Teologo e vescovo dalle molteplici doti e dal cuore di bambino evangelico

Gioco e caso serio

di Hanspeter Heinz



Dal 1970 al 1980 il professore emerito di teologia pastorale ad Augusta, Hanspeter Heinz, ha collaborato con Klaus Hemmerle al Comitato centrale dei cattolici tedeschi, dapprima come suo assistente e poi come rettore. Con queste pagine l’autore rende i nostri lettori e lettrici partecipi di una lunga amicizia.

Poche persone mi hanno arricchito tanto e mi hanno segnato così profondamente come Klaus Hemmerle. Se dovessi indicare con un nome la nostra amicizia durata 25 anni e la nostra collaborazione non troverei termine più appropriato di questo: “giocare”. Con ciò non intendo giochetti innocui, ma la voglia e la dote di aprire di colpo nuovi orizzonti attraverso idee sorprendenti, formulazioni pregnanti, geniali giochi di parole, trovate apparentemente folli che fanno apparire la realtà ben nota e quasi banale all’improvviso sotto un’altra luce, con altri contorni e in altri contesti.

Si potrebbe esprimere questa sua caratteristica anche in un altro modo: pensare alla rovescia! Hemmerle era un uomo originale e allo stesso tempo semplice. Non voleva darsi importanza, non desiderava ricoprire nessun ruolo speciale, e proprio per questo ha giocato un ruolo determinante per molte persone e in molti campi d’azione. Dato che amava le allitterazioni, vorrei formulare le mie impressioni intitolandole con tre parole che cominciano con la lettera “s”: Sardegna, Sankt Peter, strutture. Ma alla fine interromperò il gioco perché Klaus Hemmerle ha fatto anche esperienze limite cui non è riuscito a far fronte sovranamente e con disinvoltura. Farsi vincere dal più grande – questa era la sua vera grandezza.

Sardegna: vivere la vita
Quando Klaus rivelò a sua madre che sarebbe diventato vescovo di Aquisgrana e avrebbe dovuto chiederle, alla sua età e con una salute labile, ancora un altro trasloco, lei disse: «Povero ragazzo, così non potrai più suonare il pianoforte né andare più in Sardegna!». Quante volte raccontava, sorridendo, questo episodio e di come aveva consolato la madre, dicendole che si sarebbe concesso tali pause di riposo anche in futuro. E ha mantenuto la parola. Anche da vescovo, erano sacre per lui le tre settimane dopo l’assemblea plenaria della Conferenza episcopale in primavera. Teneva rigorosamente riservato, nella sua agenda super-impegnata, il periodo di vacanza ad Alghero in Sardegna. In genere ero uno dei due o tre amici che lo accompagnavano, perché non voleva andare da solo, e che lo sostenevano e lo “proteggevano” affinché si potesse riposare. In Sardegna Klaus era davvero se stesso, un uomo che, come un bambino, godeva della vita e del gioco senza un vero e proprio scopo. Percorrendo impervi sentieri, durante le nostre passeggiate giornaliere, conquistammo quell’arcaico paesaggio d’entroterra, godemmo dell’ospitalità di Alghero, presso i pastori di montagna e in villaggi isolati; in viaggio recitavamo insieme il breviario, prendendoci molto tempo per la meditazione e le conversazioni. Un momento cruciale era il pasto giornaliero in un ristorante, poiché Klaus sapeva apprezzare la buona cucina – sua madre era una cuoca eccellente. Ma, come ho già detto, dovevamo proteggerlo in questo ambiente di vacanze dalle interferenze, affinché il suo senso del dovere non gli facesse di continuo brutti scherzi. Perciò ciascuno di noi aveva la sua missione: uno si preoccupava di declinare, in modo cortese, gli inviti che aumentavano di anno in anno, un altro svolgeva il compito di sospendere subito discussioni scientifiche e temi di politica ecclesiastica, affinché il villeggiante non ricadesse all’improvviso nel suo ruolo di vescovo e di professore.

«Scusa!», esclamò un giorno all’improvviso, rivolgendosi all’uccellino impaurito che lui e i suoi compagni avevano scovato durante una passeggiata. Questa scena di vacanza su cui spesso tra amici abbiamo riso, era tipica di lui. Se c’era una cosa che non sapeva assolutamente fare, era questo: procurare dolore a qualcuno, ferire l’altro. Il modo insolitamente amabile con cui ci si rapportava nella famiglia Hemmerle era sicuramente la causa principale di questo tratto del suo carattere. L’umiliazione pubblica ricevuta dal suo insegnante di educazione fisica, che era nazista e prendeva sempre in giro gli studenti liceali mingherlini e devoti, sarebbe diventato un altro motivo per cui quest’uomo respingeva ogni costrizione e violenza. Intervenire a volte energicamente per opporre resistenza a colleghi o collaboratori inadeguati non era assolutamente affare suo, anche se ciò fa parte del ruolo di chi governa. Hemmerle conosceva questa sua mancata capacità di imporsi, che non per ultimo gli creava difficoltà nel suo compito di vescovo. Era un uomo senza difese. Si rifugiava piuttosto nell’autoaccusa, invece di rimproverare l’altro. In nessun’altra occasione Klaus mi riprendeva con tanta decisione come nei momenti in cui si faceva sentire la mia indole combattiva e avevo ferito gli altri, benché avessero chiaramente torto. Il rovescio di questo punto debole era uno dei suoi lati forti: non ho conosciuto nessuno che si sia sentito piccolo o inferiore davanti a Hemmerle. Al contrario: chi lo incontrava era trattato con benevolenza; chiunque egli presentava sembrava agli altri una persona simpatica. E non era qualcosa di artificiale, ma l’espressione autentica della sua stima.

St. Peter: pensa alla rovescia!
In un altro campo, però, Klaus Hemmerle era senz’altro un coraggioso combattente, soprattutto quando non era in gioco la suscettibilità umana. Quando si trattava di pensare e di parlare – due cose che erano per lui una sola – allora era nel proprio elemento. Qui osava assumere posizioni delicate e opzioni chiare.

In mezzo all’occupazione giornaliera, Hemmerle, che aveva da ballare sempre contemporaneamente – come si usa dire in tedesco – in diversi matrimoni, non trovava la calma necessaria per rielaborare un ciclo di lezioni per la pubblicazione di un libro. Perciò si concedeva, talvolta per una settimana o addirittura per dieci giorni, una pausa nell’accogliente seminario di St. Peter a Friburgo, a cui era affezionato sin dai tempi degli studi. Lì è nato per esempio il volume Preludio alla teologia (Roma 2003), che presentava le sue lezioni del 1974/75 a Friburgo nella veste di un libro. Oltre che alla filosofia fenomenologica del suo grande maestro Bernhard Welte, in questo libro attinse anche all’ontologia strutturale di Heinrich Rombach, che più di ogni altro s’intende dell’arte di far interagire tra loro stili di pensare e idee geniali di grandi studiosi e artisti di tutte le epoche, e di coniugare, distinguere e tradurre l’una nell’altra strutture mentali apparentemente incompatibili perché completamente differenti ed opposte, vale a dire: di metterle in gioco tra loro. Era un modo di pensare congeniale per Hemmerle che egli ha sviluppato ulteriormente a suo modo.

Nella sua naturale semplicità era sempre aperto a qualsiasi domanda e obiezione. Me ne sono potuto rendere conto forse come nessun altro. Dall’inizio della nostra collaborazione – a trentun anni, nel 1970, divenni il suo assistente nel Comitato centrale dei cattolici tedeschi – mi ha coinvolto nella redazione di tutti i manoscritti. Mi esponeva i suoi pensieri preferibilmente durante una passeggiata o un viaggio in macchina ed era interessato alla mia reazione. Con un foglietto in mano, su cui aveva sommariamente scarabocchiato le sue idee – egli faceva economia estrema soltanto con la carta e con il suo tempo libero – era abituato ad andare su e giù per la stanza e dettare un articolo scientifico, un libro o una presentazione da fare in pubblico. Io stenografavo tutto, interrompevo, però, il dettato quando mi veniva in mente una obiezione di cui brevemente si discuteva. Poi si rileggeva l’ultimo passaggio e si andava avanti. Prendendo così appunti con senso critico, ho imparato più velocemente e intensamente che durante gli studi, soprattutto disciplina mentale e nuovi sentieri del pensiero.

A proposito di disciplina: quante volte quest’uomo era stanco morto, quando rimaneva in sospeso la formulazione di un altro testo; quante volte soffriva di un terribile mal di testa, cosicché non osava muovere il capo. In queste condizioni ha discusso con me, per esempio, seduto sul divano della sua casa a Friburgo, la lettera di compleanno per Hans Urs von Balthasar, apparsa in seguito come Tesi di ontologia trinitaria (Roma 19962), un testo estremamente concentrato, forse il suo saggio più importante. Dopo qualche tempo, l’emicrania si calmò. Il suo metodo di scacciare il mal di testa attraverso il più grande sforzo mentale possibile aveva avuto di nuovo successo. In due giorni il libricino era pronto. Poche letture – oltre le fonti, leggeva a malapena qualcosa: «altrimenti non trovo il tempo per scrivere» –, attenta riflessione, colloqui con un partner competente, formulazione accurata e percezione della reazione del lettore o uditore – questa era la solita successione alla scoperta di paesaggi spirituali e di pensiero. Per quanto Hemmerle potesse essere accomodante nei confronti degli altri, soprattutto di chi gli era vicino per motivi personali o di lavoro, quando si trattava di testi, e specie dei suoi, era intransigente. Ne ho fatto abbondante esperienza nell’elaborazione per iscritto di tanti appunti presi mentre egli parlava. Pigrizia mentale, grettezza e tattica inopportuna per questo limpido e schietto uomo di pensiero furono spesso un tormento, soprattutto nell’ambito della Chiesa.

Strutture: Hemmerle come «architetto»
Hemmerle era un bravo disegnatore. Nel corso di conferenze, con i loro dibattiti spesso noiosi e accaniti, ascoltava con un orecchio e prendeva la parola al momento giusto. Contemporaneamente rilassava se stesso e i suoi vicini dando libero sfogo alla sua voglia di giocare. Tracciava caricature azzeccate dei protagonisti, abbozzava schizzi di situazioni surrealistiche, formulava spiritosi giochi di parole. Doveva a suo padre questo senso dell’umorismo bonariamente furbesco e la capacità di far emergere la comicità involontaria di determinate situazioni, con la quale sapeva sbloccare dibattiti fermi in condizione di stallo e ricondurre al buon senso prese di posizione unilaterali.

Klaus, il cui padre era pittore di chiese, aveva anche accarezzato l’idea di fare l’architetto. A suo modo, lo è pure diventato. Penso, infatti, non solo al suo amore per l’arte: suonare il pianoforte, dipingere, scrivere poesie, interpretare, formulare. Mi riferisco prima di tutto e in particolare alla sua capacità di organizzare spazi vitali, processi e manifestazioni in modo tale che risultassero riusciti sul piano teologico, umano e funzionale. In proposito bisogna menzionare l’Incontro ecumenico di Pentecoste del 1971 ad Augusta, – primo tentativo di una Giornata delle Chiese svolta in comune –, le Giornate dei cattolici dal 1968 fino a Dresda nel 1994, nonché il Sinodo generale delle diocesi della Repubblica Federale Tedesca che si riunì dal 1971 al 1975 a Würzburg, per “tradurre” il Concilio Vaticano II nella situazione tedesca – con successo, credo. Qui Hemmerle mostrò la sua straordinaria capacità di elaborare idee che andavano in profondità e allo stesso tempo erano di grande attualità, e di trasformarle in programmi e decisioni. Il Comitato centrale dei cattolici, e soprattutto il segretario generale Dott. Friedrich Kronenberg e i vari presidenti, erano per queste creazioni architettoniche i partners ideali e lui per loro. Se avesse trovato in diocesi e in seno alla Conferenza episcopale simili partners anche in altri ambiti, certe iniziative non sarebbero rimaste incompiute o episodi passeggeri. Le diagnosi, le idee e i concetti erano il suo forte, mentre per la realizzazione “politica” necessitava di altri.

Oratore eloquente e celere pensatore, si sentì spesso rivolgere dai suoi critici un medesimo rimprovero: il suo pensiero sarebbe troppo astratto, nel vuoto egli giocherebbe con idee e parole finché cose incompatibili non si componessero finalmente in armonia – secondo lui. «La vera vita è molto più complessa», dicevano. Tale rimprovero, a mio avviso, risulta un tragico fraintendimento. Il pensiero di Hemmerle non era astratto nel senso di avvulso dal mondo e dalla vita, bensì formale, strutturale. Lui tracciava linee, non dipingeva quadri.

Ne è un esempio il suo testo su Bonaventura La teologia come sequela. In occasione del settecentesimo anniversario della morte di Bonaventura, tenne a Friburgo un corso su questo grande pensatore medievale, elaborandolo poi come un libro nel seminario St. Peter. Andando ad esaminare le note e le citazioni, si vede che le fonti cui attingeva erano appena 100 pagine dei dieci grandi volumi delle opere complete. Questa analisi estremamente circoscritta dei testi era per lui sufficiente per penetrare nelle profondità di questo pensiero. Nella mia successiva dissertazione su Bonaventura, per l’abilitazione, il suo libro, assieme ad altri quattro libri e saggi, rappresentò per me l’ispirazione più importante. Come pochi altri, Hemmerle ha saputo mettere in luce il pensiero di Bonaventura nella sua profondità, nelle sue premesse e nelle sue conseguenze. Simili esperienze le abbiamo fatte nella cerchia dei suoi discepoli – tra i quali fui annoverato honoris causa – quando presentavamo i nostri lavori scientifici e Klaus li commentava con fenomenale capacità di immedesimazione: con precisione faceva emergere l’essenziale, evidenziava le lacune e le discordanze e forniva stimoli decisivi che spingevano ad un’ulteriore riflessione.

Voglio illustrare ciò con un dettaglio. Quale scoperta furono per Hemmerle le prime pagine dell’Hexaemeron di Bonaventura! In esse Bonaventura delinea l’essenza della Chiesa come Vangelo vissuto. Vox, lex, pax, laus sono le parole guida. Già il semplice suono di questa successione di parole suscita interesse, pure in chi non intende la lingua latina. La Chiesa è vox, voce, vale a dire: essa è chiamata a “tradurre” fedelmente il Verbum, la parola fattasi carne in Gesù Cristo. Con tutti i sensi e compromettendosi esistenzialmente, apprende il Vangelo come lex, come norma di tutti i pensieri, i sentimenti e le azioni. Poi il Vangelo vuole espandersi integralmente in linea orizzontale come pax, come reciproco amore; poiché la Chiesa è, secondo questo testo, “reciproco amore”; la sua struttura gerarchica-dogmatica è soltanto la veste esterna del suo mistero nascosto. Infine la dinamica del Vangelo spinge nuovamente verso l’alto, verso Dio, nella lode comune a Dio, la laus Dei. E poi l’osservazione conclusiva di Bonaventura: i veri nemici del Vangelo provengono dal cuore della Chiesa, dalla Sorbona, la famosa università parigina dove Bonaventura insegnò. Sono i teologi che distruggono l’amore, perché combattono il radicalismo della sequela di Gesù nei nuovi Ordini mendicanti dei francescani e dei domenicani come un rinnovamento contrario alla tradizione, e sono i filosofi i quali, affascinati dalla riscoperta della filosofia antica, compromettono la verità della rivelazione.

I miei commenti fanno forse immaginare quanto l’intuizione di Bonaventura entusiasmava Hemmerle e quali conseguenze lui ne traeva per una riforma profonda, oggi necessaria, della Chiesa. Ma questo lo può intuire solo chi conosce la teologia e la storia della Chiesa e chi sa corredare questi pensieri formali con i necessari contenuti concreti. Lo stesso vale per molti suoi scritti e relazioni che, nella versione stampata, possono apparire “astratti” e senza grandi conseguenze, ma negli ascoltatori – insegnanti, scienziati e artisti, uomini e donne – sprigionarono una luce nuova, perché le sue osservazioni e le sue intuizioni coglievano nel centro, condensavano in una formula la loro esperienza e aprivano prospettive nuove. Siccome Hemmerle era un pensatore formale, risulta anche estremamente difficile, quasi impossibile, scrivere su di lui una dissertazione ragionevole. Poiché lui stesso ha enucleato chiaramente le strutture formali, mentre la “carne”, cioè i contenuti concreti si trovano a malapena nei suoi scritti – eccetto le opere filosofico-religiose, suo specifico campo di ricerca.

Al limite: dal gioco al caso serio
In alcune situazioni, l’abile pensatore Hemmerle si è scontrato con un limite che lo metteva a tacere. Uno di questi limiti era il dialogo cristiano-ebraico, per il quale si è impegnato con tutte le forze e con grande sensibilità, stringendo coi suoi partners profonde e solide amicizie. Il grande rispetto per l’altro, per il diverso, soprattutto per il dolore indicibile che dei cristiani avevano causato agli ebrei, non l’ha mai sostituito con parole di convenienza. Nelle sue opere, su questo tema si trovano soltanto pochissime note, brevi ma molto toccanti. Il più rimane inespresso, solo accennato, ma resta un’esperienza durevole per chi vi era implicato.

Un secondo limite era, come ho già accennato, il suo essere sprovveduto e incapace di difendersi negli “affari di governo” della sua diocesi, per lui difficili. Nei 18 anni trascorsi ad Aquisgrana, non è riuscito a formare una squadra insieme alla quale condurre la diocesi.

Il terzo limite è l’esperienza spirituale più profonda di Hemmerle nel Movimento dei focolari. Solo una settimana prima della sua morte, parlò apertamente di questo suo segreto personale in una conversazione che venne pubblicata su Das Prisma n. 1/1994 con il titolo: Dio Trinità; la nostra dimora: l’esperienza di Dio in Chiara Lubich1. In questo contributo racconta della decisiva esperienza spirituale che fece nella Mariapoli del 1958 in Italia, e di come in quell’occasione la sua ricerca spirituale e teologica di Dio, durata anni, raggiunse improvvisamente lo scopo, nella sconvolgente esperienza di Dio che egli potette fare all’interno di questa comunità. La luce che ebbe quella volta e che ruppe gli argini del suo pensiero speculativo e diede alla sua vita una nuova dimensione esistenziale, lo affascinò per tutta l’esistenza e lo impegnò davanti a Dio.

L’ultimo limite, infine, era la sua tragica malattia che fece sì che egli morisse così presto. Il senso dell’umorismo e la calorosa donazione agli altri non hanno abbandonato questo vescovo neanche sul letto di morte. Conservo ancora vivo il ricordo della visita di commiato l’ultimo giorno della sua vita: egli, nonostante la sua grave insufficienza respiratoria, si era aperto a me per congedarsi, e mi confermò ancora una volta ciò che aveva detto un paio di settimane prima della comparsa della sua grave malattia: «Finora ho servito il regno di Dio quasi solo con azioni. Ma lo si costruisce anche con insuccessi e sofferenze. Sono pronto a questo».

Hanspeter Heinz

 

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1) Traduzione italiana alle pp. 4-8 di questo numero della rivista.