«Forma comunitaria» per i presbiteri?

 

Il titolo e la tematica di questo numero della rivista si rifanno a una affermazione della Pastores dabo vobis, molto netta e decisa (vedi i due rafforzativi “radicale” e “solo”): «Il ministero ordinato ha una radicale “forma comunitaria” e può essere assolto solo come “un’opera collettiva”» (n. 17).

In quali forme ciò possa essere concretizzato, lo esprime tra l’altro quel noto passaggio del Decreto sui presbiteri del Vaticano II, dove si chiede che «sia incoraggiata fra di essi una certa vita comune, ossia una qualche comunità di vita, che può naturalmente assumere forme diverse»: coabitazione dove è possibile, oppure una mensa comune, o almeno frequenti e periodici raduni (Presbyterorum Ordinis, 8).

Però dove si trova la radice di questa possibilità? Soltanto trovando quella sorgente si daranno le condizioni per praticare una tale “comunione”, dal momento che l’essere umano si muove per motivazioni.

Normalmente infatti sono le idee a dischiudere cammini inediti nella storia umana. Ma spesso è l’esperienza ad aprire la strada, promuovendo un nuovo pensiero e nuove sensibilità. Il rapporto inseparabile tra questi due modi con cui vanno avanti i processi umani, è mostrato in innumerevoli studi di svariate discipline che affrontano il rapporto tra teoria e prassi. Ciò può contribuire a far capire perché i presbiteri diocesani facciano tanta fatica a tendere a «quell’unità che non li fa correre invano» (cf PO 14).

In effetti, l’importanza della comunione, frutto dell’amore agapico e capace di esplicitarsi “trinitariamente”, oggi è riconosciuta e affermata nel cristianesimo a tutti i livelli. Una citazione, per tutte, ancora della PDV: «L’identità sacerdotale… come ogni identità cristiana, ha la sua fonte nella Santissima Trinità» (n. 12). È determinante una tale affermazione di principio, perché indica un indirizzo fondamentale che appartiene al cuore del Vangelo e a ciò che oggi «lo Spirito dice alle Chiese» (Ap 3, 22).

Tuttavia non basta proclamarlo perché diventi patrimonio comune. Prima di tutto perché i nuovi concetti e sintesi devono entrare nella nostra intelligenza, e molto spesso le vecchie categorie e abitudini mentali sono dure a fare spazio alle nuove prospettive. E inoltre perché non si è “allenati” a sperimentare cos’è la comunione, in tutta la ricchezza della sua dinamica “trinitaria”. Ambedue gli aspetti sono inscindibili: non si dà esperienza senza chiarezza di visione, ma non si arriva pienamente a una nuova comprensione senza un’esperienza adeguata.

Se ciò è vero per tutto il Popolo di Dio, lo è ancor più per i presbiteri, la cui formazione non è stata in genere, né teologicamente né esperienzialmente, improntata alla comunione.

Eppure, l’avanzare in questa direzione, non soltanto è richiesto dall’insegnamento della Chiesa ma è una voce che si alza dalle più varie provenienze nel Popolo di Dio. Proprio perché «il prete vive soprattutto di relazioni» (card. C. M. Martini), si moltiplica l’esigenza che il presbitero diventi «l’uomo dei rapporti profondi» (A. Malraux), un «mistico della relazione» (A. Cencini), «l’uomo del dialogo» (C. Lubich), un «uomo trinitario» (J. Castellano), «uomo di comunione» (Direttorio per il Ministero e la Vita dei Presbiteri, 30). «Proprio perché è l’uomo della comunione, il presbitero dev’essere, nel rapporto con tutti, l’uomo della missione e del dialogo» (PDV, 18).

Una persona che osservi la realtà ecclesiale dal di fuori, magari senza convinzioni religiose e con una certa dose di cinismo o di realismo, potrebbe pensare: «Se i preti fossero intelligenti dovrebbero andare in questa direzione, se non vogliono che la Chiesa – e la fede cristiana – continui a tramontare nel mondo».

Tuttavia non lo si può fare soltanto perché lo si desidera, senza avere la luce su come farlo e dei “modelli” a cui guardare. Né tantomeno per “strategia politica”, ma per convinzione evangelica.

Coloro che hanno il dono di questa convinzione ed esperienza, bisogna che abbiano pazienza; magari ci vorrà tanto tempo per concretizzarlo man mano. Basta che non ci si scoraggi, né sorgano quei giudizi che sono un veleno contro la comunione, a causa dei ritardi e degli ostacoli. Come ha detto qualcuno recentemente parafrasando un detto popolare italiano, «tra il dire e il fare, c’è di mezzo… l’iniziare» (e il “ricominciare”, di fronte alle inevitabili difficoltà!).

Tutto fa pensare però che ci troviamo dinanzi a una realtà inarrestabile che, proprio perché vera, perché coincidente con il disegno di Dio sull’umanità e quindi con ciò per cui si trova fatto l’essere umano, si farà strada da sé.

Se così succede, la Chiesa pone le condizioni per diventare più attraente, per trovare modi di concretizzazione adeguati ai tempi, e Dio potrà “tornare di moda” nella vita dell’umanità.

E.C.