Una benedizione storica per l’umanità

 

Cinquant’anni anni fa, l’11 ottobre 1962, iniziava il Concilio Vaticano II, indetto profeticamente da Giovanni XXIII: tre anni di lavoro avrebbero lasciato alla Chiesa una mole non indifferente di idee, progetti, riscoperte teologico-pastorali affidate a quattro Costituzioni (sulla Liturgia, sulla Chiesa, sulla Parola di Dio, sul rapporto Chiesa-Mondo), a nove Decreti e a tre Dichiarazioni.

Si apriva una stagione nuova nella Chiesa, destinata ad avere ripercussioni non soltanto all’interno della Chiesa stessa, ma nella società in cui la Chiesa mediante i suoi membri è chiamata a essere presente e operante. Una stagione caratterizzata da speranze, da nuovi entusiasmi, da “aperture”: si infittivano i dibattiti, all’interno e all’esterno del mondo cattolico, gli sforzi di esprimere in modi e strutture visibili gli insegnamenti del Concilio e si riscoprivano parole come “comunione”, “laico”, “partecipazione”, “missione”, “evangelizzazione”...

«La Chiesa del Concilio – aveva affermato Paolo VI nel discorso di chiusura – si è occupata, oltre che di se stessa e del rapporto che a Dio la unisce, dell’uomo quale oggi in realtà si presenta: l’uomo vivo, l’uomo tutto occupato di sé, l’uomo che si fa non soltanto centro di ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione di ogni realtà».

“Chiesa del dialogo”, l’aveva definita un anno prima lo stesso Paolo VI nell’Enciclica Ecclesiam suam. Ma proprio questo rapporto col mondo, questo dialogo che portava la Chiesa cattolica a confrontarsi con altre tradizioni cristiane o con tradizioni religiose non-cristiane o anche non-credenti, apriva, contemporaneamente agli slanci e agli entusiasmi, tutta una serie di reazioni, a volte accese e dure, a volte più contenute ma non meno sofferte, di fronte a quella che sembrava una contaminazione della Chiesa. Essa perdeva, o correva il rischio di perdere, la sua “identità” di custode della “verità”, di garante della “salvezza” dell’uomo, impossibile senza il riferimento alla genuina “tradizione”.

Si tende, ancora oggi, a dare rilievo precipuo a due documenti del Concilio: quello sulla Chiesa, la costituzione dogmatica Lumen gentium, e quello sul rapporto Chiesa-Mondo, la costituzione pastorale Gaudium et spes. Essi hanno senz’altro una rilevanza centrale; ma una delle ri-scoperte fondamentali nel corso del dibattito conciliare – forse non ancora pienamente sottolineata – fu il concetto di “verità”. È la costituzione Dei Verbum che si fa portatrice di questa rimessa a fuoco. La verità, come sinonimo di Parola di Dio, non coincide con l’insieme degli elementi dottrinali che pensiamo di possedere, ma con una persona, Gesù: «Io sono la Verità», «Se ascolterete le mie parole, conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi». È da Lui che prendono luce anche i singoli elementi di verità e che prende senso la vita.

La fede diventa così adesione ad una persona e, mediante lei, un rivolgimento completo della vita, che si trova ad essere compiuta e realizzata: «Chi segue me non cammina nelle tenebre ma ha la luce della vita».

Diventa significativo il legame che pone Benedetto XVI: «L’Anno della fede in coincidenza con il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II possa essere un’occasione propizia per comprendere che i testi lasciati in eredità dai Padri conciliari, secondo le parole del beato Giovanni Paolo II “non perdono il loro valore né il loro smalto. […] Nel Concilio ci è offerta una sicura bussola per orientarci nel cammino del secolo che si apre”1. Io pure intendo ribadire con forza quanto ebbi ad affermare a proposito del Concilio pochi mesi dopo la mia elezione a successore di Pietro: “Se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa”»2.

Non c’è aspetto della vita, individuale e sociale, che non trovi senso e risposta nel Vangelo: economia, politica, famiglia, ecologia, cultura, scuola, malattia e morte, comunicazione, relazioni internazionali ... tutto è chiamato a essere “se stesso” nell’adesione a qualcosa che non soltanto non gli è estraneo, ma è intimissimo ad ogni realtà, proprio perché la “svela”.

Un tesoro questo che è offerto a ogni persona che nasce, vive, muore: se la Chiesa ne è garante, non ne è padrona: il Vangelo non è per qualcuno, ma per tutti. Il rapporto, cioè il dialogo, tra coloro che hanno incontrato Gesù e coloro che ancora non l’hanno trovato, non è qualcosa che viene dopo, ma sta dentro la stessa scoperta del Vangelo.

In questa luce, la Comunità dei credenti, non solo non può farsi scudo di fronte ai problemi che la società le presenta, ma è chiamata a farsene carico dando risposte concrete a questi problemi. Miseria, guerra, lotta, ingiustizia, indifferenza, sofferenza, incertezza, scandali, reclamano la presenza in primo piano di chi dice di credere in Colui che “è venuto per servire”. E questa, ovunque c’è da condividere un problema umano, non può non portare a capovolgere la gerarchia dei valori su cui è impostata troppo spesso la vita umana: carrierismo, ricerca sfrenata dell’interesse, sguardo ristretto alla propria categoria o gruppo, tecnicismo esasperato, possono e devono lasciare il posto all’uomo, a colui che è intangibile perché fatto a “immagine di Dio”.

Guardare alla Chiesa dovrebbe poter dire, anche per un non-credente, scoprire un “bozzetto di umanità” realizzata in cui specchiarsi. In modo stringente la preghiera eucaristica 5/E invita a chiedere: «In un mondo lacerato da discordie la tua Chiesa risplenda come segno profetico di unità e di pace». Sta qui la grande sfida lanciata, e forse ancora solo abbozzata, dalla Gaudium et spes.

Riscoprire la propria funzione nella storia umana (ciò che in termini teologici è detto missione) significa far sì che il modo evangelico di vivere e guardare la realtà contiene in sé i principi innovatori per una convivenza umana in cui la persona, in quanto tale, si senta salvata nella sua individualità e nella sua chiamata alla condivisione. I rapporti intraecclesiali (ad esempio, tra gerarchia e laici) ritrovano così senso in vista di questo comune compito, facendo risaltare non tanto il posto che si occupa, ma l’armonia dell’insieme. Infatti, è insieme che si è chiamati ad annunciare un “messaggio” che va al di là di ciascuno. L’immagine della Chiesa-popolo di Dio, riproposta dalla Lumen gentium, con le sue diverse articolazioni, diventa così rispondente alla vocazione dei credenti.

Chiesa-umanità-regno di Dio: facce diverse di un’unica realtà, chiamate a intersecarsi e guardarsi a modo di dissolvenze reciproche.

Strada ne rimane da fare tanta; forse si può applicare anche qui ciò che Teilhard de Chardin affermava: «L’avvenire è migliore di qualunque passato».   

Certo, un futuro da non attendere passivamente, da costruire giorno per giorno, nelle idee e nei fatti, con la prontezza a pagare di persona, ma spalancato a quella civiltà dell’amore che gli ultimi Papi da tempo vanno preannunciando.

Allora, il Concilio apparirà per quello che è stato ed è: una benedizione storica per un’umanità spesso smarrita nella ricerca di se stessa.

T.G.

 

 

1)            Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte (6 gennaio 2001), 57. 

2)            Benedetto XVI, Lett. ap. Porta fidei (11 ottobre 2011), 5.