Spiritualità dell’unità e agire pastorale

Per una cultura pastorale che generi la Chiesa-comunione

di Mons. Giuseppe Petrocchi

 

Il testo riporta ampi stralci di una conversazione tenuta nell’agosto scorso dal Vescovo di Latina-Terracina-Sezze-Priverno durante un incontro internazionale di vescovi a Forno di Coazze (Torino). Attingendo al Carisma dell’unità, l’autore delinea alcune piste d’azione per promuovere uno stile pastorale che metta a frutto le ricche potenzialità della visione di Chiesa proposta dal Concilio Vaticano II.

 

Tra le domande da porci con urgenza, in questo 50° dall’inizio del Concilio Vaticano II, è senza dubbio quella di come dar vita a una cultura pastorale che generi e rigeneri costantemente la Chiesa come comunione e faccia dilatare tale corrente di comunione anche oltre la Chiesa, nelle varie espressioni della cultura e nelle articolazioni della società.

Va chiarito in partenza che una simile cultura pastorale non potrà essere costruita in modo cattedratico, ma potrà prendere forma solo attraverso il dialogo comunionale, e che non potrà che essere flessibile e plurale, proprio perché rispecchia “sensibilità” pastorali e tradizioni ecclesiali molto diverse. Di conseguenza, essa si nutre e si sviluppa attraverso il confronto fraterno, l’opportuna “dialettica” critica, lo scambio creativo di idee e di esperienze, l’apertura incondizionata ai dati che provengono dalla verifica “sul campo”. Costituisce, inoltre, una cultura dinamica e in continuo divenire: capace di continuità e di cambiamento, attenta a custodire i contenuti collaudati ma pure aperta alla novità. Per tale ragione forse sarebbe meglio parlare di culture pastorali.

Va premesso pure che un simile sforzo, da parte di noi vescovi, dovrà essere radicato nella piena fedeltà al Successore di Pietro e nella tensione a vivere la collegialità episcopale, in un costante approfondimento del patrimonio dottrinale, spirituale ed esistenziale della Chiesa.

Sostenuti da questa unità, dovremo impegnarci a promuovere la spiritualità e la prassi dell’unità e della comunione prima di tutto nell’ambito del nostro presbiterio. Infatti, «il ministero dei presbiteri è innanzitutto comunione e collaborazione responsabile e necessaria al ministero del vescovo, nella sollecitudine per la Chiesa universale e per le singole Chiese particolari»1. A loro volta, i vescovi hanno nei presbiteri dei «necessari collaboratori e consiglieri nel ministero e nella funzione di istruire, santificare e governare il Popolo di Dio»2. Il presbiterio, pertanto, costituisce per noi vescovi, uno “snodo ministeriale” fondamentale e irrinunciabile per lo svolgimento dell’apostolato nelle nostre Chiese. Mi sembra importante, perciò, seminare incessantemente la spiritualità dell’unità e della comunione tra i nostri sacerdoti, testimoniando e promuovendo la consapevolezza che per fare-comunione bisogna essere-comunione.

Alla luce di queste premesse, vorrei tentare di indicare qui alcune piste d’azione per sviluppare sempre più, nelle nostre diocesi, una cultura pastorale che promuova ed irradi la comunione non solo all’interno della Chiesa ma anche come anima di un rinnovamento della società3.

 

Insegnare l’arte di «comunionalizzare» la mente

Innanzi tutto, mi sembra di primaria importanza vivere e insegnare l’arte di “comunionalizzare” la mente, maturando un autentico pensare-Chiesa: il che vuol dire anzitutto essere in piena sintonia con il magistero del Santo Padre e dei vescovi in comunione con lui.

Ma il pensare-Chiesa comporta anche apprendere e sviluppare il discernimento comunitario, che esige l’arte di valutare e progettare “al plurale”, cioè come “noi” evangelico. Il che comporta un monitoraggio costante sulle proprie idee e sui comportamenti adottati, per non cadere nel rischio (molto diffuso nella cultura contemporanea) di restare imbrigliati in logiche particolaristiche e settoriali.

Per spiegare meglio questo aspetto, mi sono servito spesso di un paragone: una mamma, che deve provvedere al buon andamento della sua casa, gestisce tutto il proprio tempo e le risorse di cui dispone nel segno dell’insieme-famiglia. Anche quando opera da sola non agisce mai al singolare (cioè nella dimensione esclusiva del per me) ma sempre nell’orizzonte della comunità-casa di cui è parte: perciò, pensa a tutti anche nel fare le scelte che riguardano ciascuno. Per esempio: nel decidere un acquisto non sarà mai guidata dal suo interesse particolare, ma darà la precedenza al bene comune. Questa mamma, dunque, pur impegnando la sua intelligenza e i suoi sentimenti, pensa e agisce al plurale, cioè nel e per il noi-famiglia.

 

Insegnare l’arte di «comunionalizzare» il cuore

Inoltre, per impostare e condurre attività evangelicamente efficaci, occorre vivere e insegnare l’arte di “comunionalizzare” il cuore, dilatando e intensificando la carità-Chiesa: ciò comporta anzitutto lasciarsi amare dalla Chiesa (che è madre e maestra), per diventare idonei ad amare “con” la Chiesa e “come” Chiesa.

Per rendere più plastico e “iconico” il mio pensiero, ho raccontato, nel corso di un’assemblea, un episodio accaduto quando ero parroco. Al termine di un incontro di catechismo, in cui avevo sottolineato che l’amore cristiano è sempre “cattolico”, cioè universale, una bambina mi consegnò, come sintesi della “lezione”, un foglio. Era diviso in due: in una parte aveva disegnato il mondo con dentro un piccolo cuore rosso e vicino c’era una frase: “così ero io prima”. Nell’altra parte, invece, compariva un grande cuore rosso che conteneva il mondo e accanto aveva scritto: “così mi sento oggi”.

Questa immagine mi è sembrata un compendio molto efficace dell’idea che ho inteso proporre. Infatti, “comunionalizzare” il cuore significa – grazie all’azione dello Spirito – spalancarlo sulla Chiesa universale e sull’intera umanità. Così diventa un cuore che abbraccia anche la Chiesa diocesana, e, per questo, ne contiene tutti i componenti, nessuno escluso. Un cuore così dilatato è pronto ad impegnarsi nel particolare, mantenendo sempre attiva la prospettiva dell’insieme-Chiesa. Quel disegno, perciò, ci suggerisce una essenziale considerazione: non basta avere il cuore nel mondo, ma occorre avere il mondo nel cuore.

Allargando la riflessione, si può dire che, se siamo comunione, ognuno di noi, insieme al “noi-comunità” in cui siamo inseriti, è parte della Chiesa, ma si può anche affermare che tutta la Chiesa è presente ed opera in ciascuno di noi e nel “noi-comunità”. La conseguenza è fondamentale: se uno agisce soltanto come ego, barricato nella sua individualità, gli effetti della sua azione saranno proporzionali a ciò che è e a ciò che ha, ma non andranno oltre il perimetro ristretto della sua persona. Invece, se agisce “in” comunione, è la Chiesa intera che opera attraverso lui: allora gli effetti della sua azione non saranno riconducibili solo a lui, ma avranno una portata molto più ricca, corrispondente alla misura in cui avrà lasciato transitare la vita del Corpo Mistico in sé e in ciò che fa. Ecco perché i santi hanno compiuto grandi cose, molto più ampie rispetto al raggio delle loro potenzialità. In tale quadro teologico viene fortemente in risalto che la prima attenzione nel fare apostolato deve essere quella di essere-Chiesa, sempre e in tutto, perché solo così si potranno portare i frutti-della-Chiesa.

 

Vivere l’arte di «comunionalizzare» il carisma di ciascuno…

Ciò comporta anche vivere e insegnare l’arte di “comunionalizzare” il proprio “carisma”, mettendolo al servizio di tutti. Nessuno, infatti, può “privatizzare” la grazia che riceve: ciò che è donato dallo Spirito viene dalla Comunione, è dato per la Comunione, va vissuto in Comunione. Ecco perché nessun carisma – personale o associativo – può custodire e coltivare la propria fisionomia “indipendentemente” dagli altri carismi o “al di fuori” dell’insieme-Chiesa. Davvero nell’unico Corpo di Cristo nessuno “vive per se stesso”, ed ognuno diventa veramente se stesso nella misura in cui si fa dono-per gli altri e si apre al dono-degli altri.

Ciò non comporta affatto un disconoscimento o un depauperamento della propria identità personale o comunitaria; al contrario, favorisce la crescita piena e ben armonizzata della vita del singolo e della comunità: nel noi-Chiesa, infatti, ogni carisma particolare è riconosciuto, rispettato e valorizzato.

 

… per «comunionalizzare» l’azione pastorale

Vivendo in questo modo diventa possibile “comunionalizzare” la pastorale, perché diventi in pienezza azione corresponsabile, integrata e missionaria.

Inoltre, nella famiglia dei figli di Dio, tutti partecipano di tutto. Di conseguenza, ogni conquista positiva diventa patrimonio comune: così il bene, circolando e suscitando nuovi apporti, si moltiplica e si diffonde. Ma, nella buona reciprocità che viene dallo Spirito, pure le sofferenze vengono condivise: così il carico delle difficoltà, essendo portato da tanti, si distribuisce e si fa meno pesante.

Infine, è importante vivere e insegnare l’arte di “comunionalizzare” l’impegno ad animare con il Vangelo la terra che abitiamo. Accogliendo il Signore, infatti, si edificano rapporti di unità evangelica, che rendono più-Chiesa la Chiesa e, proprio per questo, la fanno capace di promuovere una società più-umana. Infatti, nella misura in cui la Diocesi cresce come Chiesa-Una renderà anche più-coesa la comunità civile in cui vive.

In tale missione, alla luce della dottrina sociale della Chiesa, le nostre Comunità cristiane devono diventare correnti vive di partecipazione e di solidarietà, per costruire – con tutti gli uomini di buona volontà – condizioni di coesistenza più giuste e fraterne. È un umanesimo plenario (perché promuove la crescita integrale di ogni uomo e di tutti gli uomini) e trascendente (perché aperto a Dio) quello che, insieme, siamo chiamati a testimoniare e a seminare nei solchi, spesso aridi ed inquinati, della nostra epoca.

Per adempiere questo compito dobbiamo, di più e meglio, impegnarci a trasformare il nostro capitale spirituale in capitale sociale: il che vuol dire rendere l’esperienza di comunione una preziosa risorsa, ideale e relazionale, da spendere con intelligenza e coraggio per promuovere la solidarietà creativa, praticare l’equa sussidiarietà e diffondere la cultura del dare, sostenendo così una cittadinanza attiva, integrale ed integrante.

 

«Comunionalità eucaristica»

Va messa al giusto posto una risorsa fondamentale per tutto questo. Solo l’Eucaristia ci rende capaci di tessere con questa profondità la comunione tra di noi: infatti, diventando partecipi del Signore, noi viviamo non solo gli uni con-gli-altri e gli uni per-gli-altri, ma siamo davvero gli uni-degli-altri (perché ci apparteniamo reciprocamente) e gli uni-negli-altri (perché ciascuno porta con sé tutti, anche quando agisce in “prima persona”). È per questo che, nell’economia della salvezza, nessuno può diventare se stesso da solo.

 

Fissare lo sguardo su Maria

L’arte di vivere ed insegnare la comunione trova in maniera tutta speciale in Maria la madre, la maestra e il modello. È alla sua scuola, perciò, che vogliamo metterci e invitare tutti ad entrare, nella certezza che, conformandoci al suo Amen, costruiremo la città di Dio e, proprio per questo, daremo un contributo essenziale alla edificazione della città dell’uomo.

Vorrei concludere con una riflessione di Benedetto XVI che trovo particolarmente significativa e incoraggiante per noi vescovi, protesi come siamo ad avere la Vergine di Nazaret nella nostra “casa”, perché abiti la nostra vita e la nostra missione.

«Come gli Apostoli insieme a Maria “salirono al piano superiore” e lì “erano assidui e concordi nella preghiera” (At 1, 12.14), così anche noi oggi ci siamo riuniti qui (...), che è per noi, in quest’ora, il “piano superiore”, dove Maria, la Madre del Signore, è in mezzo a noi. Oggi è Lei a guidare la nostra meditazione; Lei ci insegna a pregare. È Lei ad indicarci come aprire le nostre menti e i nostri cuori alla potenza dello Spirito Santo, che viene a noi per essere da noi portato al mondo intero»4.

Mons. Giuseppe Petrocchi

1)            Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale Pastore dabo vobis, 17.

2)            Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto Presbyterorum Ordinis, 7.

3)            I brani che seguono sono stati pubblicati su L’Avvenire - Lazio sette, 19 giugno 2011, 8.

4)            Benedetto XVI, Discorso tenuto durante l’incontro con i religiosi, le religiose, i seminaristi ed i rappresentanti dei Movimenti ecclesiali, Czestochowa, 26 Maggio 2006.