Oltre la dimensione fenomenica dei problemi

La crisi della Chiesa come crisi di comunione

di Mons. Giuseppe Petrocchi

 

Durante un incontro internazionale di vescovi al Centro Mariapoli di Castel Gandolfo, il vescovo di Latina-Terracina-Sezze-Priverno ha svolto questa relazione sulla priorità delle priorità davanti alle sfide che la Chiesa si trova ad affrontare oggi nella sua vita e missione. Riflessioni che sono state favorevolmente accolte e apprezzate dai presenti, tanto per la solida fondazione teologica quanto per la ricchezza pastorale.

La Parola-Comunione

La Parola è in sé Comunione, poiché proviene “dalla” comunione trinitaria; è donata “alla” Chiesa-comunione, affinché la custodisca, l’attui e l’annunci; è proclamata “per” suscitare nel mondo la comunione universale («che tutti siano una sola cosa» [Gv 17, 21]).

La Parola, dunque, vissuta personalmente e insieme, genera la Chiesa che, nella sua essenza, è «mistero di comunione trinitaria in tensione missionaria»1.

Per questo, la Parola può essere autenticamente compresa, attuata e trasmessa solo in comunione. Anche l’evangelizzazione, di conseguenza, va pensata e attuata in unità “con” la Chiesa e “come” Chiesa. Infatti, «solo una Chiesa comunione può essere soggetto credibile della evangelizzazione»2.

Affrontare i problemi alla luce della Parola e nella fedeltà alla Chiesa

Oggi si parla di sfide che investono la vita e la missione della Chiesa. Credo fondamentale oltrepassare la dimensione fenomenica dei problemi per andare verso il “centro profondo” del discorso. Partendo dall’analisi delle sfide – considerate nella loro complessità e connessione – occorre risalire al “punto focale” che le provoca; come accade in ambito clinico, dove il medico, dopo avere studiato i sintomi, cerca di scoprire la malattia sottostante che li suscita: ed è su quel nucleo patogeno che deve concentrare il suo intervento, se vuole attivare il processo di guarigione.

La crisi che tocca oggi larghi settori della Chiesa si presenta con numerosi – e a volte contrastanti – volti pastorali e culturali, ma ritengo che, nella sua radice, sia crisi di comunione. Essa, pertanto, denuncia una “carenza di unità”: nella mente, nel cuore e nei comportamenti di molti credenti. Per questo, prima che di insufficienza nei contenuti e nei metodi mi sembrerebbe opportuno parlare di un deficit di spiritualità-Chiesa.

Ripercorriamo insieme alcuni passi del Magistero, che esprimono con straordinaria chiarezza cosa pensano, su questo tema, i Pastori della Chiesa.

Nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte si afferma che il grande ambito sul quale occorre far convergere tutti gli sforzi, a livello di Chiesa universale e di Chiese particolari, è «quello della comunione (koinonìa) che incarna e manifesta l’essenza stessa del mistero della Chiesa». E si precisa che «la comunione è il frutto e la manifestazione di quell’amore che, sgorgando dal cuore dell’Eterno Padre, si riversa in noi attraverso lo Spirito che Gesù ci dona (cf Rm 5, 5), per fare di tutti noi “un cuore solo e un’anima sola” (At 4, 32)». La conclusione è rigorosa: «è realizzando questa comunione di amore che la Chiesa si manifesta come “sacramento”, ossia “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”»3.

Da qui un vibrante ammonimento: «tante cose, anche nel nuovo secolo, saranno necessarie per il cammino storico della Chiesa; ma se mancherà la carità (agape), tutto sarà inutile»4. Infatti, «la carità è davvero il “cuore” della Chiesa»5.

Si capisce, allora, la prospettiva-base che deve permeare ogni progetto e tutte le azioni della comunità cristiana che ha varcato la soglia del terzo millennio: «fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti..., se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo»6.

Pertanto, «prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell’altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità. Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto. [...] Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita»7.

Custodire nella Chiesa la qualità della comunione…

Come vescovi, siamo chiamati a tenere la mano al polso della comunione delle nostre diocesi, per misurarne le pulsazioni sane e le eventuali aritmie.

Nel corso del mio ministero ho maturato questa convinzione: la comunione è debole non perché ci sono problemi gravi; ma ci sono gravi problemi perché la comunione è debole. Mi si consenta un paragone: un corpo è dichiarato sano non perché sia privo di batteri che lo insidiano, ma perché dispone degli anticorpi che gli consentono di neutralizzarli. Se una Chiesa locale disponesse di abbondanti riserve di comunione, sarebbe pure in grado di superare le difficoltà che incontra (provenienti dal proprio interno o dalle persecuzioni del mondo): infatti avrebbe gli strumenti per “bruciarle” nella carità, rendendole un “combustibile” per la sua missione.

Va posta, inoltre, una seconda sottolineatura: non basta che ci sia comunione, ma occorre che si stabilisca la comunione “adeguata” al tempo e al compito che si è chiamati a svolgere. Il cuore che ha pulsato sangue nell’organismo di un bambino, se rimanesse delle stesse dimensioni, non sarebbe più sufficiente a garantire una buona circolazione nel corpo di un adulto e da tale insufficienza deriverebbero pesanti disfunzioni. In questo caso, se si volesse risolvere i problemi, occorrerebbe curare il cuore, per renderlo proporzionato alla condizione del soggetto, piuttosto che limitarsi ad intervenire sui “sintomi”.

… soprattutto in tre ambiti

Vorrei, ora, segnalare tre aree fondamentali in cui, come vescovi, siamo chiamati a verificare e a rinsaldare il “livello” di comunione:

a) La nostra esperienza di collegialità episcopale, raccolta intorno al Santo Padre e sigillata dalla formula «in omnibus cum Petro et sub Petro»8.

In quanto successori degli apostoli siamo inviati dal Signore a predicare il Vangelo a tutte le genti (cf Mt 28, 19); questo impegno poi si polarizza in un mandato “locale”. Di conseguenza, per un vescovo la prima tensione missionaria è costituita dalla sollecitudine per tutte le Chiese, da vivere sotto la guida del Papa e in comunione con gli altri vescovi. Mosso da questa “anima cattolica”, cioè spalancata su tutti i popoli, il vescovo deve occuparsi della diocesi che gli è affidata: è fondamentale, perciò, che, nella cura del “particolare”, assicuri sempre la prospettiva “universale”.

Vivere in tale sinergia fraterna di pensiero e di intenti significa essere pienamente allineati con la traiettoria della volontà di Dio. Infatti, come sottolinea Giovanni Paolo II nella lettera Ut unum sint, «credere in Cristo significa volere l’unità; volere l’unità significa volere la Chiesa; volere la Chiesa significa volere la comunione di grazia che corrisponde al disegno del Padre da tutta l’eternità»9.

Forse è opportuno chiedersi se nelle nostre Conferenze episcopali, questa fraternità apostolica è sempre affettiva ed effettiva.

b) Altro settore-chiave: la comunione nel presbiterio diocesano, necessaria perché il ministero dei sacerdoti sia idoneo a costruire la Chiesa: una, santa, cattolica, apostolica.

 «L’identità sacerdotale – ha scritto Giovanni Paolo II nella Pastores dabo vobis –, come ogni identità cristiana, ha la sua fonte nella Santissima Trinità, che si rivela e si autocomunica agli uomini in Cristo, costituendo in Lui e per mezzo dello Spirito la Chiesa come “germe e inizio del Regno»10. Di qui l’asserto che «non si può definire la natura e la missione del sacerdozio ministeriale, se non in questa molteplice e ricca trama di rapporti, che sgorgano dalla Santissima Trinità e si prolungano nella comunione della Chiesa, come segno e strumento, in Cristo, dell’unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano»11.

Ecco perché «il ministero dei presbiteri è innanzi tutto comunione e collaborazione responsabile e necessaria al ministero del vescovo, nella sollecitudine per la Chiesa universale e per le singole Chiese particolari, a servizio delle quali essi costituiscono con il vescovo un unico presbiterio»12.

Il prete diocesano, dunque, non è un “single”, ma è chiamato a vivere la comunità nel presbiterio diocesano, la cui fisionomia è «quella di una vera famiglia, di una fraternità, i cui legami non sono dalla carne e dal sangue, ma sono dalla grazia dell’Ordine»13. Il noi-presbiterio, dunque, non si esaurisce nel rapporto “io” - “vescovo”, ma esige anche la relazione “io” - “confratelli”.

Purtroppo, nell’apostolato di molti sacerdoti, anche generosi, sembra non raramente prevalere un impianto di tipo “individualistico”, contrassegnato dalla sequenza “io” (sacerdote) → “voi” (fedeli). Tale impostazione manca di un passaggio teologicamente essenziale: quello costituito dalla precedenza da accordare, nello svolgimento delle attività pastorali, al rapporto “io” ↔ noi-presbiterio” (connotato dal vincolo di comunione con il vescovo e gli altri confratelli). L’apostolato di un prete è svolto in senso pienamente comunionale quando è contrassegnato dalla sequenza: «“io” attraverso il “noi-presbiterio” (di cui sono parte ed espressione) opero a servizio di “voi” fedeli».

Va, perciò, evidenziato che «l’unità dei presbiteri con il vescovo e tra di loro non si aggiunge dall’esterno alla natura propria del loro servizio, ma ne esprime l’essenza in quanto è la cura di Cristo sacerdote nei riguardi del Popolo adunato dall’unità della Santissima Trinità”»14.

Si arriva così ad una conclusione perentoria: «Il ministero ordinato ha una radicale “forma comunitaria” e può essere assolto solo come “un’opera collettiva”»15.

La mancata coerenza con questi “precetti” comporta un pesante perdita di efficacia pastorale.

In questa prospettiva, ogni sacerdote, se vuol esser “padre” della comunità che gli è affidata, deve anzitutto imparare ad essere figlio, fratello, sposo nel presbiterio e nella Chiesa16.

c) Con lo sguardo dell’unità, deve pure attentamente essere verificato il grado di corresponsabilità con cui viene promossa la partecipazione dei laici alla vita e alla missione delle nostre Chiese.

«Come ha chiaramente affermato il Concilio Vaticano II, l’esercizio del munus regendi episcopale richiede per sua stessa natura un riconoscimento del contributo e dei carismi dei laici e del loro ruolo di edificare l’unità della Chiesa e di compiere la sua missione nel mondo Ogni vescovo è chiamato a riconoscere il “ruolo essenziale e insostituibile” dei laici nella missione della Chiesa e a permettere loro di svolgere il proprio apostolato “guidati dalla luce del Vangelo e dal pensiero della Chiesa e mossi dalla carità cristiana”)»17.

Di conseguenza, «la formazione dei fedeli laici va posta tra le priorità delle diocesi e va collocata nei programmi di azione pastorale in modo che tutti gli sforzi della comunità (sacerdoti, laici e religiosi) convergano a questo fine»18.

«Nello scoprire e nel vivere la propria vocazione e missione, i fedeli laici devono essere formati a quell’unità di cui è segnato il loro stesso essere di membri della Chiesa e di concittadini della società umana»19.

Nelle nostre diocesi, esistono autentiche “scuole di unità” per laici? Chi forma i formatori? La risposta è decisiva: infatti, se il senso di Chiesa è precario e poco motivato, si rischia di avere laici che sono indifferenti, oppure peccano di protagonismo o si limitano a essere semplici esecutori, vivendo un rapporto pastorale scadente, minoritario e poco fruttuoso.

Un grande dono: la spiritualità dell’unità

La spiritualità dell’unità, scaturita dal carisma di Chiara Lubich e propria del Movimento dei focolari, è un grande dono dello Spirito per aiutare chi la accoglie a crescere nell’“essere-Chiesa” e nel “fare-Chiesa”.

Posso attestare che nell’Opera di Maria ho trovato una valida risposta – dottrinale ed esistenziale – alle domande che prima ho sollevato. Cercando di vivere il Carisma dell’unità, sono stato aiutato a capire non solo “cosa” fare, ma anche “come” fare. Ho notato, infatti, che molti itinerari teologico-pastorali, oggi in circolazione, sono ricchi di idee, ma risultano sprovvisti di “moduli operativi” e di percorsi esperienziali: da qui il rischio di inflazione pastorale. Infatti, quando si ripetono espressioni che, essendo prive di efficacia concreta, diventano retoriche, si generano allergia e rigetto.

Va ribadito, infine, che questa spiritualità non è un farmaco dell’anima o un ricostituente ecclesiale che si possa prendere e trasmettere senza averlo assunto. Essa si trasmette anzitutto per “contagio”: di conseguenza, per passarla ad altri occorre viverla in prima persona. La sua linea di comunicazione, infatti, corre sui binari della testimonianza.

Recentemente, meditando sulla Parola, ho avuto modo di fermare l’attenzione sui primi capitoli del libro dell’Apocalisse, lì dove compaiono le esortazioni e gli ammonimenti rivolti alle sette Chiese.

Sostando su quei brani, mi ha colpito il fatto che Dio non solo ci ha dato un “angelo custode” personale, ma ha assegnato un angelo protettore a ciascuna Chiesa. E di questo importante “alleato” celeste si serve per far giungere i suoi messaggi alle comunità cristiane. Mi è sembrato logico pensare che quando l’angelo di una Chiesa parla a nome dell’Altissimo, si rivolga anzitutto al vescovo che la presiede.

Allora mi sono chiesto: cosa dice oggi lo Spirito alle Chiese? (cf Ap 2, 29). E in particolare, cosa dice oggi a me l’angelo della mia Chiesa?

Sono venuto qui con la certezza che avrei percepito meglio la voce dell’angelo della mia diocesi grazie all’esperienza di fraternità fatta con voi, in questo Centro Mariapoli che considero una vera “casa e scuola di comunione”.

Nel testo dell’Apocalisse, insieme agli ammonimenti e ai severi inviti alla conversione, c’è una frase che sento risuonare forte dentro di me: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3, 20). Ascoltando i temi svolti, mi è apparso chiaro che Colui al quale debbo fare sempre più posto nella mia vita, è “Gesù-tra-noi”.

Sono profondamente persuaso, infatti, che questa “particolare presenza” del Signore – che si attiva quando due o più sono uniti nel Suo nome (cf Mt 18, 20) – costituisca oggi una risorsa di grazia necessaria – quindi, indispensabile e insostituibile – se si vuole che la Chiesa sia sempre più Chiesa e navighi serena nelle acque agitate del mondo contemporaneo. Senza ricorrere alla “grazia specifica” donata dalla presenza di Gesù-in-mezzo, sarà impossibile avere tutta la luce per capire il senso profondo degli avvenimenti (come appare nell’esperienza dei discepoli di Emmaus: cf Lc 24, 13-35) e trovare la forza per superare le sfide che ci vengono dalla storia.

Sì, la partita decisiva che la Chiesa oggi è chiamata ad affrontare si gioca sul campo della comunione.

Consentitemi, allora, di riportare qui un celebre e ardito passo di san Bernardo, dottore della Chiesa.

«Il demonio teme poco coloro che digiunano, coloro che pregano anche di notte, coloro che sono casti, perché sa bene quanti di questi ne ha portato alla rovina. Ma coloro che sono concordi e che vivono nella casa di Dio, con un cuor solo, uniti a Dio e fra loro nell’amore, questi producono al demonio dolore, timore, rabbia. Questa unità della comunità non solo tormenta il nemico, ma anche attira la benevolenza di Dio (...). Infatti lo spirito maligno sa che il Figlio non permette che si perda nessuno di coloro che gli ha dato il Padre: non c’è infatti chi possa strapparli dalla sua mano. E per questo principalmente il demonio conosce che, coloro che si amano sono nella mano di Dio e non sono toccati dal tormento della morte. In questo, disse, “conosceranno che siete miei discepoli, se vi amerete scambievolmente” (tutti lo conosceranno, anche i demoni). Il demonio teme l’amore fra gli uomini... Questa è la città forte e inespugnabile»20.

Maria, madre e modello di comunione

È noto che quanti vogliono vivere e costruire l’unità evangelica devono avere Maria come guida e compagna di viaggio: poiché è Lei la madre e il modello di Comunione.

Proprio per questo il Movimento dei focolari, attraverso cui lo Spirito ci ha donato il Carisma dell’unità, trova nell’umile Vergine di Nazaret la sua maestra e – permettetemi l’espressione – la sua “leader”. Per tale ragione, il Movimento è stato riconosciuto dalla Chiesa con il nome di “Opera di Maria”, nel duplice senso dell’espressione: di opera fatta da Maria e di strumento attraverso cui Maria opera. Si legge, infatti, nei suoi Statuti generali: l’Opera «dimostra particolare legame con Maria Santissima, Madre di Cristo e di ogni uomo, della quale desidera essere – per quanto possibile – una presenza sulla terra e quasi una continuazione»21.

Maria «che si è fatta serva e discepola della Parola sino a concepire nel suo cuore e nella sua carne il Verbo fatto uomo per donarlo all’umanità»22, ci guidi sulle vie della Parola-comunione: accolta, vissuta e donata. Affinché questo avvenga, occorre che ci impegniamo a prenderla nella nostra “casa” (cf Gv 19, 27), perché, formati alla sua scuola, il Risorto-tra-noi ci renda efficaci annunciatori del Vangelo, testimoni della carità reciproca e verso tutti, seminatori coraggiosi della speranza che non delude e, già da ora, riflessi vivi della gloria del mondo che verrà.

Mons. Giuseppe Petrocchi

 

1)            Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale Pastores dabo vobis, 12.

2)            Conferenza Episcopale Italiana, Orientamenti pastorali per gli anni ’90 Evangelizzazione e testimonianza della carità, 27.

3)            Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Novo millennio ineunte, 42.

4)            Ibid.

5)            bid, 57. Va ricordato che «la comunione è un altro nome della carità ecclesiale» (Evangelizzazione e testimonianza della carità, 27).

6)            Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, 43.

7)            Ibid. Perciò, prima di tutto e in tutto, «gli spazi della comunione vanno coltivati e dilatati giorno per giorno, ad ogni livello, nel tessuto della vita di ciascuna Chiesa. La comunione deve qui rifulgere nei rapporti tra vescovi, presbiteri e diaconi, tra Pastori e intero Popolo di Dio, tra clero e religiosi, tra associazioni e movimenti ecclesiali» (ibid., 45).

8)            Egli infatti «è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli» (Lumen gentium, 23).

9)            Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Ut unum sint, 9.

10)         Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, 12.

11)         Ibid.

12)         Ibid, 17.

13)         «Una grazia che assume ed eleva i rapporti umani, psicologici, affettivi, amicali e spirituali tra i sacerdoti; una grazia che si espande, penetra e si rivela e si concretizza nelle più varie forme di aiuto reciproco, non solo quelle spirituali ma anche quelle materiali» (ibid., 74).

14)         Ibid.

15)         «II ministero ordinato, in forza della sua stessa natura, può essere adempiuto solo in quanto il presbitero è unito con Cristo mediante l’inserimento sacramentale nell’ordine presbiterale e quindi in quanto è nella comunione gerarchica con il proprio Vescovo» (ibid., 17).

16)         Cf G. Petrocchi, La paternità spirituale del sacerdote nella Chiesa e la configurazione sacramentale a Cristo Sposo, in Seminarium 47 (3/2007), 701-765.

17)         Giovanni Paolo II, Discorso ai Vescovi statunitensi delle Province ecclesiatiche di Louisville, Mobile e New Orleans (4 dicembre 2004), in L’Osservatore Romano, ed. sett. n. 52 (24 dicembre 2004), 11.

18)         Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale Chistifideles laici, 57.

19)         Ibid., n. 59. «La teologia e la spiritualità della comunione, infatti, ispirano un reciproco ed efficace ascolto tra Pastori e fedeli, tenendoli, da un lato, uniti a priori in tutto ciò che è essenziale, e spingendoli, dall’altro, a convergere normalmente anche nell’opinabile verso scelte ponderate e condivise» (Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, 45).

20)         Bernardo di Chiaravalle, Sermoni vari, in Avvento: tre tipi di inferno, in F. Gastaldelli (a cura di), Opera omnia di San Bernardo, Sermoni diversi e vari, vol. 4,  Città Nuova, Milano 2000, 639.

21)         Statuti generali dell’Opera di Maria, parte prima, cap. 1°, art. 2.

22)         Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, 82.