non è familiare con tali parole religiose, osa domandare cosa significhi veramente che l’essere umano si svela come l’essere dell’amore di Dio, o meglio – per usare il linguaggio preferito da Hemmerle – come avviene, come può essere che l’essere umano, ogni essere umano, si sveli come l’essere dell’amore di Dio.

Cosa vuole dire? Come ciò può essere? Come tale affermazione può diventare plausibile? La possiamo davvero comprendere e quindi anche far nostra? Come si manifesta nella nostra esistenza il significato di questa frase e cosa ci dice di colui che l’ha messa per iscritto? Vorrei cercare di approfondire questa domanda per ricavarne prospettive per il nostro futuro di cristiani e forse anche per la problematica che è al centro dell’intero nostro convegno: «La potenza di un Carisma».

Giacché ho potuto conoscere Klaus Hemmerle sin dalla fine degli anni ’50, soprattutto durante i nostri studi di filosofia e di fenomenologia della religione e durante la nostra comune formazione presso Bernhard Welte, mi sia permesso di affrontare la domanda: cosa significhi veramente che l’essere umano si svela come l’essere dell’amore di Dio, alla luce dapprima di codesti studi comuni.

Agli esordi del suo pensiero
L’ambiente filosofico di Friburgo in cui entrambi avemmo la fortuna di studiare e in cui poi agli inizi degli anni ’60 trovammo anche Peter Hünermann, era segnato dall’orizzonte del grande movimento filosofico della fenomenologia, e quindi in particolare dal pensiero di Edmund Husserl ed in seguito di Martin Heidegger. Ma cos’era e cos’è essenziale per questo pensiero? Se posso esprimermi in estrema sintesi:

1) Il fatto che questo pensiero, facendo proprio l’intento primordiale di tutto il filosofare, cercava di soddisfare l’esigenza di essere scienza dell’origine. Esso partiva dal proposito di andare al di là di tutti i preconcetti e i punti di vista stereotipati che forse già sono presenti nel nostro pensare, per arrivare ad una manifestazione originaria dei “fatti”. Vengono qui considerati come fatti non soltanto quelli delle scienze oggettive, bensì soprattutto le dinamiche umane ed interpersonali della storia. Fu proprio questa volontà di raggiungere l’originario che attirò Edith Stein verso Husserl. Si tratta dello sforzo di rimuovere tutte le macerie che la storia del pensiero e della cultura umana ha accumulato nel corso dei secoli, per toccare di nuovo il fondo e riscoprire le sorgenti della conoscenza umana.

2) In questo suo sforzo, però, la fenomenologia si comprese e si comprende come ricerca della correlazione, vale a dire: essa non pensa a partire da un soggetto isolato, da un “io penso” isolato, per costruire, partendo da questo punto apparentemente fermo, la realtà, il mondo. Essa si inserisce piuttosto nel rapporto già in atto, in cui noi ci ritroviamo da sempre come esseri umani ed esseri pensanti. Cerca dunque di schiudere questa relazione nella sua originarietà e nella sua insuperabilità.

Non è necessario attirare l’attenzione di chi conosce gli scritti di Klaus Hemmerle, sul fatto che il suo modo di procedere consiste sempre in questo pensiero che scaturisce dalla relazione. Per chi non ha ancora avuto molto a che fare con la sua opera, questo può rappresentare una importante chiave di lettura per capire quello che egli ci dischiude e ci vuole dischiudere nel suo pensiero.

3) Con Martin Heidegger avvenne però una svolta decisiva nel procedere della fenomenologia che sarebbe diventata importante anche per Hemmerle. In questa svolta si osservò che l’esistenza concreta, identificata da Heidegger con il termine Dasein, non può essere tenuta fuori dalla conoscenza pura, originaria ed autentica, in favore di un soggetto pensante trascendentale ed atemporale. È piuttosto la stessa esistenza storica concreta un elemento costitutivo della conoscenza. Il luogo della verità non è in fin dei conti l’enunciato atemporale, ma l’esistenza, come afferma Heidegger nel 1928/292 durante una lezione che ascoltò anche il giovane Emmanuel Lévinas e con la quale egli si identificò pienamente almeno per quanto riguarda questa tesi. Insieme a tale scoperta dell’esistenza storica concreta, viene poi riconosciuta anche la storicità in generale in quanto prodursi e attuarsi dell’esistenza umana in senso concreto, come fondamento per ogni sforzo di pensiero che voglia arrivare alla verità dell’essere umano. Fu Karl Löwith a fare ben presto notare che questa scoperta della storicità dell’esistenza, in parallelo a Heidegger e, per essere esatti, già poco prima di Heidegger, e cioè nel 1918-19, era stata messa in luce dal pensatore ebreo Franz Rosenzweig nel suo scritto «La stella della redenzione». Proprio questo libro di Rosenzweig, che pone al centro l’evento in atto dell’amore di Dio, ha sempre ricoperto un ruolo determinante per Klaus Hemmerle, tanto che il suo pensiero, come lui stesso affermò una volta, era in qualche modo «molto vicino a elementi fondamentali dello spirito ebraico»3. È questo un aspetto sul quale non posso non attirare l’attenzione sulla base dell’esperienza degli anni di studio fatti in comune.

4) Dal punto di vista biografico, a ciò si aggiunge il fatto che Hemmerle, durante i suoi studi di dottorato e di abilitazione alla docenza, si era occupato intensamente di Franz von Baader e poi di Schelling, sia lo Schelling di una filosofia dell’arte, sia quello dello scritto della libertà e della filosofia della mitologia e della rivelazione. Già a partire da Franz von Baader, il quale capovolse il cartesiano «cogito ergo sum – penso, dunque sono», in un «cogitor, ergo cogito, ergo sum – sono pensato, dunque penso, dunque sono», Hemmerle prese familiarità con il pensiero come un avvenimento sostanzialmente responsoriale-dialogico. Franz von Baader, con la sua correzione a Cartesio, aveva però recepito un concetto centrale di sant’Agostino: «Vorrei riconoscerti, o mio conoscitore, riconoscerti, come io sono riconosciuto», con cui Agostino a sua volta interpretò Paolo4. A partire da Schelling, a Hemmerle risultò chiaro che una riflessione sull’essere umano poteva trovare il suo fondamento in definitiva soltanto in un approfondimento del mistero della libertà umana.

«Essere in relazione con l’altro» ed «essere nel tempo»
Con queste quattro prospettive abbiamo indicato importanti coordinate degli esordi di Klaus Hemmerle che ora ci potranno forse aiutare ad entrare nel suo modo di pensare.

Nel tentativo di ricostruirlo vorrei prendere le mosse dalla semplice domanda: «Cosa significa che io sono?». Oppure, per dirlo con Hemmerle: «Come avviene che io sono?». Di certo non è che io riposi come una pietra in sostanziale compiutezza ed inafferrabile monumentalità; o che io stia lì pronto e fatto come una macchina costruita nel capannone. Nella costruzione della macchina non c’è più niente da modificare. Essa si trova là come un prodotto pronto. Ma io sono persona umana soltanto per il fatto che supero me stesso, che in definitiva esisto solo nella relazione aperta e sempre dinamica, e più esattamente in relazione con l’altro, cioè con le molte cose del mondo e soprattutto con l’altra persona come tale. «Tutta la vera esistenza avviene in relazione»5, ha affermato Martin Buber. E questa frase potrebbe benissimo comparire negli scritti di Klaus Hemmerle. Io sono già fin dall’inizio e sempre l’essere che va oltre se stesso per muoversi verso l’altro e questo in tal modo da rinnovare costantemente se stesso. Ciò si manifesta dal fatto che io parlo, che io sono un essere che è dotato del linguaggio e si esprime e si mostra nel parlare. Dal momento che parlo, sono un essere umano che vive.

Il fatto che io esista solo in relazione all’altro, si mostra dall’altro lato nel fatto che io sono un essere che ha il senso del tempo, subisce il tempo e si realizza col tempo. Nel mio andare oltre me stesso, inizio continuamente qualcosa di nuovo con me stesso, con le cose e soprattutto con il mio rapporto verso l’altro nel senso più ampio. Così io sono assolutamente l’essere storico, che avviene sempre di nuovo. Ma come succede ciò che io faccio di me stesso, o meglio: com’è che accade qualcosa tra l’altro e me stesso? Qual è, se possiamo chiedercelo così schematicamente, il “contenuto” di questo avvenimento, di questo gioco, che in realtà mi costituisce come un essere umano vivente? Ovvero: cosa cerchiamo in questo continuo e sempre nuovo movimento volto ad andare oltre noi stessi, per il quale esistiamo come esseri umani vivi?

L’esperienza del «fallimento»
Il “contenuto” di questo movimento sempre nuovo di superamento di noi stessi può consistere in una delusione sempre nuova, in un fallimento sempre nuovo; il fallimento cioè del tentativo di riuscire ad attingere in questo superamento di noi stessi ciò a cui potremmo senza alcuna riserva e definitivamente dire “sì”. Vi troveremmo una «interminabilis vitae simul tota et perfecta possessio», come l’ha espresso in latino Boezio, il grande intermediario del pensiero greco classico: «un possesso totale e allo stesso tempo perfetto di un’esistenza interminabile»6. Evidentemente non riusciamo a raggiungere ciò nel gioco del nostro continuo andare oltre noi stessi verso l’altro di noi. E così, per la filosofia del XX secolo, Sisifo può diventare la cifra dell’essere umano. Nel suo pensiero Klaus Hemmerle era ben conscio di questa esperienza fondamentale dell’uomo moderno, come l’ha immortalata Albert Camus. E la conosceva anche come vescovo.

Ma ciò che fece Hemmerle, seguendo in ciò il nostro maestro Bernhard Welte, era: non fermarsi a questa costatazione, ma chiedere perché questa esperienza del fallimento, quale esperienza fondamentale dell’uomo moderno alla ricerca della propria identità, possa essere vissuta proprio come esperienza di fallimento. Ciò è possibile evidentemente soltanto perché in quella relazione vivente che noi siamo, ci troviamo già in un movimento che va oltre questa correlazione del fallimento e solo così la rende possibile.

Interpellati dall’altro
Che tipo di movimento è questo, però? Si tratta di un movimento in cui noi ci troviamo interpellati ed attratti dall’altro – dalle altre cose e dalle altre persone – come da una realtà che è innanzitutto e del tutto positiva, cioè veramente e incondizionatamente “buona”, ovvero, come possiamo pure dire, degna di amore, in concreto, dall’altra persona e dalle cose in quanto altre, le quali veramente sono qualcosa e con cui c’è davvero qualcosa. Il movimento della nostra intentio attraverso la quale noi esistiamo in quanto essere umani, si trova già correlato con ciò che veramente è in quanto buono, correlato all’altro come realtà che è degna d’essere amata.

Non ho bisogno di dilungarmi sul fatto che Hemmerle qui da un lato riprende un pensiero fondamentale della tradizione, come trova espressione in Platone, Agostino, Guglielmo di Saint Thierry e – per Hemmerle – soprattutto in Bonaventura. Dall’altro lato, però, egli legge questo pensiero alla luce di un pensiero che gli fu dischiuso principalmente da Franz Rosenzweig, un pensiero che prende atto che questa relazione costitutiva si realizza proprio nella dimensione della finitezza e della mortalità, ovvero, se possiamo usare questo termine filosofico: come evento diacronico. L’incontro con Emmanuel Lévinas e con la sua filosofia dell’ «essere pegno [Leibbürge] per l’altro» incoraggiò Hemmerle a muoversi in questa direzione.

L’essere come dono
La relazione del continuo superamento di me stesso nell’incontro con l’altro, nel quale io cerco ciò che è positivo, ciò che è buono, se la voglio considerare nella sua realtà, non può essere compresa a partire dal soggetto autonomo che è assolutamente padrone di se stesso, ovvero a partire dal pensiero che, se vuole essere ragione autonoma, deve essere per principio irriconoscente, come sostiene Hegel7.

Piuttosto, quando penso, devo prendere atto che, per mettere in moto il pensare, io sono già interpellato da ciò che noi chiamiamo il bene. Devo cioè prendere atto che quella correlazione che noi chiamiamo pensiero, è già responsoriale, vale a dire: è risposta, è sempre già debitrice di se stessa.

Se l’oggetto del nostro movimento intenzionale con cui oltrepassiamo continuamente noi stessi, può essere identificato come ciò che è degno di amore, ciò che merita di per sé il nostro assenso, dobbiamo tuttavia vedere che questo intero movimento si origina dal fatto che noi siamo innanzi tutto amati da una forza che si mostra in ciò che è degno di amore. Questo è il nucleo di ciò che accade in tutti i nostri atti finiti e mortali. L’essere, verso cui ci protendiamo sempre e di continuo nel gioco vitale del superamento di noi stessi, si rivela come dono.

La frase che si trova in un testo di Heidegger venuto solo recentemente alla luce: «Imparate innanzi tutto a ringraziare, allora potrete pensare»8, si potrebbe ritrovare tale quale anche negli scritti di Klaus Hemmerle.

Il primo amore
Hemmerle trovò conferma di questa intuizione fondamentale, dalla quale traevano ispirazione tutta la sua esistenza ed il suo pensiero, soprattutto nel secondo libro della seconda parte di «La stella della redenzione» di Franz Rosenzweig. In questa sezione centrale della sua geniale opera, Rosenzweig fonda infatti l’esperienza della realtà, che abilita l’essere umano alla parola, nell’esperienza dell’amore di Dio.

In questo sempre rinnovato superamento di se stesso da parte dell’essere umano, che avviene nel movimento basilare della sua esistenza la quale si concretizza nel tempo – movimento che è possibile soltanto perché l’essere umano è interpellato da un senso incondizionato – si sperimenta, così afferma Rosenzweig, «l’essenza eterna di Dio» come «amore che si ridesta nuovo in ogni momento, amore sempre giovane, che è sempre il primo amore»9.

In tutti gli atti spirituali o – per superare ogni possibile restrizione della parola “spirituale” – in tutti gli atti veramente umani, mi rendo conto di essere interpellato da un senso incondizionato, da un “sì” incondizionato, da un primo amore incondizionato.

Primo amore, perché nulla precede questo “sì”.

Primo amore, perché questo “sì” – tu puoi essere e tu puoi iniziare qualcosa con te stesso – non è più deducibile da nessun’altra cosa.

Un rapporto di primo amore: anche perché questo rapporto accade ogni giorno, in maniera sempre nuova ed originaria. «Tutti i giorni l’amore ama un po’ di più quello che esso ama»10, così Rosenzweig descrive questo rapporto, al quale io rispondo con la fede nell’atto della mia esistenza.

Ontologia trinitaria: mantenersi nel primo amore
Non posso approfondire qui il modo in cui l’accoglienza della rivelazione in Gesù Cristo ed in definitiva la “ontologia” trinitaria, come la chiamò Hemmerle stesso, si iscrivono per lui in questa comprensione fondamentalmente dialogica e dinamica del trascendersi dell’essere umano. Klaus Hemmerle possedeva molte doti. Ma credo di poter avanzare la tesi che il suo carisma fondamentale, il carisma che consisteva nella sua stessa persona e non soltanto in singole doti, stava nel fatto che il suo “rispondere”, nel gioco della vita, si manteneva costantemente in questo sempre primo e sempre giovane amore.

Egli rimaneva sempre l’uomo di questo primo amore11. Veniva da qui la purezza delle sue intenzioni che abbiamo potuto sempre di nuovo costatare in lui. E veniva da qui anche il senso d’umorismo con cui reagiva a ciò che era avverso, non buono, controproducente e stupido e persino cattivo e malvagio nei rapporti umani. Il senso d’umorismo era per Hemmerle, nello stesso senso di Kierkegaard, l’incognito della fede12. Per rifarsi ad un’espressione di Kierkeggard: dato che egli prendeva infinitamente sul serio l’infinito, ovvero il primo amore dal quale egli si sentiva interpellato e provocato, trovò la libertà di attribuire a tutto il resto un’importanza non necessariamente illimitata. C’è un’ironia che denuda e che secondo Kierkegaard si trova al confine con l’etica. Ed esiste forse anche un senso d’umorismo di questo genere. L’humor di Klaus Hemmerle non era però mai di quel tipo. Si trattava piuttosto di uno humor sempre amabile, l’humor appunto della fede che confida nell’amore redentore.

Una conseguenza di questo mantenersi nel primo amore è stata sicuramente anche il fatto che ciò che Hemmerle diceva a nome proprio aveva sempre la caratteristica dell’autenticità. Per quanto le sue riflessioni potessero risultare talvolta ardue, a chi si comprometteva con esse non apparivano mai come un artefatto o una mera costruzione, qualcosa che si diceva soltanto per scopi strategici. Piuttosto esse portavano l’impronta di qualcosa di originario.

Una nuova concezione del tempo
Una delle conseguenze più importanti del suo accogliere il primo amore e del suo rimanere nell’amore originario, come primo dono di Dio, è stata per Klaus Hemmerle una concezione mutata del tempo; del tempo inteso come tempo della vita che si attua tramite me stesso, e della storia come il tempo della comunione tra gli esseri umani. E in ciò è ovviamente inclusa anche la storia della comunità dei credenti: la Chiesa.

Klaus Hemmerle ha sviluppato per la prima volta questa nuova concezione del tempo che si attua concretamente nella storia e non è soltanto il tempo astronomico dei nostri orologi e calendari, nell’ambito di un incontro del nostro gruppo di lavoro «evento del linguaggio e religione» che si tenne il 29 ottobre 1983 nel monastero di Simpelveld, e l’ha successivamente inserita nel suo volume «Brücken zum Credo» («Ponti verso il credo»). Questo «gruppo di ricerca sui fondamenti teoretici della religione» si è riunito più volte nel monastero Simpelveld, secondo Klaus Hemmerle una traduzione olandese di «Campus universitatis». Più tardi si incontrava poi alle porte di Aquisgrana, nel monastero olandese Wahlwiller, e questo perché voleva incontrarsi con Emmanuel Lévinas. Questi, dopo gli orrori del periodo nazista e l’uccisione di tutta la sua famiglia, aveva fatto il voto di non mettere più piede in territorio tedesco. E noi tutti capivamo e rispettavamo questa sua scelta. Ma Lévinas e sua moglie ci vennero incontro letteralmente fino al confine, facendo un viaggio per loro assai faticoso via Bruxelles. Sarebbe stato molto più semplice per loro venire direttamente da Parigi ad Aquisgrana con il Thalys.

Credo di poter dire a posteriori che questi incontri a Simpelveld e a Wahlwiller, soprattutto per via dei difficoltosi viaggi che Lévinas affrontò per venire a queste riunioni, divennero un’importante testimonianza della serietà con cui dopo l’Olocausto riprese in maniera nuova il dialogo tra ebrei e cristiani. Al dialogo del 1983 a Simpelveld prese parte pure il filosofo e teologo polacco Joseph Tischner, il vero precursore intellettuale e ispiratore del movimento Solidarnosc. La storiografia del futuro potrà chiedersi quali scintille saranno magari scoccate in quei colloqui che condussero poi, alla fine degli anni Ottanta, ai mutamenti in Polonia, che sfociarono in seguito in quella che oggi chiamiamo la Wende, cioè la svolta.

Durante questo incontro a Simpelveld nel 1983, Klaus Hemmerle, sulla base di Malachia 3, 23ss «(…) io invierò il profeta Elia, (…) perché converta il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri» e rifacendosi all’affresco di Michelangelo «La creazione di Adamo» nella Cappella Sistina, sviluppò una concezione biblica del tempo, diversa da quella classica occidentale.

Nella sua interpretazione di Michelangelo, partì dal presupposto che noi in Occidente siamo abituati a leggere un testo da sinistra verso destra. In questa maniera possiamo essere portati a interpretare anche l’affresco di Michelangelo: Adamo è là, sdraiato. Lui è creato da Dio. Ma come dono più grande Dio ha dato all’essere umano la ragione. Ed ora si può stare a vedere che cosa l’essere umano, ormai creato, farà di se stesso e delle cose del mondo per mezzo del dono della ragione; come egli darà forma all’avvenire, che cosa farà del mondo sul quale egli è chiamato a dominare, e di se stesso. Adamo guarda a destra verso un futuro che lui stesso deve forgiare. È il suo futuro, il futuro dell’essere umano. Egli lo può forgiare, perché è creato da Dio. Dio sta “dietro di lui”. La creazione del mondo e dell’essere umano è un atto che ha già avuto luogo; è un atto che si colloca nel passato. È così che interpretiamo e comprendiamo in genere la realtà della “creazione”. Secondo la logica del nostro pensiero causale-analitico, che nell’epoca moderna si restringe addirittura alla mera causalità del fare e del fabbricare, alla causalità dell’efficienza, l’atto della creazione dovrebbe essere però rappresentato a sinistra dietro ad Adamo, come avveniva in effetti nella maggior parte delle tradizionali rappresentazioni della creazione, dai mosaici di Monreale fino al famoso frontespizio della Bibbia di Lutero ad opera di Hans Lufft nel 1524. Dio si trova al di fuori e prima della creazione.

Klaus Hemmerle, però, prendendo le mosse dall’affresco di Michelangelo, richiama l’attenzione sul fatto che questa è soltanto e semmai una mezza verità. Perché Michelangelo raffigura Dio, che fa di Adamo un essere vivente, sul lato destro, vale a dire, secondo il nostro modo abituale di leggere: nel futuro. Egli è in realtà colui che ci provoca a vivere e ce ne rende capaci con la tempesta del suo Spirito. In modo provocatorio Hemmerle afferma che «l’inizio è nel futuro, l’inizio è presso il Padre»13. Più precisamente: «L’inizio si trova nel futuro e mi conduce dentro di sé»14. Nella logica intrinseca dell’assenso al primo amore (e null’altro è la fede) c’è una «primato di quello che è da venire»15. Tale «primato di quello che è da venire» deriva appunto da un’ermeneutica dell’amore che percepisce l’insieme della realtà. Il rapporto d’amore, dell’essere amato e del ri-amare a sua volta, è in effetti tutt’altro che un fatto isolato e compiuto. Sarebbe come se con l’atto giuridico del matrimonio, con il fattivo “sì” dei coniugi davanti all’altare, formulato in una precisa data ed un preciso orario, fosse già compiuta la realtà viva dell’amore coniugale e fosse ormai cosa pronta e fatta. Appartiene invece all’essenza dell’amore il fatto che esso abbraccia l’intera storia degli amanti. La fede come assenso al primo e originario amore per natura sua non significa soltanto l’assenso ad una realtà del passato già in sé compiuta e che io non posso comprendere ma in cui “credo”. Invero l’autentico credere quale atto vitale di tutto l’essere umano significa assenso alla Parola di Dio, dalla quale io mi lascio provocare e coinvolgere; assenso a una parola, alla quale io mi abbandono.

Io mi abbandono a Colui del quale già la preghiera ebraica afferma nel Salmo 33, 18-19: «Ecco, l’occhio del Signore veglia su chi lo teme, su chi spera nella sua grazia, per liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame». La fede si dona liberamente al «mistero della sua volontà», il mysterion tou thelèmatos autou (Ef 1, 9). Questo, però, ci vuole accompagnare verso il futuro.

L’amore ha la sua storia nell’amato
A questo riguardo bisogna allora chiedersi «se non sono pure tutti i dogmi – per loro natura – affermazioni del futuro»16, osserva Klaus Hemmerle. A fortiori bisogna domandarsi pure se ogni “potere”, che legittimamente può esistere nella comunità dei credenti, per natura sua non possa essere potere soltanto se il suo metro interiore è l’avvenire della salvezza di Dio, e non la salvaguardia dello status quo assicurata in modo puramente umano. Tradurre questo nella prassi di una amministrazione e di una politica ecclesiastica risulta probabilmente difficile. E gli storici della Chiesa osserveranno, forse con scetticismo, che ciò si è sempre mostrato impossibile.

Questo essere orientato all’avvenire di chi è preso dal primo amore e ad esso rimane fedele, cioè di chi crede, deriva, secondo Hemmerle, dalla natura del nostro rapporto con Dio quale rapporto tra Dio che ama per primo e l’essere umano da lui amato. «L’amore – afferma Hemmerle – ha la sua storia nell’amato. L’amato è la storia di colui che ama. Proprio quando l’amore resta fedele a se stesso in quanto amore, non lo fa nel modo dell’identità della sostanza. L’identità dell’amore in quanto amore si attua invece nel fatto che l’altro è la mia storia»17.

E questo si verifica anche tra Dio e l’essere umano.

Il primo e originario amore è l’amore che mi viene incontro dal futuro. Oppure, se vogliamo formularlo in modo più esaustivo: il rapporto «dell’amore che si ridesta nuovo in ogni momento, l’amore sempre giovane, che è sempre il primo amore»18 da cui mi lascio coinvolgere, se ci credo, si rivela come rapporto che non si può mai chiudere su me stesso e nel quale diventa evidente che «io sono l’avvenire di Dio e che coloro che verranno rappresentano l’avvenire di Dio». A tal proposito il vescovo di Aquisgrana rinvia a Papa Giovanni Paolo II il quale, rifacendosi a sua volta al Concilio Vaticano II, fece notare che Dio, nel Servo di Dio, «ha in certo senso assunto il destino di ogni essere umano, cosicché questa storia dell’unico Servo di Dio diventa la storia mai conclusa dell’eterno Servo di Dio che è l’“umanità” e l’umanità dei credenti diventa rappresentante di tutti gli esseri umani, nella cui storia accade così la storia stessa di Dio»19.

Null’altro, penso, intende la frase da cui avevamo preso le mosse: «L’essere umano si svela come l’essere dell’amore di Dio». Questa frase ci appare ora forse un po’ più chiara nel suo senso concreto, cioè nel senso della sua effettiva attuazione nella fede (credere, come si fa?).

Potenza nella debolezza
Il carisma di Klaus Hemmerle consisteva nel fatto che lui testimoniava, con la sua vita ed il suo pensiero, la realtà di questo «primo amore», grazie al quale e in risposta al quale noi crediamo.

Se lui, con questa testimonianza della sua vita e del suo pensiero, ha conquistato forza in un senso secolare e soprattutto anche politico-ecclesiastico, se questo suo carisma, nel senso della famosa equazione di Max Weber, conduceva alla potenza o non piuttosto all’impotenza – oppure se alla “potenza”: allora in che modo dobbiamo concepire la parola “potenza”? – è una domanda che dovremo porci con tutta sobrietà e sincerità.

Nel farlo, non potremo partire da una concezione di “potenza” esclusivamente sociologica e neppure solamente fenomenologico-ontologica. Potremo porre a base soltanto la concezione profetico-escatologica che ci schiude il Nuovo Testamento. La forza, secondo questa concezione, può essere solo la potenza del Crocifisso che si manifesta nell’impotenza dell’essere umano. La potenza di Dio – e unicamente ad essa il credente ha parte nell’evento della fede – «si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12, 9).

Bernhard Casper



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01) Gli scritti di Klaus Hemmerle sono citati secondo: Klaus Hemmerle, Ausgewählte Schriften (= Opere scelte), a cura di Reinhart Feiter, Freiburg 1996 = AS. Qui, AS 1, 283.

02) M. Heidegger, Einleitung in die Philosophie, Gesamtausgabe, vol. 27, Frankfurt 1996, 109.

03) AS 2, 237.

04) Agostino, Confessiones X, 1, 1; cf 1Cor 13, 12.

05) Cf in proposito: M. Buber, Urdistanz und Beziehung, in: Werke, vol. 1, München 1962, 411-423. Cf K. Hemmerle, AS 2, 23: “Tutta la vita si gioca in questa reciprocità”.

06) Boezio, De Consolatione philosophiae, V, 6.

07) G.W. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, Hamburg 1959, 45.

08) Comunicazione a me indirizzata dal curatore del volume 75 delle Opera omnia di Heidegger, Curt Ochwadt. Cf inoltre: M. Heidegger, Gelassenheit, Pfullingen 1960, 66-67: “G: La nobiltà d’animo sarebbe l’essenza del pensare e quindi del ringraziare. / L: Quel ringraziare, che non ringrazia soltanto per qualcosa, ma ringrazia per il semplice fatto di poter ringraziare”.

09) F. Rosenzweig, Der Mensch und sein Werk, Gesammelte Schriften, vol. 2 (Stern der Erlösung), Den Haag 1976, 178.

10) Ibid., 181.

11) Cf a livello biblico Os 6, 4 e Ap 2, 4.

12) Cf S. Kierkegaard, Abschließende unwissenschaftliche Nachschrift, Zweiter Teil, Düsseldorf/Köln 1958, 156, 209ss, 218 e passim.

13) AS 2, 238.

14) AS 2, 226.

15) AS 2, 227.

16) AS 2, 232.

17) AS 2, 233-34.

18) F. Rosenzweig, op. cit., 178.

19) AS 2, 236.



Nota: Il testo originale tedesco dell’articolo si trova in: Hans Hermann Henrix (ed.), Bischof Klaus Hemmerle (1929-1994) – Ein geistlicher Meister (Aachener Beiträge zu Pastoral- und Bildungsfragen 22), Aquisgrana 2004.