Sequela della fede: possibilità di nuova vita e pensiero

Gesù risorto: credere e pensare

di Piero Coda

Siamo a una svolta epocale che esige una fede cristiana all’altezza dei tempi, se si vuole offrire al mondo la novità e ricchezza del Vangelo, con le sue conseguenze anche a livello antropologico, culturale e sociale. Questa riflessione che offriamo ai lettori, è emblematica di una teologia esperienziale che va nella direzione di tale compito storico.

Nuovo slancio di pensiero

1. Vorrei partire, nella meditazione a voce alta che ho la gioia e la responsabilità di condividere con voi, da un brano di San Paolo apostolo, tratto dalla Lettera ai Filippesi:

«Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3, 8-11).

Le parole di Paolo sono forti, persino veementi, e non lasciano adito a dubbio! La conoscenza di Cristo (gnōsis Cristoú Iēsoú) è posta da Paolo sulla bilancia che pesa ciò che vale come to hyperécon, l’eccedente, il sovreminente, quanto da lungi sorpassa ogni altra cosa e l’oggetto d’ogni desiderio e ricerca, così che tutto è da reputarsi una “perdita” o addirittura un “danno” di fronte ad essa: il “conoscere Lui” – ribadisce Paolo – “e la potenza della sua risurrezione”.

In queste parole, in formidabile e appassionata sintesi, è tutto raccolto il paradosso, meglio l’antinomia – e cioè l’inscindibile tensione polare – che, nell’esperienza di Paolo, attraversa e vivifica la fede in Cristo Gesù.

Quest’antinomia incrocia due tensioni – che si richiamano e s’inverano l’una nell’altra –: da una parte, quella tra la potenza e la sapienza della risurrezione di Gesù e la debolezza e la stoltezza della sua croce, come Paolo dimostra nella prima Lettera ai Corinti (cf 1Cor 1, 18); dall’altra, quella tra il credere in questo, e cioè in Gesù crocifisso e risorto, e lo sperimentare appunto, proprio così, la conoscenza della sua risurrezione: e cioè la novità di un pensare che dà ali alla vita e soffio di novità e incisività storica alla prassi.

Il tema che mi è stato affidato chiede di puntare lo sguardo su questa seconda tensione, quella tra il credere in Gesù risorto e il pensare da Lui e in Lui. Tensione che però non è né sostenibile né pensabile se non come atto e verifica della prima tensione, quella, per intenderci, tra il Crocifisso e il Risorto.

Sono convinto che l’abitare questa tensione, da cristiani ma non solo, si presenti a noi oggi come una priorità ineludibile, anzi come una chance, un kairós, e cioè come il passaggio di un Rubicone che se come cristiani, e non solo, non ci arrischiamo ad attraversare, ci consegna inevitabilmente alla tristezza e al rimpianto di un’occasione perduta, di una risposta non data, di un contributo decisivo non offerto in questo cruciale periodo della storia in cui siamo ingaggiati.

Non è un caso che Benedetto XVI, nella sua enciclica forse più profetica, la Caritas in veritate, inviti con forza a «un nuovo slancio del pensiero» ritenuto, in sé e nelle sue concrete implicazioni, decisivo per superare la crisi epocale che stiamo tutti vivendo. Egli riprende così quanto già aveva rimarcato, con vibrante lungimiranza, Paolo VI nella Popolorum progressio. La crisi economica che ci attanaglia, in verità, getta le sue radici in una crisi ben più profonda, che è crisi di pensiero e crisi dello spirito. Non è possibile uscire da questa crisi, e cioè sanare i virus che ammorbano la vita economica, politica e sociale, senza sanare in radice la schizofrenia che travaglia l’essere umano moderno e contemporaneo: quella tra vivere e pensare, tra identità e relazione, tra uomo e donna, tra spirito e corporeità, tra ragione e fede.

A questa impresa è possibile por mano – da chi è discepolo di Gesù e dalla comunità dei discepoli di Gesù che cammina pellegrina nella storia, fianco a fianco con tutti, a cominciare dai più poveri ed emarginati – solo se ci si immerge nella conoscenza di Gesù Cristo e della potenza della sua risurrezione. In modo nuovo e pieno. In fedeltà all’evento di Gesù e alla parola della testimonianza apostolica, e insieme nell’apertura disarmata ai segni dei tempi e al soffio di novità dello Spirito che, di tempo in tempo, guida i discepoli del Signore «verso la verità tutt’intera» (Gv 16, 13).

Novità per la vita e il pensiero della morte-risurrezione di Gesù

2. Per approfondire questa sfida vorrei, in un primo momento, riprendere tre brani del Nuovo Testamento. Perché mi sembrano descrivere altrettante tappe nella presa di coscienza, anche da parte nostra, della radicale novità che introduce nell’esercizio della vita e del pensiero la Pasqua di morte e risurrezione di Gesù.

Pensare secondo Dio

a) Il primo brano fa riferimento a una tappa cruciale del ministero di Gesù, così come lo descrive Marco nel suo Vangelo. Si tratta del notissimo episodio della “confessione di Pietro” a Cesarea di Filippo (cf Mc 8, 27-29). È il momento in cui Gesù, dopo aver dato l’avvio al suo ministero in Galilea e aver dato prova dell’annuncio dell’avvento del Regno di Dio – e cioè di una novità radicale e dirompente di vita e di rapporti, che nasce dall’Abbà e si dispiega nel concreto della vita –, sta ormai per dirigersi verso Gerusalemme, e dunque verso l’ora cruciale della sua missione e del suo destino.

È allora che egli, dopo che l’apostolo Pietro, in uno slancio di fede suscitato e vivificato dallo Spirito di Dio, ha confessato l’identità messianica del Maestro, per la prima volta confida apertamente agli apostoli che lo seguono il vero tenore della sua missione. «E cominciò a insegnar loro – si legge – che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere» (Mc 8, 31). Di fronte a queste parole, la reazione di Pietro è immediata: non è possibile che sia così! Ma a sua volta, in un straordinario crescendo, Gesù reagisce in modo netto e deciso. Apostrofa l’apostolo addirittura col titolo di tentatore, “shatan”: perché, per Gesù, non fare così, e cioè non offrire con gratuità e senza difesa alcuna la sua vita in conformità al disegno dell’Abbà, sarebbe in verità soccombere alla tentazione diabolica di vivere e pensare la sua messianicità in un modo che non è quello che l’Abbà ha pensato e voluto e gli ha confidato.

Di qui l’invito perentorio a Pietro: «Va’ dietro a me... tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8, 33). Il verbo che Marco utilizza per esprimere questa decisa presa di posizione di Gesù è un verbo quanto mai significativo nel lessico e nella cultura del mondo greco-ellenistico (basti pensare ad Aristotele): phronein. Il verbo, così come il sostantivo corrispondente, phrónesis, significa non solo pensare in un determinato modo e secondo una determinata logica, ma anche vivere e agire in concreto secondo questo modo e secondo questa logica. È chiaro, dunque, che per Gesù vi è un modo di pensare e vivere, un phronein, che è “secondo Dio”, e un modo di pensare e vivere, un phronein, che è “secondo gli uomini”.

Ed è questo specifico modo di vivere e di pensare quello che Gesù assume ed esercita come proprio nella sua esistenza e nella sua missione. Esso troverà la sua massima espressione nell’evento della sua morte e della sua risurrezione.

È lì e allora che Gesù è Gesù, è cioè il figlio dell’uomo che è il Figlio di Dio, il volto vero del Padre nella storia umana e il volto dell’“uomo nuovo” che vive e muore da Figlio di Dio. Come attesta l’esclamazione del centurione ai piedi della croce: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15, 39).

Conoscenza vitale in comunione

b) Un secondo brano che mi sembra interessante prendere in considerazione è quello che, in forma vivida e paradigmatica, ci è offerto dal racconto dei discepoli di Emmaus (cf Lc 24, 13-35). Si tratta di un racconto suggestivo e particolarmente riuscito, in cui Luca, in pratica, descrive che cosa significa e come si attua la presenza di Gesù risorto tra i suoi dopo la Pasqua a partire dall’esperienza fondante delle “apparizioni” del Risorto.

Come sappiamo, i due discepoli scendono da Gerusalemme verso Emmaus sconsolati e spenti, nella mente e nel cuore. Non hanno afferrato il senso e la grazia – misteriosa – di quant’è accaduto, avendo per protagonista Gesù Nazareno. Fin quando un viandante, che è Gesù stesso, il Risorto, si accosta a loro e interpreta in tutte le Scritture ciò che lo riguarda. Al punto che, seduto infine a tavola con loro, ripete i gesti della cena: «Prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro» (24, 30). È nel rivivere questo atto, l’evento della cena, che «si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (24, 31). In quel “riconoscimento” trova conferma e sigillo l’ardore che bruciava nel loro petto «mentre – si dicono l’un l’altro – conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture» (24, 32).

Qual è il significato di questo riconoscimento (epígnosis)? È il fatto che essi, rivivendo con Gesù la cena, alla luce della Scrittura da lui interpretata, ora, con lui vivo in mezzo a loro, mediante quei gesti, entrano vitalmente e insieme in una conoscenza nuova e vera e definitiva di lui. Essi, cioè, non solo riconoscono in colui che ha camminato con loro quel Gesù che nella cena – senza che ancora lo si potesse appieno comprendere – aveva anticipato il senso e la verità della croce: quel senso e quella verità che sono lui stesso, il Vivente e il Risorto. Ma comprendono e accolgono anche il tenore di quel «prendete e mangiate, questo è il mio corpo... prendete e bevete, questo è il mio sangue».

Accade – come ha spiegato Benedetto XVI – che «mediante quelle parole, il nostro momento attuale viene tirato dentro il momento di Gesù. Si verifica ciò che Gesù ha annunciato in Giovanni 12, 32: dalla croce egli attira tutti a sé, dentro di sé»1. E nella Deus caritas est, il Papa spiega:

«La “mistica” dell’Eucaristia ha un carattere sociale, perché nella comunione sacramentale io vengo unito al Signore come tutti gli altri comunicanti: “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane”, dice san Paolo (1Cor 10, 17). L’unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori di me stesso verso di Lui, e così anche verso l’unità con tutti i cristiani. Diventiamo “un solo corpo”,  fusi insieme in un’unica esistenza. Amore per Dio e amore per il prossimo sono ora veramente uniti: il Dio incarnato ci attrae tutti a sé» (n. 14).

È quel che nel racconto lucano dei discepoli di Emmaus, paradossalmente, si attualizza in ciò: che l’evento del riconoscimento del viandante coincide col diventare egli non (più) veduto da loro (cf 24, 31). Gesù risorto, infatti, vive ora, e come tale ha da vivere, in loro: in ciascuno di loro e in mezzo a loro, nel loro essere comunione in Lui, e nel loro ripetere il suo gesto di darsi via per i fratelli. È questa l’intenzionalità del “prendete”. «Io in loro e Tu in me» – aveva chiesto Gesù nella preghiera all’Abbà, nell’ultima cena.

Il Padre in Gesù, Gesù nei discepoli. È dunque questo che Gesù realizza nella Pasqua e comunica nell’Eucaristia. Nel memoriale della cena si attualizza da Gesù tutto il bene della Chiesa per la salvezza del mondo. Senza Eucaristia non vi è Chiesa e non vi è dispensazione della salvezza, che è la vita di Dio – cioè il suo sangue, lo Spirito Santo – in noi, a favore di tutti.

I Padri della Chiesa, con formula pregnante, dicevano che il Figlio di Dio s’è fatto Figlio dell’uomo, perché noi, figli e figlie dell’uomo, possiamo diventare in Lui figli di Dio. Con preciso e suggestivo linguaggio filosofico, il beato Antonio Rosmini scrive che Gesù, nell’incarnazione e nella Pasqua, di cui l’Eucaristia offre il frutto sostanziale, si è “inoggettivato” in noi: ha cioè “trasportato” se stesso in noi al punto da “in-esistere” in noi (e cioè da esistere-dentro-di-noi). Ma ciò si realizza – nella logica del “diede” e del “prendete” – solo attraverso la nostra reale “inoggettivazione” di risposta in lui. È «questa “inoggettivazione” morale in Gesù Cristo – spiega Rosmini – la formula più breve della cristiana perfezione, di qui viene l’espressione solenne: in Cristo. L’uomo cristiano dee sentire, pensare, fare, e patire, avere, essere ogni cosa, in Cristo»2.

Occorre dunque, in virtù dell’Eucaristia, seguire Cristo nel suo movimento di dedizione e identificazione riconciliatrice che lo porta a scendere negli abissi – sino agl’inferi – del cuore, della mente, della vita di ogni essere umano, in ogni tempo e in ogni situazione, per trascinarlo così con sé nel movimento della risurrezione che introduce nel seno dell’Abbà.

Importanza della “kenosi”

c) Un terzo brano del NT può aiutarci a penetrare un poco di più che cosa questo fatto comporta concretamente.

Ritorniamo alla Lettera ai Filippesi da cui siamo partiti. Essa è indirizzata, nel 56/57 d.C., alla prima comunità cristiana in Europa (precisamente in Macedonia), assai amata da Paolo. In esordio, l’apostolo esplicita l’obiettivo della Lettera: «Per questo io prego: affinché l’agápē di voi abbondi ancor più in epígnōsis (= conoscenza) e in ogni aisthēsis (= discernimento)» (1, 9). L’esegeta J. Gnilka commenta: «Nella comunità cristiana i principi fondamentali sono determinati dall’agápē, mentre l’agire ne viene derivato, dedotto. La filosofia morale ellenistica procedeva in senso inverso...»3. Ecco la novità del pensare/agire che sgorga dall’esperienza di fede.

Paolo esorta i Filippesi a edificare una “città nuova”, e cioè una vita sociale che sia all’altezza dell’evento escatologico di Gesù: «Solo politeúesthe (siate città, vivete il vostro essere città) in modo degno dell’evangelo di Cristo (…) per stare (saldi) in un solo spirito, con una sola anima, lottando per la fede dell’evangelo» (1, 27). Gnilka sottolinea che «Paolo ha scelto volutamente il termine politeúesthe per ricordare ai Filippesi quella nuova base di comunione ch’essi hanno raggiunto nella comunità mediante l’evangelo»4.

In questo contesto campeggia l’inno del capitolo 2, esortazione alla comunità a vivere secondo il modello e la radicalità di Gesù. Rileggiamolo con le parole che lo introducono:

«Se dunque c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio; ma svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che “Gesù Cristo è il Signore!”, a gloria di Dio Padre» (Fil 2, 1-11).

L’inno è introdotto dall’invito ad «avere lo stesso sentire (phrónesis: pensiero e atteggiamento), la stessa agápē, essendo un’anima sola e pensando l’uno» (2, 2). L’esortazione alla medesima phrónesis, alla medesima agápē, ecc., non va letta come un invito all’uniformità del pensare e dell’agire, ma come l’invito a convergere nella medesima intenzionalità nel modo di concepire e impostare la vita.

Al versetto 3, Paolo prende di mira due vizi che possono minare alla base la vita della comunità: lo spirito di parte (eritheía) e la vanagloria (kenodoxía). L’atteggiamento da avere è invece la tapeinophrosýnē (sentirsi e vivere umile): sia ritenendo gli altri superiori a sé, sia mettendo al primo posto il bene e l’interesse degli altri.

Al versetto 5 viene introdotto Gesù come l’evento in cui i Filippesi, per la fede in lui, sono costituiti comunità: «pensate e agite tra voi ciò che (è) anche in Cristo Gesù». La phrónesis tra i membri della comunità dev’essere quella che essi ricevono dall’essere in Cristo. In altre parole, l’essere in Cristo ha una dimensione insieme personale e sociale: regola, cioè, la vita personale e la vita sociale – l’una non si dà senza l’altra.

Dal versetto 6 al versetto 11 segue l’inno: con tutta probabilità pre-paolino (come risulta dal linguaggio), inserito in questo contesto con qualche aggiustamento. In esso si descrive come Cristo, che sussisteva nella forma di Dio, si “svuota” di tale forma (nell’incarnazione e nell’ubbidienza spinta sino all’abisso della croce), e come è proprio per questo che Dio gli dona il Nome che è al di sopra di ogni altro nome: e cioè lo riconosce Kýrios, Signore.

La parola kenosi ricorre qui per la prima e unica volta nel NT. Essa designa, in modo profondo e paradossale, l’atto libero di amore con cui Cristo, nell’incarnazione e nel patire ubbidiente sino alla morte di croce, “arrischia” il suo essere come Dio: e ciò perché non «ritiene una sua (esclusiva e gelosa) proprietà l’essere uguale a Dio».

Si tratta di un fatto oggettivo. In questo testo, diversamente da quanto accade nei Vangeli di Marco e di Matteo, non è tematizzata esplicitamente l’esperienza soggettiva vissuta da Gesù nell’abbandono (ecco il grido, di cui nei due Vangeli è data testimonianza): ma il suo atteggiamento radicale ed esistenziale di “svuotamento” di ciò che gli è più prezioso (l’uguaglianza con Dio) è proposto come il modello, meglio come la dinamica della vita in comunità e cioè della vita di agápē.

Si lascia del resto intendere, sullo sfondo, che questo atteggiamento di Cristo è quello che corrisponde al suo essere di Figlio, quello dunque gradito al Padre e da Lui voluto, quello secondo il cuore di Dio.

È pensare e vivere (phronein) «secondo Dio e non secondo gli uomini».

Credere e pensare «nel Risorto»

3. Vengo così al secondo momento della riflessione, assai più breve. Si tratta di offrire qualche spunto soltanto per avviare un ulteriore scavo e un proficuo dialogo.

La domanda che dobbiamo porci, alla luce della testimonianza biblica a proposito della «conoscenza di Gesù e della potenza della sua risurrezione» in noi che abbiamo riascoltato, e della sfida dell’oggi (che, ripeto, è in se stessa un kairós, un passaggio di Dio nella nostra vita) è, più o meno la seguente: qual è il significato reale, impegnativo, rischioso e forse anche inedito, del coniugare credere e pensare nel Risorto?

Vorrei tentare una risposta assumendo a filo conduttore tre frasi, quasi degli slogan, che in quest’ultimo periodo ho incontrato rileggendo alcuni Padri della Chiesa e che mi paiono di estrema attualità per delineare il nuovo pensiero o, meglio, il pensare nuovo che ci attende al varco e ci è promesso in Gesù crocifisso e risorto. Del resto, Paolo afferma perentoriamente, nella Prima lettera ai Corinti:

«L’uomo lasciato alle sue forze non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché di esse si può giudicare per mezzo dello Spirito. L’uomo mosso dallo Spirito, invece, giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno. Infatti chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo consigliare? Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1Cor 2, 14-16).

Noi abbiamo il nous, la mente, il pensare di Cristo! È questo il dono, tutt’uno con quello della giustificazione e della salvezza, che ci è elargito nella Pasqua di Gesù dallo Spirito Santo. È questo dono che dobbiamo accogliere, capire, esercitare.

Qualche giorno fa, ho tenuto una sessione di esami all’Istituto Universitario Sophia, di cui sono Preside. Gli studenti provengono da diverse nazioni e da diversi percorsi disciplinari. Luciana, laurea in giornalismo, viene dal Brasile dove lavorava nel campo delle telecomunicazioni. Il tema dell’esame è la cristologia del Vangelo di Marco. Inaspettatamente, a un certo punto, mi esprime, con discrezione ed emozione, la “scoperta” che ha fatto rileggendo, alla luce dell’esperienza da lei fatta lungo quest’anno nella nostra comunità accademica di studio e di vita, la risposta che Gesù dà al dottore della legge che gli chiede qual è il primo dei comandamenti:

«Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi» (Mc 12, 29-31).

Ecco, quell’amare Dio anche con tutta la mente – mi ha detto – è ciò che ho sperimentato: amare Dio, accogliendo da Lui la luce che in Gesù illumina e discerne il senso e il cammino della nostra storia. Di qui una gioia piena, rotonda, – ha continuato –: perché così amo Gesù con tutta me stessa. Non solo con il cuore, l’anima, le forze, ma anche con l’intelletto.

Ma che cosa vuol dire questo? e come si fa? e che cosa comporta per il nostro essere, a fianco di tanti, lievito di trasformazione anche sociale e culturale?

Un nuovo stile di pensiero

a) La prima, delle tre parole annunciate, la prendo da Sant’Agostino, in esordio del libro delle Confessioni: «moriar, ne moriar» (I, 5, 5) – che io sappia morire, a me stesso, per non morire più, e cioè per risorgere con Gesù da “nuova creatura”. È ciò che scrive San Paolo:

«Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2, 19-20).

Che cosa significa ciò per il pensare, per il progettare, per l’agire – in una parola per il phronein secondo Dio?

Direi che significa – tento solo un abbozzo di risposta, che va precisato, integrato, sviluppato... –: un pensiero che accoglie, un pensiero che è trasparente, un pensiero che si fa uno con l’altro, un pensiero che risorge dall’altro e con l’altro.

Un pensiero che accoglie vuol dire un pensiero che – in alternativa al pensiero dominante – non è possessivo, onnivoro, inebriato (più o meno sottilmente) dalla “volontà di potenza”, ma che, piuttosto, si fa spazio grato e stupito in cui può riversarsi il dono di ciò che è e di ciò che accade – da Dio. Un pensiero, dunque, recettivo, relazionale, amante, fresco, gioioso. Non facilone o buonista, certo, ma nella vigilanza capace di cogliere il darsi della luce e dell’amore di Dio nel dipanarsi anche tragico della storia.

Un pensiero trasparente è un pensiero che non vuole autopossedersi o, meglio, che non si fa strumento attraverso il quale l’io si rafforza e si rinchiude nella fortezza della propria identità. E che, perciò, spesso, è inficiato dal pregiudizio, dal sospetto, dal disincanto, dalla sfiducia, dal secondo fine; ma che, piuttosto, essendo tutto aperto a Dio, è aperto a 360° alla storia, è puro, dritto, disarmato, pur nella sua accorta capacità di discernimento e di prudenza: «siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (cf Mt 10, 16).

Un pensiero, dunque, che sa farsi “uno” con l’altro. E quanto c’è oggi bisogno di questo! Pensiamo soltanto alla grande sfida della “nuova evangelizzazione”... Ecco come Paolo si esprime in proposito nella Prima lettera ai Corinti:

«Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti, per guadagnarne il maggior numero; con i Giudei, mi sono fatto giudeo, per guadagnare i Giudei; con quelli che sono sotto la legge, mi sono fatto come uno che è sotto la legge (benché io stesso non sia sottoposto alla legge), per guadagnare quelli che sono sotto la legge; con quelli che sono senza legge, mi sono fatto come se fossi senza legge (pur non essendo senza la legge di Dio, ma essendo sotto la legge di Cristo), per guadagnare quelli che sono senza legge. Con i deboli mi sono fatto debole, per guadagnare i deboli; mi sono fatto ogni cosa a tutti, per salvarne ad ogni modo alcuni» (1Cor 9, 19-22).

La logica qui esplicitata da Paolo come significato profondo, cristologico, del suo agire apostolico è netta e incalzante. La possiamo riassumere, nella sua acmé – il punto suo più alto e radicale, e per certi versi sconcertante –, nell’affermazione: «mi sono fatto come uno che è senza legge (ánomos) con chi è senza legge». Si tratta, ovviamente, della Torah. Significa, per uno che come Paolo viene dal giudaismo, emanciparsi anche dalla propria identità più profonda per farsi uno con l’altro. È l’abbandono patito da Gesù in croce che spinge Paolo a questo: Gesù sacrifica, arrischia addirittura il suo rapporto d’unità con il Padre per farsi uno di noi, per farsi uno con noi. Non è che così egli perda la propria identità: perché essa, anzi!, si manifesta precisamente nella capacità di amare l’altro fino al punto da accoglierlo così com’è!

Lo stesso Paolo, parlando degli Ebrei, i cui capi avevano eliminato Gesù escludendolo dalla comunità dell’alleanza, sottolinea che di fatto, proprio così, paradossalmente, essi hanno fatto sì che la comunità dell’alleanza si rendesse estranea alla pienezza della salvezza donata da Dio in Gesù. Ma Paolo, seguendo la logica di Gesù, dice allora di voler diventare lui stesso “anatema” affinché i suoi fratelli trovino Gesù:

«Dico la verità in Cristo, non mento, poiché la mia coscienza me lo conferma per mezzo dello Spirito Santo. Ho una grande tristezza e una sofferenza continua nel mio cuore; perché io stesso vorrei essere anatema, separato da Cristo, per amore dei miei fratelli, miei parenti secondo la carne, cioè gli Israeliti, ai quali appartengono l’adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il servizio sacro e le promesse; ai quali appartengono i padri e dai quali proviene, secondo la carne, il Cristo, che è sopra tutte le cose Dio benedetto in eterno. Amen!» (Rm 9, 1-5).

Anatema, dal greco ana + tithemi, significa letteralmente “porgere verso l’alto”, fare un’offerta agli dèi, fare un sacrificio, e così offrire qualcosa al posto di sé. “Anatema”, a partire di qui, diventa sinonimo di separazione ed espiazione: perché nel sacrificio si offre qualcosa in segno dell’offerta di sé e per espiare il proprio peccato (come il capro espiatorio: che viene caricato dei peccati, fatto così luogo di concentrazione della “maledizione” e poi scacciato e votato alla distruzione).

Paolo, in questa logica, dice di voler farsi egli stesso anatema (separazione) perché gli altri, attraverso Cristo, possano entrare nella piena comunione con Dio. È la logica dell’espiazione vicaria (Stellvertretung): non solo farsi uno con l’altro, ma prendere il posto dell’altro per assumere su di sé le conseguenze del peccato e guadagnare per lui la salvezza. Paolo, dunque, vuol vivere, rispetto agli Ebrei, suoi fratelli e consanguinei, la stessa cosa che Cristo ha vissuto per tutti.

Farsi “anatema” vuol dire, paradossalmente, preferire staccarsi da Cristo per dare agli altri Cristo stesso, perdere Dio per dare agli altri Dio. Un paradosso: il massimo dell’amore! Ci sono alcuni santi, “folli di Dio” – e se non si diventa un po’ folli non si è cristiani, ci vuole un’equilibrata misura di follia per essere cristiani! – che giungono a dire di preferire andare loro all’inferno, per liberare qualcuno che vi è dentro. Fino a questo punto può arrivare l’amore! Paolo ha intuito che nell’abbandono di Gesù c’è una misura s-misurata: «la follia della croce» di 1Cor 1, 17-25.

Ecco allora, infine, un pensiero che, proprio per questo farsi uno con l’altro, sperimenta la risurrezione dal e con l’altro. In linguaggio laico: la vulnerabilità dell’amore genera incontro vero e di qui vita nuova. Scrive Maria Teresa Porcile:

«Gesù, nel comunicarci il segreto più grande, il nome del Padre, ci chiama “amici”. Non si ha rivelazione dell’essere di Dio se non nell’amore e nell’amicizia. Ciò significa apertura all’altro, differente, che ci arricchisce; che, benché a volte infastidisca o ferisca, finisce col dilatare lo spazio del cuore. L’esperienza personale universale è che l’amico, l’amore, l’amicizia “rivelano”; l’incontro con l’altro differente provoca dei cambiamenti: fa evolvere e crescere. Nella Chiesa non c’è posto per la paura: la parola finale è quella del discernimento nello Spirito e questo (o questa? ... lo Spirito ha peculiari caratteristiche femminili) la condurrà nell’amore alla verità completa (Gv 16, 13)»5.

Tutto questo comporta, per il pensare, il «moriar, ne moriar» di Sant’Agostino come inserzione nella Pasqua di croce e di risurrezione di Gesù.

Conoscere in dialogo/reciprocità trinitaria

b) Ma veniamo alla seconda parola che avevo promesso e che dice, in modo bello e semplice e persuasivo, lo stile del pensare in Gesù risorto. L’ho trovata in Ilario di Poitiers, un Padre della Chiesa del IV secolo: «nemo enim novit nisi invicem», nessuno infatti conosce se non in reciprocità6.

Il contesto, in Ilario, è quello trinitario evocato dal lóghion gesuano attestato da Mt 11, 27: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo». È questo invicem, “in reciprocità”, e cioè in dialogo, che descrive lo spazio dinamico, il va-e-vieni dal Padre al Figlio e dal Figlio al Padre. E noi siamo presi dentro questo ritmo: «Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me» – spiega Giovanni nel quarto Vangelo (cf 17, 23).

Potremmo dire, in rapida sintesi, che l’invicem tra i discepoli della via (Gesù) è lo spazio in cui accade l’invicem, in noi, tra il Padre e il Figlio, che ne è il fondamento e la forma. Si tratta di coniugare, a livello anche intellettuale, oltre che spirituale, – per dirlo con le metafore di Teresa d’Avila e di Chiara Lubich – l’esperienza del “castello interiore” e quella del “castello esteriore”: Dio in ciascuno di noi, per Cristo, e Dio in mezzo a noi e per tutti, in Cristo. In un ritmo che armonizzi, trinitariamente, l’invicem tra Padre e Figlio con l’invicem dei figli nel Figlio.

Scrive Chiara Lubich, in un denso e luminoso testo del novembre 1949:

«Dio che è in me, che ha plasmato la mia anima, che vi riposa in Trinità (con i santi e con gli Angeli), è anche nel cuore dei fratelli.

Non è ragionevole che io Lo ami solo in me. Se così facessi il mio amore avrebbe ancora qualcosa di personale, d’egoistico: amerei Dio in me e non Dio in Dio, mentre questa è la perfezione: Dio in Dio (ché è Unità e Trinità).

Dunque la mia cella, come direbbero le anime intime a Dio e noi [diremmo] il mio Cielo, è in me e come in me nell’anima dei fratelli. E come Lo amo in me, raccogliendomi in esso – quando sono sola –, Lo amo nel fratello quando egli è presso di me.

Allora non amerò il silenzio ma la parola (espressa o tacita), la comunicazione cioè del Dio in me col Dio nel fratello. E se i due Cieli si incontrano ivi è un’unica Trinità ove i due stanno come Padre e Figlio e tra essi è lo Spirito Santo. […]

Ma occorre perdere il Dio in sé per Dio nei fratelli. E questo lo fa soltanto chi conosce ed ama Gesù Abbandonato»#7.

La comunicazione di Dio a Dio in Dio – la Trinità – viene così percepita e vissuta, nell’identificazione a Cristo crocifisso e risorto, come la comunicazione di Dio in sé con Dio nell’altro, e viceversa. Là dove, come in Dio Trinità, si dà la reciprocità aperta ed effusiva dell’amore – e cioè dell’apertura/accoglienza e della dedizione/consegna in rapporto all’altro – si realizza la comunicazione in Dio di Dio, attraverso la nostra umanità vissuta in Cristo. Si attua cioè, nella prolessi del tempo escatologico inaugurato da Gesù, il «come in cielo così in terra».

Pensare che sboccia dalla fede nel Risorto

c) È mia ferma convinzione – e con ciò concludo – che in ciò ci sia dato il pegno dell’esperienza e della pratica del nous Cristou di cui parla l’apostolo Paolo, asserendo che esso, per grazia, dimora ormai in noi e da noi dev’essere esercitato. Se è così, occorre interrogarci a fondo, e in concreto, se di questo pensare che sboccia dalla fede in Gesù risorto abbiamo esperienza, coscienza, intelligenza.
Per le prime generazioni dei discepoli di Gesù tale era l’annuncio e tale era la promessa. E forse oggi, se – assisi con assiduità e sincerità alla mensa di chi non ha luce, come insegna Teresa di Lisieux, il Dottore della Chiesa del nostro oggi – senza paura attraversiamo questa soglia per inoltrarci nello spazio dell’invicem, ci sarà dato inoltrarci, con umiltà, speranza e condivisione, nella “terra promessa” di questo kairós. Tra le luci e le ombre dei tempi umani, nell’attesa del giorno senza tramonto.
Ecco la terza parola che prendo dalle mani di un autore coevo agli scritti più maturi del Nuovo Testamento, Clemente di Roma, che nella sua Lettera ai Corinti, stupito e grato, esclama: «attraverso di lui (Cristo Gesù) la nostra insipiente e oscurata intelligenza fiorisce nuova nella luce» (36, 2).
L’auspicio, e l’impegno, è che tutti gli ambienti di vita, di formazione e di lavoro che ci vedono protagonisti nella sequela della fede e nel servizio da essa suscitato, diventino laboratori e palestre di questo stile di vita e di pensiero: il phronein secondo Dio testimoniato e annunciato dal NT.


Piero Coda

1) J. Ratzinger (Benedetto XVI), Gesù di Nazaret, II. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011, 158.
2) A. Rosmini, Teosofia, parte I: Ontologia, Libro III L’essere trino, Sez. III, Cap. I, Art. IV, n. 899; Opere, vol. 13, a cura di M. Adelaide Raschini e P.P. Ottonello, Istituto di Studi Filosofici – Centro Internazionale di Studi Rosminiani – Città Nuova, Roma 1998, 209.
3) J. Gnilka, Der Philipperbrief, Verlag Herder, Freiburg im Breisgau 1968; tr. it., La lettera ai Filippesi, Paideia Editrice, Brescia 1972, 116-117.
4) Ibid., 183.
5) M.T. Porcile Santiso, La donna spazio di salvezza. Missione della donna nella Chiesa: una prospettiva antropologica, EDB, Bologna 1996, 22.
6) Ilario di Poitiers, De Trinitate, II, 11.
7) Testo originale riportato in “Nuova Umanità” 24 (2002) n. 143, 586-587.