Intervista a Norbert Penzkofer: la ricerca della comunione in 40 anni di ministero

 

Nell’unico presbiterio

a cura di Enrico Pepe

 

In prossimità dei 40 anni di ordinazione, Norbert Penzkofer, originario di Passau in Germania, che ha vissuto tutto il suo ministero nella diocesi di Palmares (nordest del Brasile) e ne è da molti anni il vicario generale, ci racconta cosa ha significato per lui contribuire così al cammino di questa diocesi in una ricerca di vera comunione con il vescovo e i sacerdoti.

 

Come mai sei andato in una diocesi lontana, in Brasile?

Norbert: È stata un’avventura che non avrei mai immaginato. Ora festeggiando i 40 anni di ordinazione, mi rendo conto di come il Signore abbia condotto la mia vita e non posso non ringraziarlo.

Sono nato nel 1945 in Baviera, e nel 1966, a contatto con il Movimento dei focolari, ho capito che non dovevo scegliere il sacerdozio come l’ideale della mia vita ma Dio. Era come se Egli mi dicesse: «Ti voglio tutto per Me, anche se tu non dovessi diventare sacerdote». Fu un’esperienza molto gioiosa.

La «scuola di vita» per sacerdoti a Grottaferrata

Nel ’67-’68 partecipai a quella scuola di vita del Movimento dei focolari che, per una migliore comprensione della sua identità, oggi viene chiamata “Centro di formazione alla spiritualità di comunione per sacerdoti, diaconi e seminaristi”. Lì ho sperimentato insieme a tanti altri sacerdoti e seminaristi la presenza di Cristo «dove due o più…» (cf Mt 18, 20). E ciò mi ha riempito di una gioia ancora più grande, vedendo gli effetti che produceva.

In quegli anni nasceva la diramazione del Movimento dedicata alle parrocchie, e con un gruppo di seminaristi con cui facevamo l’esperienza a Grottaferrata, accompagnavamo don Giuseppe Aruanno e don Lino d’Armi a proporre questo rinnovamento parrocchiale in varie città italiane. Facevamo incontri con persone di ogni vocazione ed età impegnate nelle parrocchie, e ho visto tante conversioni che non si potevano attribuire alle nostre povere parole, anche perché tra noi seminaristi pochi conoscevano bene l’italiano. Mi sono reso conto che quando Gesù è presente tra due o più uniti nel suo nome, Egli converte. Constatare come la spiritualità dell’unità potesse trasformare anche la pastorale, mi toccò profondamente.

Così nel ’70, terminati gli studi teologici, mentre mancavano pochi mesi per ricevere il diaconato ed essere inviato in una parrocchia per un’esperienza pastorale, ho chiesto al mio vescovo di poterla fare in un ambiente dove fosse presente qualcuno del Movimento dei focolari. Ma siccome non ero capace ancora di spiegare meglio ciò che avevo cominciato a vivere, il vescovo rimase indeciso sul da farsi.

La partenza per il Brasile

Proprio in quel tempo mi venne chiesto se ero disponibile ad andare in Brasile, in una diocesi il cui vescovo aveva da poco iniziato questa vita di unità con i suoi sacerdoti e seminaristi. Accettai subito e andai dal mio vescovo con questa ipotesi più chiara. Egli mi diede due anni di tempo per fare questa esperienza. Così nel novembre del ’70  sono partito per il Brasile.

Cosa hai trovato in quella diocesi?

Norbert: Palmares, situata nel nordest di questo immenso Paese, a 120 km da Recife, era stata fondata nel settembre del 1962. È situata in una delle zone più povere del Brasile, la cui unica coltivazione era la canna da zucchero. La sua storia è marcata dal latifondo e dalla schiavitù dei neri strappati dall’Africa; la terra e le miserabili abitazioni erano proprietà di pochi ricchi, che ora però per le mutate condizioni sociali non riuscivano più a esportare lo zucchero a prezzo conveniente.

I lavoratori pativano la fame, non avevano istruzione, non sapevano coltivare altri prodotti e religiosamente non avevano radici. Tutti si dicevano cristiani e chiedevano il battesimo, ma solo pochissimi ricevevano una formazione adeguata. Per la schiavitù, praticata sino a soltanto 100 anni prima, tanti valori umani e cristiani erano distrutti. Questa era una parte della terribile situazione della diocesi, fondata nella prima fase del Concilio, che ha avuto per primo vescovo un giovane sacerdote di 37 anni che poi vi rimarrà per ben altri 38: Dom Acacio Rodrigues Alves.

Il quadro socio-politico

All’inizio degli anni ’60 il nordest del Brasile attraversò un periodo molto difficile. Tutti desideravano un cambiamento di rotta. Tanti guardavano a Cuba. Il Partito comunista aveva i suoi agenti che, per guadagnarsi la fiducia della gente, riunivano dei gruppi, recitavano il rosario e poi propagavano le loro idee.

La gente umile non voleva il comunismo, ma tutti desideravano un cambiamento per l’enorme ingiustizia sociale. Per cui si sono organizzati e hanno fatto delle agitazioni sociali, animate da militanti comunisti. Il governo centrale democratico di quel momento era molto incerto sul da farsi, e i militari presero il potere promettendo una profonda riforma agraria.

In un primo momento i vescovi rimasero in attesa, ma quando videro che i militari non si impegnavano per risolvere la situazione dei poveri, si schierarono dal lato dei più deboli. Dom Acacio assunse ovviamente la posizione della Conferenza episcopale, capendo che un vero rinnovamento sociale aveva bisogno di un profondo radicamento evangelico.

L’evento del Vaticano II tradotto in pratica nella diocesi

Il vescovo, dopo poche settimane del suo ingresso in diocesi, partì per Roma per la seconda fase del Concilio. Per lui fu un’apertura di nuovi orizzonti. Tornò in diocesi molto segnato da quanto aveva vissuto e compreso. Raccontava la sua sorpresa nell’aver visto bocciata la prima redazione del “De revelatione” nonostante vi avesse riconosciuto l’insegnamento avuto nella Gregoriana negli anni dei suoi studi. Invece nel vedere approvato il testo della “Dei Verbum” aveva compreso la necessità del primato di Gesù, come Parola e auto-comunicazione di Dio, e poi dei sacramenti, non intesi in opposizione alla Parola, ma come suoi complementari. Per cui nella situazione sociale dolorosa in cui il Brasile si trovava, bisognava scegliere uno stile di vita fondato il più pienamente possibile sulla Parola.

Nel ’64 tutte le aspirazioni alla giustizia erano state stroncate dalla rivoluzione militare, che sarebbe durata per circa 20 anni. Molte furono le sofferenze soprattutto dei poveri e la Chiesa era l’unica istituzione che poteva parlare ed essere la loro voce.

Dom Acacio in questa disunità tra padroni e poveri, ma anche tra tutti gli altri settori sociali e spesso anche tra i sacerdoti, sentiva che il Brasile aveva un estremo bisogno di quella testimonianza d’unità che egli aveva visto nel carisma e nelle persone del Movimento dei focolari. Allora scelse di vivere e di testimoniare anzitutto questo stile di vita.

Per cui io, andando lì, ho trovato proprio questo. Il vescovo e alcuni sacerdoti locali e stranieri si erano impegnati a una vita di comunione, mettendo insieme anche i beni materiali.

In questo modo la necessità della comunione espressa dalla Presbyterorum Ordinis, era messa in atto tra noi: il vescovo voleva bene sul serio ai suoi preti, e questi vedevano in lui un padre o un fratello maggiore e tra loro vivevano da fratelli. Così chi riceveva aiuti dall’estero non stava meglio degli altri, ma condividendo tutto, c’era l’uguaglianza, senza la quale non c’è vera fraternità. Ed io sono entrato in questa esperienza.

Tu avevi il permesso solo per due anni, ma poi sei rimasto a Palmares. Come mai?

Norbert: Sì, pensavo di rimanere proprio due anni, come avevo chiesto al mio vescovo di Passau, e poi tornare in Germania per fare l’ultimo anno di teologia ed essere ordinato. Ma le circostanze cambiarono. Prima mi fu detto di affiancare un sacerdote che doveva prendersi altri impegni e poi, non essendoci altri sacerdoti, il vescovo mi incaricò di seguire una parrocchia senza essere neanche diacono… Ogni tanto veniva un prete per le confessioni e l’Eucaristia. Poi mi fu affidata l’economia dei sacerdoti con i quali condividevo i beni e, in seguito, anche l’economia della diocesi.

Nel ’72 il mio vescovo d’origine venne in Brasile per visitare alcuni sacerdoti di Passau che esercitavano il ministero nello Stato di Bahia. Io andai a incontrarlo e gli raccontai la mia situazione, aggiungendo che, visto quanto stavo facendo, sarebbe stato bene che fossi ordinato almeno diacono. Mi rispose che non sarebbe stato possibile, ma sarei dovuto tornare in Germania e dopo alcuni anni sarei stato lasciato di nuovo a disposizione.

Ma egli volle venire a vedere dove vivevo, pur essendo a 800 km di distanza, anche se per poche ore. Cenò con Dom Acacio e per la difficoltà della lingua non parlarono molto, ma i due che erano uomini di Dio, si capirono. Poi venne nella parrocchia dove lavoravo per concelebrare la Messa. I parrocchiani volevano chiedergli di ordinarmi e lasciarmi in Brasile, ma uno dei preti con i quali condividevo la mia vita, disse loro che non dovevano chiedere questo, ma fare il possibile perché egli s’incontrasse con Gesù presente in mezzo a loro, e che questo gli avrebbe dato la luce per prendere la decisione giusta.

Tornando a Palmares, mi confidò: «Nella vostra casa ho trovato qualcosa che mi ha toccato. È una casa di spiritualità. Altrove ho visto opere sociali, da voi ho visto anche la spiritualità che vi anima. Ho trovato qualcosa che mi ha impressionato e per questo io sono contento che tu ti ordini sacerdote qui. Però prima devo parlare col vicario generale, col rettore del Seminario e col consiglio presbiterale. Ma per quanto dipende da me, sono d’accordo che tu venga ordinato subito qui in Brasile». Poco tempo dopo veniva la comunicazione della diocesi che potevo essere ordinato sacerdote dal vescovo di Palmares, rimanendo incardinato nella diocesi di Passau.

L’influsso nel clero e nella pastorale diocesana

Quale incidenza ha avuto la spiritualità dell’unità nel vostro presbiterio?

Norbert: La vita comunitaria si consiglia tante volte ai sacerdoti e in genere i vescovi la favoriscono, ma spesso, come sappiamo, non riesce facilmente. Si sta insieme, ma non si attua la comunione come la vivevano gli apostoli con Gesù.

Non dobbiamo però limitarci a farlo per evitare la solitudine, per difendere il celibato, che pur essendo motivi validi, non sono tutto. Ciò che veramente vale è vivere quell’amore fraterno reciproco, che permette alla presenza promessa da Gesù nella comunità, di manifestarsi con i suoi tipici effetti. Crediamo nella presenza di Gesù tra noi, come crediamo nella sua presenza nella Parola e nell’Eucaristia? Questo è il valore principale dello stare insieme. E questa presenza è quella che poi di per sé evangelizza.

Per cui, se uno è trasferito – come è successo a me che ho passato 4 anni a Belém e poi 5 a San Paolo – questa dimensione continua, perché quello che ci unisce è più forte di ogni distanza e circostanza. Non è sufficiente abitare nella stessa casa, ma bisogna imparare a condividere quanto si è e si ha.

Può essere utile, a questo proposito raccontare un’esperienza. Don Dino Marchiò, di cui dirò poi ancora qualcosa, aveva bisogno di una macchina. Io, avendo un’auto ancora buona, ho pensato di dare la mia acquistandone una nuova per me. E mi sembrava un atto di generosità, ma poi mi sono reso conto che questo modo di agire non era evangelico, e quindi ho acquistato una macchina nuova e l’ho data a lui. Non volevo fare il ricco che dà a chi è nel bisogno. Non basta essere generosi, bisogna essere fratelli.

Puoi dirci in modo più ampio qualcosa delle conseguenze della vostra vita per la Chiesa locale?

Norbert: Quando sono arrivato nel ’70  c’erano 15 parrocchie e 15 sacerdoti: 4 brasiliani piuttosto anziani e 12 stranieri, in maggioranza religiosi, anche loro anziani. Quanto alle vocazioni l’inizio è stato molto difficile. Coloro che chiedevano di poter diventare preti, a causa della situazione sociale ovviamente erano carenti di un substrato umano solido. Poi man mano, con la collaborazione di vari Movimenti ecclesiali e le Comunità ecclesiali di base, nacque un movimento giovanile. Il Movimento dei focolari aveva già avuto un influsso molto positivo con la diffusione della pratica della Parola di vita in quasi tutte le parrocchie.

Prima nella Messa domenicale non c’erano uomini né giovani e, se un uomo faceva la comunione, si rimaneva stupiti. Dopo 20 anni si è visto sorgere un bel gruppo di uomini e molti giovani. Oggi in tutte le nostre parrocchie esiste la pratica di un rosario degli uomini e ci sono spesso chiese piene di soli uomini.

Così nel 25° della diocesi c’erano già le prime vocazioni sacerdotali, e in quel tempo il vescovo mi chiese d’interessarmi della pastorale vocazionale. Adesso la diocesi ha 33 sacerdoti di cui 29 locali, tutti giovani, e solo 4 stranieri. Abbiamo anche un gruppetto di 7 seminaristi per la filosofia e la teologia. Questo clero locale cresciuto in questi anni è molto impegnato: chi diventa prete sa che dovrà donarsi alla propria gente, avendo solo il necessario per una vita povera e molto semplice.

Dal nostro gruppo di preti che hanno vissuto col vescovo e sono stati formati da lui, che è stato sempre un “modello” per noi, sono stati scelti vari vescovi. Il primo fu Reinhard Pünder, morto l’anno scorso, da santo. Poi Dino Marchiò e vari altri sacerdoti sparsi per tutto il Brasile che avevano avuto dei contatti con Palmares; molti sacerdoti infatti venivano da noi per almeno un periodo. Pochi giorni fa, uno di loro proveniente dal Sud del Brasile, molto più sviluppato economicamente, mi diceva: «Noi abbiamo sempre visto in Palmares un esempio per i sacerdoti diocesani, una luce di come dovrebbe essere una diocesi».

C’è un carisma che vi ha investiti. Come avete alimentato questa vita?

Norbert: Noi siamo stati dentro la grande famiglia del Focolare e abbiamo cercato, se non ogni settimana, almeno ogni volta che era possibile, di partecipare alla vita del Movimento, oltre a coltivare naturalmente una profonda comunione fra noi. Ad esempio, trovarci con i focolarini laici era per noi un grande stimolo. Con questi incontri, oltre agli scritti e agli aggiornamenti sulla stessa esperienza che cresceva in Brasile e in altre parti del mondo, la nostra vita era continuamente nutrita e rinnovata. Altrimenti, sicuramente, non avrebbe avuto lo sviluppo che c’è stato. Nel contatto bello e profondo con i focolarini, sempre ho visto, specialmente nelle focolarine, quasi senza proporselo, una funzione, se così si può dire, “materna” verso di noi con l’esempio della loro vita. Tornando dagli incontri mi son detto più di una volta con sant’Agostino: «Si isti et istae, cur non ego?».

Riflessi oltre la diocesi

Potresti dirci qualcosa di ciò che avete fatto per gli altri vescovi e preti nel Brasile?

Norbert: Così come noi sacerdoti, avendo trovato il carisma dell’unità, abbiamo sentito di dover realizzare la Presbyterorum Ordinis, Dom Acacio ha trovato il modo per vivere quella realtà così tipica del Concilio che è la collegialità tra i vescovi e con il Papa. Per questo aveva tanti contatti e ha dato vita a incontri con molti vescovi del Brasile. Egli ha avuto un influsso positivo su tanti di loro: era considerato una persona di profonda spiritualità, che viveva come un pastore adatto all’oggi.

Ha trasmesso questa esperienza a tanti fratelli vescovi cattolici e anche di altre Chiese. Per far questo spesso era fuori della diocesi, ma poteva farlo perché aveva un corpo di sacerdoti che portavano avanti la diocesi in piena unità con lui.

Nonostante la povertà di mezzi e di persone, la diocesi ha dato così un vero contributo alla Chiesa in Brasile e anche fuori del nostro Paese.

Inoltre, a un certo punto Dom Acacio ha permesso a te, don Enrico, a don Domenico Ardusso e poi anche a me, di lasciare Palmares per occuparci dei sacerdoti di altre diocesi che volevano seguire questo stile di vita… Quanti incontri e ritiri per sacerdoti, meditazioni e testimonianze con interi presbitèri, oppure in diversi seminari… Quanti frutti! Abbiamo constatato quanto è vero che lo Spirito Santo invia i carismi secondo le necessità dei tempi.

La pastorale vocazionale e la formazione dei seminaristi

All’inizio hai detto che erano pochi e anziani i sacerdoti brasiliani. Com’è la situazione attuale?

Norbert: Negli anni ’90 fui nominato parroco della cattedrale, che aveva all’epoca più di 60.000 abitanti. In quella situazione, il vescovo mi chiese di interessarmi a fondo delle vocazioni sacerdotali, e per me fu una scelta molto importante. Pensai: «Se faccio il parroco va bene, ma se curo le vocazioni in futuro ci saranno tanti altri parroci ben formati». In Brasile è difficile che chi ha la responsabilità del seminario abbia solo quello da seguire. In genere gli si affida anche una parrocchia, e siccome questa offre maggiore soddisfazione, diventa più interessante del seminario col risultato che il rettore è poco presente.

Per cui, d’accordo col vescovo, diedi priorità al seminario. Nel frattempo è nato un seminario nostro del quale sono responsabile, dove ci si prende cura della formazione umana e cristiana dei seminaristi che nello stesso tempo studiano all’Università Cattolica dei gesuiti. Attualmente sono anche impegnato nel dare una mano come direttore spirituale ausiliare in un altro seminario interdiocesano.

In realtà, venendo dalla vita pastorale e non avendo avuto una formazione specifica, ho puntato in questi anni soprattutto a preparare persone disposte a vivere il Vangelo. Il seminario ovviamente non deve limitarsi a formare persone capaci di organizzare attività, esercitare riti, predicare adeguatamente, avere cura dell’economia,… che sono tutte cose utili, ma ancora più necessario è che i seminaristi siano veri discepoli di Gesù sperimentando i frutti della Parola e in particolare la comunione che è il cuore del Vangelo. Perché come potrebbero poi generarla nelle comunità loro affidate, se non l’hanno sperimentata tra loro?

E in questo Maria è modello e i semimaristi devono imparare a riviverla. Ecco il compito che sono chiamati a svolgere i formatori del seminario per il bene della Chiesa e la diffusione della fraternità nel mondo.

Certamente ci vuole anche una formazione intellettuale e psicologica adeguata per questo compito, ma se manca l’altra parte facilmente il sacerdote non sarà un pastore che evangelizza.

In questi giorni festeggerai i 40 anni di ordinazione presbiterale: cosa rimane di quel momento e cosa potresti dire dopo questi anni?

Norbert: In tutto questo tempo ho vissuto come un dono della diocesi di Passau a Palmares. Oggi spontaneamente vorrei cantare il Magnificat: «Grandi cose ha fatto il Signore…». Aiutato da questo carisma, ho potuto vivere le indicazioni del Concilio e mi sento fortunato!

Ricordo che a 9-10 anni sono stato scout e ci salutavamo augurandoci: «Buona strada». Ecco, mi sembra che la mia vita sia stata proprio così, e Dio mi ha condotto in una realtà che non avrei potuto immaginare più bella.

Sia il periodo della formazione in seminario che i primi decenni trascorsi in Brasile, erano tempi molto travagliati sia socialmente che ecclesialmente. Questa spiritualità mi ha aiutato tanto a far fronte a tale situazione. Devo aggiungere però che mi sentivo molto libero con gli altri sacerdoti con i quali vivevamo in unità. Il clima era così bello che potevo esprimere il mio pensiero quando non ero d’accordo su qualcosa: non ho mai sperimentato un’imposizione da parte di nessuno e ho potuto sempre costruire rapporti veri, sinceri, che erano anche di luce per capire meglio la realtà e come rispondervi nel modo più evangelico possibile.

Riconosco che da parroco ho fatto anche sbagli: a volte sono stato non esigente ma intransigente, e a volte persino autoritario, pensando di avere ragione. Oggi capisco meglio che la verità senza la carità non è la verità di Gesù. Ora me ne sono reso conto e spesso – prima non lo facevo mai – prego per le persone che non ho trattato bene.

Certo, metto tutto nella misericordia di Dio, ma a volte mi domando: «Sono proprio cambiato?». E mi accorgo che è sempre tempo di conversione.

Enrico Pepe