Dall’esperienza di una famiglia nasce l’Associazione Bambini Cerebrolesi

 

Famiglia e disabilità

Intervista a Ada e Marco Espa

 

Gli intervistati, Ada e Marco Espa, sono di Cagliari, fondatori dell’ABC – Associazione Bambini Cerebrolesi – nata in Sardegna ma presto diffusa in tutt’Italia. Sono sposati da 27 anni e hanno una figlia, Chiara, gravemente cerebrolesa. Oggi ha 25 anni e possiamo dire che è stata occasione di veri doni per la famiglia e tanti loro amici, ma anche causa d’importanti conquiste sociali a livello locale e nazionale. Consultando il sito www.abcsardegna.org si possono trovare indicazioni più ampie.

 

La nostra figlia ci ha «educati»

GEN’S: Ada, puoi dirci com’è la vostra vita, cosa ha voluto dire per voi “amare” in una situazione così difficile?

Ada: Quando dopo due mesi dalla nascita Chiara ha manifestato i suoi gravi problemi al sistema nervoso centrale, ci siamo sentiti cadere il mondo addosso. Eravamo giovani, soli, non avevamo la più pallida idea, di fronte a questa situazione, di cosa sarebbe stato il futuro della nostra famiglia. Il primo nostro agire è stato, come si può immaginare, con le istituzioni sanitarie. Visite, ricoveri, accertamenti e viaggi in tutta Italia a contatto di medici e operatori sanitari sempre molto disponibili e desiderosi di fare il meglio per la salute di nostra figlia. Ci rendevamo perfettamente conto che la situazione era di una gravità profonda. I medici le davano pochi anni di vita, noi eravamo consci e pronti a tutto da questo punto di vista. I primi problemi sono sorti quando numerosi operatori sanitari del settore, hanno cercato di farci capire come questa vita insieme a Chiara sarebbe stata durissima per noi; non ce l’avremmo potuta fare. Queste parole, dette ovviamente in buona fede e cercando il meglio per noi, portavano a ritenere che l’unica soluzione adeguata per lei fosse il ricovero in istituto. Pur riconoscendo grande autorevolezza nei professionisti che ci dicevano queste cose e prospettavano soluzioni al di fuori della famiglia, sentivamo che questo ragionamento non quadrava con quelli che erano i nostri ideali di vita.

Uno dei sanitari, più alto in grado e di nostra fiducia, ci fece un forte e realista discorso su quali e quanti problemi alla nostra vita ci avrebbe provocato la presenza di Chiara in famiglia. Avevamo già sentito dirci da tanti (e abbiamo poi saputo dalle altre famiglie italiane dell’ABC che ciò avviene per quasi tutti i genitori di disabili gravissimi) che non dovevamo pensare troppo a lei, che era meglio per noi impegnarci di più nel lavoro, nella carriera, pensare ad altri figli, e poi c’era la ferita narcisistica da dover superare… Il punto di svolta è stato quando il professore ci ha detto con molta apparente competenza: «E poi sapete, questi bambini possono distruggere la famiglia, potete anche divorziare!».

Usciti dallo studio ci siamo messi a sorridere: sì, perché lui era divorziato… senza avere un figlio cerebroleso! Abbiamo capito finalmente cosa dovevamo fare: dedicarci a Chiara anche nei compiti di cura, come è naturale che ogni famiglia si dedichi ai propri figli, in qualunque stato essi siano, e che anche Chiara aveva diritto come tutti a una famiglia.

Purtroppo molto spesso anche i migliori operatori si riferiscono alla famiglia come se dovesse essere una realtà senza difficoltà e senza problemi. Vedevamo intorno a noi un sistema socio-sanitario riabilitativo che non era modulato per le nostre esigenze, chiedevamo infatti di poter condurre da genitori il piano di vita globale di nostra figlia. Invece ci veniva proposto di delegare.

Sempre più prendevamo coscienza che questo atteggiamento di sostituire la famiglia con altro non ci sembrava una cosa adatta, anzi profondamente ingiusta.

Chiara oggi è una ragazza che non riesce a parlare come noi, a camminare, ha difficoltà a stare seduta e non riesce a mangiare autonomamente, ha bisogno di assistenza 24 ore su 24, è una persona cosiddetta gravissima. Però ogni giorno accanto a lei sperimento la sua enorme capacità di amare, che non è da meno di qualsiasi altra persona, anzi sicuramente superiore. Vicino a lei è difficile trovare parole che possano esprimere cosa viviamo ogni giorno. La vita è dura e difficile, senza dubbio, ma… è proprio vero che la potenza di Dio si manifesta nella debolezza!

Con quali criteri si misura il valore di una persona?

Con Chiara ci rendiamo conto che non dobbiamo misurare quello che lei sa fare o non sa fare, perché non è questo il modo di quantificare la dignità e la qualità di un essere umano. Accanto a lei faccio un’esperienza di grande arricchimento, se non altro perché ha ridimensionato tutti i valori della mia vita: ciò che è importante è balzato improvvisamente in cima e tutto il resto ha preso la sua giusta dimensione.

Abbiamo capito molto presto che, al contrario di ciò che succede nelle famiglie per quanto riguarda il compito e il dovere di guida e di educazione dei genitori nei confronti dei figli, a noi veniva chiesto l’opposto: essere noi a seguire Chiara.

Ciò che prima ho creduto con la fede, poi l’ho compreso anche con la ragione: capisco anche umanamente perché abbracciare il dolore sia la cosa più intelligente da fare. Abbiamo sperimentato com’è vero che «il dolore amato è capace di capovolgere il male in bene, lo sfascio in ordine, la disunità in unità».

Ho vissuto sulla mia pelle che non accettare le situazioni dolorose non serve (quelle ci sono comunque), anzi volendo rifiutare il dolore mi assale la disperazione e un senso d’impotenza insopportabile. Solo quando credo nell’Amore di Dio ritrovo la pace, l’equilibrio spirituale e umano che mi forgia come vera persona: sperimento che non sono più io a vivere ma è Cristo e quindi la vita della Trinità, che vive in me.

Diverse volte in questi anni Chiara ha avuto problemi più gravi del solito ed è stata spesso in fin di vita; in tutto questo periodo da quando è nata lei, altri bambini cerebrolesi che avevamo conosciuto sono morti. Questi eventi mi hanno messa più intensamente davanti alla morte: vivere ogni giorno come fosse l’ultimo. In questa prospettiva, ricordo che tante cose quotidiane che prima facevo più per dovere e a volte erano diventate anche un peso, hanno assunto una prospettiva nuova: ogni gesto, anche quello più di routine, è divenuto facile e leggero, posso farlo bene, con amore, mettendoci tutta me stessa, come fosse l’ultima possibilità che mi è data di amare Chiara…

È un quotidiano esercizio di donazione, che mi “costringe” a stare fuori di me, proiettata nell’altro e che mi fa sperimentare già da questa terra, una realtà di amore puro. È il valore sacro della vita che apprezziamo in queste situazioni “estreme”.

Necessità dell’amore… vissuto in comunione

GEN’S: È molto bello e profondo tutto questo. Ma sembra una vita per eroi o persone eccezionali. Non ci sono dei momenti in cui vi viene da scoraggiarvi e avete paura di non farcela? Come fate ad andare avanti?

Ada: Certo, ci sono questi momenti. Bisogna sapersi dare delle risposte. Per fortuna Gesù ci ha insegnato la misura dell’amore. È con questo amore che sperimento accanto a Chiara che posso essere una madre e una donna realizzata e felice.

Noi abbiamo la consapevolezza che la famiglia non è un luogo idilliaco, né ciò che ci viene proposto da spot pubblicitari che indorano e falsificano la vita, però sentiamo che l’importante è che la famiglia sia sostenuta con una rete di relazioni, come succede a noi con tanti amici, con le persone del Movimento dei focolari, con i servizi sociali. Solo così la famiglia riesce a esprimere risorse proprie, risorse d’amore per affrontare e risolvere anche i problemi più grandi.

Nel nostro nucleo familiare si è cercato subito di instaurare la “cultura del dare”, prima di tutto tra noi tre e poi anche con tutto il volontariato che è intorno a noi e ci ha sostenuto in tanti momenti. Poi il cerchio si è allargato ad altre famiglie con bambini con gli stessi problemi di Chiara, con le quali si è instaurata questa reciprocità, questo scambio di esperienze sia positive che negative, come un arricchimento vicendevole. Infine siamo arrivati ad estenderla alle istituzioni con le quali abbiamo colloquiato e alle volte “tartassato” con la nostra vita e le nostre richieste, spingendole a far leggi migliori, a fornire servizi più adeguati, a misura del cittadino.

Tutto questo chi lo fa? Una bambina gravemente cerebrolesa. Allora si vede veramente anche con gli occhi umani come è una ricchezza e ti capovolge la visione delle cose.

La nostra figlia ha una sensibilità per l’amore e l’unità tra le persone davvero speciale. Oltre a capire con le orecchie e la vista ciò che si dice e si vede, anche se con problemi che limitano l’uso di questi organi, è oggettivamente superiore a noi per quanto concerne il senso dell’anima, se così si può dire, anzi direi dell’Anima con la A maiuscola.

Chiara, all’età di 9 anni ha fatto la sua prima comunione e a 13 ha ricevuto la cresima. Sono stati momenti molto forti e solenni in famiglia; ricordo che percepivo la grande gioia di Chiara, che ho potuto preparare io stessa prendendo dei testi catechistici per ragazzi, ma ancora più evidente mi sembrava di percepire il desiderio e la gioia di Gesù di poter entrare ancora di più (casomai ce ne fosse stato bisogno) dentro il cuore di lei, in un modo tutto speciale e intimo tra loro.

Non è facile trovare le parole giuste per parlare della vita di Chiara. Per esempio riceve lettere, e-mail, le scrivono tantissime persone da tante parti del mondo, le compongono poesie, canzoni… Sarebbe stato bello, se avessimo avuto lo spazio, riferire qui almeno alcuni pezzi di quanto lei ha ricevuto in questi anni, per cogliere di quanto amore, tenerezza, profondità, bellezza, creatività, è capace l’essere umano di fronte al dolore.

GEN’S: Il quotidiano “L’Unità”, in un articolo che ha pubblicato commentando la vostra esperienza, è arrivato a chiamarla “un canto alla vita”. Avete mai pensato che una vita vissuta nella disabilità gravissima non fosse abbastanza dignitosa per Chiara, che non fosse il meglio per lei?

Ada: Tante volte ci abbiamo pensato e tante volte mi sono detta: Chi sono io per dire che una persona nelle condizioni di Chiara è meglio che muoia? Chi sono io, pur madre, per decidere al posto suo che è meglio che se ne vada perché soffre troppo? Mia figlia mi lancia continuamente messaggi di segno opposto: certo lei non parla e sono io che devo decodificarli; ma con l’esperienza e il rapporto che c’è fra noi, percepisco il linguaggio del suo corpo, delle mani, del viso, del respiro.

Ricordo una notte, nel reparto di rianimazione, che lei mi ha lanciato uno sguardo, è riuscita ad aprire gli occhi, a spalancarli, con una tale energia e volontà – e li ha rivolti a me – che in quel momento ho sentito come se mi dicesse: mamma guarda che io sono qui e voglio rimanere, ti prego, lotta per me.

Concreti risvolti sociali

GEN’S: Quindi questo dolore non solo non vi ha schiacciato, ma ha fatto nascere in voi l’esigenza di aiutare quanti affrontavano la vostra stessa difficoltà. È da qui che è nata ABC, l’Associazione Bambini Cerebrolesi?

Marco: In effetti. Fin da giovane, attraverso la vita del Movimento dei focolari, assieme a tanti altri giovani del mondo sono stato affascinato dagli ideali dell’unità fra le persone e fra i popoli che ci proponeva Chiara Lubich, per contribuire a realizzare la fratellanza universale. Lo stesso era successo ad Ada, per cui avevamo deciso di formare una famiglia non rinchiusa in un privato di coppia ma aperta e a disposizione degli altri. Quando è nata Chiara, voluta, cercata, amata, e abbiamo saputo dei suoi problemi, ci siamo sentiti cadere il mondo addosso, è stato molto duro. Invece la Provvidenza si serve di tutte le circostanze umane, e Chiara ci ha aperto degli orizzonti, anche nel nostro impegno sociale, che non avremmo immaginato. La scelta di dire di sì a una situazione oggettivamente difficile e di non chiuderci ma guardare alle altre famiglie che vivevano lo stesso tipo di difficoltà, ha fatto nascere l’Associazione Bambini Cerebrolesi Sardegna.

Concretamente è nata nel ’90  dall’iniziativa di tre famiglie (noi avevamo 29 e 27 anni) e tutto è cominciato cercando di affrontare una difficoltà: ci era impedito di curare in famiglia i nostri figli a causa di una legge ingiusta. Da qui è nata un’iniziativa che ha addirittura fatto scrivere e cambiare una legge con un voto unanime del Consiglio regionale sardo e che da allora è stata utilizzata da migliaia di sardi che hanno bisogno di cure specialistiche. Lì abbiamo sperimentato che poteva nascere una gara di solidarietà che coinvolgeva tutte le persone che ci circondano. È stato il primo episodio che ci ha fatto capire il disegno che c’era sulla nostra famiglia: più grande ancora di ciò che noi pensavamo.

Infatti l’ABC ormai da anni non solo raggruppa genitori di bambini cerebrolesi della Sardegna, come una rete di auto-aiuto tra famiglie, ma ha coinvolto tante famiglie italiane: è nata l’ABC Federazione Italiana. Pensiamo che il posto migliore per i nostri figli di qualunque gravità sia la famiglia, cioè il luogo degli affetti, delle cure, della vita di ogni persona come la famiglia sa dare. L’esperienza di avere un figlio gravemente disabile è indubbiamente un’esperienza ardua e difficoltosa, ma è ancora più dura quando la famiglia è lasciata a se stessa, quando le manca il sostegno. Non parlo solo di sostegno economico. Il problema è l’impatto duro con le istituzioni, che spesso tendono a separare la famiglia dal figlio, come accennava Ada. Quindi l’attività dell’associazione consiste nel cercare di rimuovere tutti gli ostacoli a un inserimento sociale e familiare delle persone in situazioni di handicap anche grave.

Ad esempio: quando hai bisogno di un insegnante di sostegno non deve sembrare che ti facciano un favore, quando hai bisogno di abbattere le barriere architettoniche non devi venire mortificato poiché è un diritto che hanno i più deboli. Con l’associazione abbiamo uno strumento per promuovere queste cose: ogni difficoltà è un trampolino di lancio per nuove proposte e azioni sociali positive.

E impegnarsi a rimuovere questi “ostacoli” migliora la qualità di vita di tutti, grazie alle persone più deboli.

GEN’S: Quali sono stati i risultati socialmente più significativi di questa attività?

Marco: La prima cosa è che siamo riusciti ad avere una segreteria con dei professionisti molto validi, supportati da un ampio giro di volontari; adesso abbiamo tre persone di livello che lavorano come segreteria nell’associazione a servizio di questo modello. Sono persone che con le loro competenze (pedagogisti, persone che si occupano di problemi giuridici) sanno aiutare le famiglie lì dove vivono.

Abbiamo proposto e ottenuto (con il voto unanime del Consiglio regionale), al momento dell’approvazione della legge finanziaria regionale del 2001, che per la prima volta in Sardegna la Regione dedicasse dei fondi per creare dei progetti di aiuto alle singole persone con handicap grave, superando la cultura del mero assistenzialismo abbiamo ottenuto che venissero stanziati dei fondi per permettere a ogni disabile grave di avere un assistente personale di suo gradimento, consentendo alla famiglia, di concerto con le istituzioni, un controllo efficace della qualità del servizio.

Abbiamo lavorato molto per ottenere il congedo retribuito per i genitori dei disabili in situazione di gravità, che è passato con una legge finanziaria nazionale. Adesso, con l’approvazione del nostro emendamento, in tutta Italia si riconosce il ruolo dei genitori, che hanno la possibilità di chiedere due anni di congedo retribuito nell’arco della carriera lavorativa, consentendo loro di restare in casa e partecipare attivamente al progetto di riabilitazione e cura dei propri cari.

A partire da quelle prime iniziative locali e della legge nazionale 162/98, si sente parlare di relazionalità, di personalizzazione dei servizi, dei vissuti non solo soggettivi degli utenti, ma anche delle loro famiglie, di pari opportunità e non discriminazioni dei cittadini, di avere come indicazione metodologica fondamentale non valutare solo le patologie, ma la situazione delle persone con un approccio multidimensionale e non solo sanitario.

Tutto ciò tra il resto risulta essere anche un non trascurabile risparmio finanziario per lo Stato: perché se lo stesso figlio inserito e seguito dalle famiglie con questo stile di sostegno, fosse ricoverato in un istituto fuori, costerebbe tre-quattro volte di più. Oltre al fatto che gli affetti della famiglia sono impagabili.

a cura di Enrique Cambón