L’evangelizzazione «nuova» cui siamo chiamati

 

Parola di Dio e Chiesa oggi

 

di Piero Coda

 

Mentre la Chiesa avverte con urgenza la necessità di una Nuova Evangelizzazione, si impone una riflessione su quali debbano essere le caratteristiche di questo rinnovato annuncio del Vangelo affinché non si fermi in superficie ma agisca con liberante incisività nella vita dell’umanità. Svolto in un incontro internazionale di vescovi al Centro Mariapoli di Castel Gandolfo, l’intervento che qui riportiamo, ha suscitato particolare interesse per la profondità teologica con cui enuclea criteri basilari per la vita ecclesiale e l’azione pastorale.

 

Cosa lo Spirito dice oggi alla Chiesa?

Il tema su cui sono stato chiamato a dire qualcosa è sempre di nuovo affascinante e provocante. Lo potremmo ricondurre a quanto si legge nell’Apocalisse: che cosa dice oggi lo Spirito alla Chiesa? (cf Ap 2, 7).

Parola e Spirito, in verità, vanno insieme. Perché le parole che il Verbo della vita dice alla sua Sposa, la Chiesa, sono Spirito e Vita (cf Gv 6, 63); e, d’altra parte, perché è proprio lo Spirito che ricorda, fa penetrare in noi, rende vive e attuali, nella testimonianza e nell’annuncio della Chiesa, le parole del Cristo (cf Gv 14, 26; 15, 26-27).

Dalla Dei Verbum del Vaticano II ad oggi, lo Spirito Santo ha decisamente focalizzato l’attenzione della Chiesa sulla Parola di Dio. E questa Parola, per un verso, non ha smesso di inquietarci. Anche se, forse, per un altro verso, troppo poco ci ha inquietato.

Ci ha inquietato, sì, nel renderci consapevoli che l’annuncio della Parola è oggi la priorità, non solo in terra di missione, ma ovunque, a partire dai paesi già fecondati dal seme del Vangelo. Ecco l’Evangelii nuntiandi  (1975) di Paolo VI, la Redemptoris missio (1990) di Giovanni Paolo II, la Verbum Domini (2010) di Benedetto XVI. Ecco il prossimo Sinodo sulla “nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede”.

Ma forse siamo stati troppo poco inquietati noi, come Chiesa e come pastori, dall’urgenza della Parola di Dio per la nostra vita e la nostra missione. Che cosa, infatti, oggi, qui, per noi, lo Spirito Santo dice alla Chiesa attraverso la Parola di Dio fatta carne, Gesù, il Signore crocifisso e risorto? Questo è l’interrogativo che deve inquietarci: per farci trovare la pace vera, nel cuore di Dio che pulsa, nascosto, al cuore del mondo. Altrimenti rischiamo di correre invano.

Affinché la Parola di Dio possa correre spedita e tagliente più che spada a doppio taglio (cf Eb 4, 12), occorre che abbia suscitato in ciascuno di noi e in ogni comunità ecclesiale il fiat di Maria: «si faccia di me secondo la tua Parola» (Lc 1, 38).

A partire di qui vorrei richiamare tre atteggiamenti che il discepolo e la comunità ecclesiale sono chiamati ad assumere nei confronti della Parola, perché la “nuova evangelizzazione” sia davvero “nuova” e sia vera “evangelizzazione”. Si tratta di: ascoltare la Parola, incarnarla, nel soffio dello Spirito.

 

Ascoltare la Parola e insieme l’umanità

Sì, il mondo, oggi, ha un bisogno estremo della Parola di Dio. E per questo – sembra paradossale, ma invece è così – la Chiesa ha bisogno di ascolto: di ascolto della Parola e insieme di ascolto del grido dell’umanità.

Ascolto. Non dobbiamo solo pensare al fatto che la nostra gente è assordata dal rumore delle parole, tanto che spesso non è più capace di ascoltare e ha persino paura del silenzio. No, dobbiamo prima e soprattutto pensare a noi e alle nostre comunità.

E dobbiamo chiederci: siamo davvero capaci di ascolto, siamo educati all’ascolto – all’ascolto di Dio, che in Gesù ci dice la Parola, e all’ascolto dell’essere umano che grida e chiede la Parola, anche se in modi persino scomposti e contraddittori?

Anche la Chiesa, oggi, ha bisogno di ascolto, e cioè di riapprendere quell’attitudine radicale in cui io, noi, tutti, diventiamo capaci – dal silenzio – di ri-ascoltare la Parola di Dio.

Mi pare sia sfuggito ai più quanto Benedetto XVI puntualizza alla fine della Verbum Domini: «il nostro dev’essere sempre più il tempo di un nuovo ascolto della Parola di Dio e di una nuova evangelizzazione» (n. 122). Ecco: il “nuovo ascolto” – una bella espressione! – va di pari passo con la “nuova evangelizzazione”.

Vien da dire: senza l’esperienza e l’esercizio di un “nuovo ascolto” della Parola non c’è “nuova evangelizzazione”. È questa la prima e radicale conversione che ci è chiesta e – a livello esistenziale e pastorale – il primo criterio di discernimento e di verifica della qualità della vita evangelica e della comunione ecclesiale che ci è proposto.

Ma che cosa significa ascolto? La fede, e cioè l’accoglienza della Parola di Dio per ciò che essa è, non “parola di uomini ma parola di Dio” (cf 1Ts 2, 13), è, secondo il Nuovo Testamento, hupakoé, ascolto dal di sotto, obbedienza. L’ascolto è il primo e permanente “fondamentale” dell’esistenza cristiana.

Il Dio della Parola è Egli stesso il Dio dell’ascolto e del silenzio. Se in principio – come leggiamo nel prologo del quarto vangelo – c’è la Parola, è perché in principio c’è il Silenzio. Lo scrive Sant’Ignazio di Antiochia nella Lettera ai Magnesii: «C’è un solo Dio che si è manifestato per mezzo di Gesù Cristo suo Figlio, che è la sua Parola uscita dal Silenzio».

Ecco: la Parola esce dal grembo generoso del Silenzio che è il Padre, e per questo è pregna di Vita e di Luce – come attesta il prologo – e le testimonia e le comunica. La Parola che non esprime il Silenzio, che è il Padre, in realtà, suona a vuoto, non è grondante di essere, è semplice flatus vocis.

Non proiettiamo forse troppo spesso su Dio la frenesia delle parole e l’amnesia o addirittura la fuga dall’ascolto che rischia di assordare con tante voci – coprendo l’inimitabile timbro della Parola di Dio – la nostra esistenza e il nostro ministero?

Quante delle nostre parole – predicazione, catechesi, performances nell’areopago della comunicazione – lasciano il tempo che trovano, anche quando, nel migliore dei casi, sono umanamente brillanti e lì per lì incisive! Perché – chiediamocelo –, queste nostre parole, veicolano davvero la Parola, ne sono segno, eco, trasparenza?

Lo diventano solo se e quando son state, per così dire, generate dal silenzio che ha accolto la Parola di Dio. Il silenzio, che fa possibile l’ascolto, infatti, è l’eco, in noi, del silenzio del Padre che genera la Parola. Quanto più il nostro ascolto è vero e profondo, e cioè nutrito di silenzio, tanto più apre il cuore e la mente al dono della Parola che scende in noi dal silenzio del Padre.

E il silenzio in noi, per essere eco del silenzio del Padre – lo sappiamo –, dev’essere azzeramento: non solo – è ovvio – delle cose non buone, ma anche delle cose indifferenti o persino credute buone come gusti, attese, preferenze, precomprensioni... Tutto questo può deformare e addirittura incatenare la Parola.

La Parola che nasce dal Silenzio sta di casa nella Trinità, nel dialogo d’amore tra il Padre e il Figlio che è comunicazione sostanziale dello Spirito Santo. E solo scandendo questo ritmo accade anche in noi e tra noi.

Imparare il silenzio, e cioè ri-apprendere l’arte dell’ascolto della Parola di Dio, è essenziale per vivere come cristiani e come comunità cristiana. Pensiamoci un attimo: quanto siamo davvero capaci di dialogare, alla luce, o meglio, nello spazio della Parola di Dio, tra noi? come vescovi, come preti, come cristiani? Eppure, dovremmo essere gli artisti dell’ascolto e della Parola, e cioè del dialogo!

Ecco un secondo criterio di discernimento e di verifica della qualità della vita e della missione ecclesiale. Ma vorrei accennare anche a un terzo criterio.

Il fatto è che la Parola di Dio, che è insieme gesto di liberazione e di salvezza (tanto che il dabár ebraico andrebbe tradotto in greco, sì, con lógos, ma anche con prágma, evento, ed ergon, opera), non solo nasce dal silenzio del Padre che genera la Parola, ma è pronunciata e agíta dopo che Dio ha ascoltato il grido del suo popolo.

Leggiamo nel libro dell’Esodo: «Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti e se ne diede pensiero» (2, 23-25).

Dio ascolta il grido dell’essere umano, ne ha com-passione, scende e soffre con lui e condividendo la sua condizione gli dice e gli dona la Parola di Vita e così lo libera. E tanto lontano giunge questa condivisione che il Figlio, la Parola, alla fine si fa egli stesso questo grido – sulla croce. Scrive la Verbum Domini: sulla croce, «il Verbo ammutolisce, diviene silenzio mortale», e cita Massimo il Confessore: «è senza parola la Parola del Padre» (n. 12; cf anche n. 21).

È questa la dinamica dell’agápe, il paradosso dell’amore: la Parola di Dio si fa grido umano che si consegna nella fede al silenzio del Padre, il quale accoglie il grido e risponde trasfigurando l’attesa e la prova con lo Spirito del suo amore.

Questo paradosso è la via maestra della Chiesa per la “nuova evangelizzazione”. Altrimenti si moltiplicano le parole che passano sopra la testa della gente e lasciano il tempo che trovano. Si batte l’aria o – come dice il profeta Isaia – ci si dà tanto da fare e si partorisce solo vento:

«Come una donna incinta che sta per partorire si contorce e grida nei dolori, così siamo stati noi di fronte a te, Signore. Abbiamo concepito, abbiamo sentito i dolori quasi dovessimo partorire: era solo vento; non abbiamo portato salvezza al paese e non sono nati abitanti nel mondo» (Is 26, 17-18).

Il paradosso dell’amore, quello in cui la Parola ascolta, per pronunciarsi, il grido dell’umanità, sino a calarsi in esso, sino a farsi questo grido, ci dice che anche la Chiesa – noi, in concreto – senz’altro prima di parlare, ma anche prima di annunciare la Parola, dobbiamo ascoltare, dobbiamo decifrare con la mente e con il cuore, anzi dobbiamo sentire nella nostra carne il grido – spesso senza parole o al di là delle parole – delle persone concrete che ci stanno accanto e che null’altro attendono da noi se non la Parola – quella dell’amore, della vita, della verità.

 

Vivere la Parola, cioè incarnarla

Vengo, più rapidamente, al secondo atteggiamento che il discepolo e la comunità ecclesiale son chiamati ad assumere nei confronti della Parola: viverla, incarnarla. Sembra scontato e facile, ma non lo è. È crocifiggente!

Parto da un testo mistico di Chiara Lubich del 27 agosto del 1949, che fa capo a quell’intenso e un po’ straordinario periodo di grazia illuminativa e trasformante che ha investito Chiara e il primo gruppo dei suoi nell’evento fondante il Movimento dei focolari.

Si tratta di un’esperienza carismatica di partecipazione, in Gesù, alla vita della SS.ma Trinità, provocata – precisamente – dall’assimilazione perseverante e appassionata della Parola di Dio, dall’immersione personale e comunitaria nell’abisso di grazia dell’Eucaristia, dell’esperienza concreta e perseverante della reciprocità dell’amore.

È vivendo questi “cieli” – come lei stessa dice – che Chiara giunge a scrivere:

«Dunque: se più è la Parola col Silenzio del Silenzio, parlerò e scriverò, comunicherò tutto con tutti i mezzi.

Ma solo ora lo faccio, ora che amo il Silenzio che è il Padre, l’Essere; ora che la mia Parola non è mera parola, ma espressione di Dio.

La Parola col Silenzio! La Parola con l’Essere! è l’Amore, lo Spirito Santo, l’Essenza di Dio! È la Trinità».

Straordinaria esperienza e straordinaria lettura trinitaria della Parola! Manifesto, direi, della “nuova evangelizzazione”.

La Parola col Silenzio – intuisce Chiara – è la Parola con l’Essere, e cioè la Parola che esprime l’Essere, Dio, il Padre. È dunque la Parola che veicola e comunica la Vita, che è l’Amore, lo Spirito Santo.

Ma su di Lui, lo Spirito in rapporto con la Parola, torneremo subito dopo. Intanto, riflettiamo un attimo sulla Parola con l’Essere. Che cosa significa, concretamente?

Innanzi tutto, che la Parola di Dio, il Verbo, Gesù (Verbo incarnato) – come scandisce il prologo del quarto Vangelo – è in principio presso il Padre, ed è Dio come il Padre è Dio. E questo perché esprime Dio – dà o fa Parola l’Essere.

Ciò viene a dire che noi possiamo comunicare nella sua verità, nel suo peso, nella sua efficacia la Parola di Dio, se e solo se siamo anche noi, nel Verbo fatto carne, parola fatta carne. La Parola di Dio parla, e passa, attraverso di noi, se siamo Parola vissuta e se, perciò, la Parola che è pronunciata dalla bocca esprime l’Essere che vive nel cuore.

Lo sappiamo che cosa significa ascoltare e dire parole “vuote”, parole, meglio, che – come si dice in italiano – “suonano a vuoto”. A noi, servi e ministri della Parola in quanto discepoli della Parola fatta carne, ciò non è permesso. Non possiamo dire parole vuote. E le nostre parole sono “piene” solo quando sono svuotate di noi, dei nostri pensieri e affetti e desideri, e sono colme di Dio. Come Gesù: che dice solo e sempre le parole che ha udito dal Padre (cf Gv 8, 26; 12, 49-50; 14, 10.24; 15, 15; 17, 8).

Ciò chiede esercizio ed ascesi, la più esigente e salutare: e cioè vivere in noi quella pasqua di morte/risurrezione cui siamo configurati nel battesimo. Essere morti a noi e vivi, per Gesù, nel Padre. Così la Parola vive in noi.

È già tanto quanto diciamo: dobbiamo accogliere e vivere la Parola. È una “pasqua”, e cioè un passaggio, dalla notte al giorno. È come quando – spiega Gesù nelle parabole del seme (cf Mc 4) – il seme non cade sul terreno sassoso o tra le spine, ma attecchisce nel terreno buono e germoglia e porta frutto.

Eppure, la metafora del seme dice di più: la Parola, infatti, è Gesù stesso che viene e vive in noi. Ecco allora l’invito – e l’esperienza – che ci propone Chiara, con linguaggio incisivo e teologicamente bellissimo: non solo vivere la Parola, ma farsi vivere dalla Parola. Sino a poter dire – con Paolo – «non sono più io che vivo, perché Cristo vive in me» (Gal 2, 20).

Sulla stessa lunghezza d’onda, mi ha colpito, anni fa, ciò che il Cardinale Carlo Maria Martini ha detto a un gruppo di giovani quando ha lasciato la guida della diocesi di Milano. Riprendendo le parole di Paolo nel suo saluto agli anziani di Efeso, ha dato loro questa consegna: «E ora vi affido a Dio e alla Parola della sua grazia, che ha la capacità di edificare e di dare l’eredità a tutti quelli che da lei sono santificati» (At 20, 32).

«Vi affido a Dio e alla Parola». È l’augurio più vero e più bello che l’apostolo sa di poter fare. Essere affidati e affidarsi a Dio significa essere affidati e affidarsi alla Parola della sua grazia. E cioè darsi alla Parola, perché – anche attraverso di noi – la Parola possa essere data.

Si potrebbero proporre molte considerazioni in proposito, facendo l’esame di coscienza del modo in cui ciascuno di noi concepisce e cerca di vivere il discepolato e il ministero della Parola. Ne faccio due soltanto.

«Farsi vivere dalla Parola» significa, innanzi tutto, non solo evangelizzare la nostra vita, e cioè far sì che la Parola converta, plasmi, impregni di sé il nostro modo di comportarci, ma anche evangelizzare il nostro cuore e la nostra mente. Amare, dunque, e pensare come Gesù e in Gesù: perché – come dice sempre Paolo – noi abbiamo ricevuto il noûs Christoû, il pensiero di Cristo (cf 1Cor 2, 13-16).

Non solo sul livello dei grandi e irrinunciabili principi della dottrina e della morale cristiana – ci mancherebbe altro che così non fosse! –, ma anche e il più possibile nell’impegno costante e prioritario a permeare della luce del Vangelo il nostro vedere le persone e le situazioni e il nostro “conversare” (come dice la tradizione) con gli uomini e le donne di oggi.

Il più delle volte, lo stile è tanto importante quanto il contenuto. Perché nello stile si vede, si ascolta, si tocca se e quanto ciò che si dice e si annuncia è vita, e vita vera e bella, in chi lo dice e annuncia. Se non si impara sempre di nuovo, e sempre più in profondo, lo stile di Gesù – nella variegata gamma dei suoi atteggiamenti – la “nuova evangelizzazione” ha pochissime chances.

Vengo così a un’altra considerazione. “Farsi vivere dalla Parola” non è solo una faccenda personale, ma anche comunitaria. Tocca, cioè, il prendere figura storica e visibile e il collocarsi evangelicamente nel proprio tempo e nel proprio spazio di vita della comunità ecclesiale.

E anche qui ci può essere – e molto spesso c’è – una schizofrenia, e cioè una pratica dissociazione tra ciò che si crede e ciò che si annuncia rispetto a ciò che si vive e in concreto si mostra: proprio come avviene a livello personale.

La questione, in soldoni, è la seguente: le dinamiche di vita della Chiesa – della nostra diocesi, o parrocchia, o comunità ecclesiale –, le sue strutture e i suoi luoghi di incontro, di partecipazione, di formazione, le sue strategie pastorali, culturali e missionarie, ecc., quanto sono suscitate, ispirate, vivificate e giudicate dalla Parola? O quanto invece rischiano – senza che quasi più ci facciamo caso – di essere su di un altro piano, così che vanno da sé secondo i canoni di una logica semplicemente mondana?

«Farsi vivere dalla Parola», per una Chiesa, vuol dire anche questo. Ed è uno dei compiti più urgenti e impegnativi e delicati. Non si può più “barare”, nascondere, rimuovere – anche con le migliori intenzioni (almeno soggettivamente). 2000 anni di storia, la lezione dei “maestri del sospetto” e l’epoca del disincanto che viviamo non lo permettono più. Finito!

 

Nel soffio attuale dello Spirito

Uno spunto, per concludere, sul terzo atteggiamento di fronte alla Parola – come Chiesa – enunciato in esordio di questo dire: ascoltarla, la Parola, incarnarla, ascoltarla e incarnarla nel soffio dello Spirito.

E sì: non si può parlare della Parola e della Chiesa oggi, senza fare spazio, nel cuore e nella mente, in ciascuno di noi e in mezzo a noi, allo Spirito Santo. «Le parole che io dico – afferma Gesù – sono Spirito e Vita» (Gv 6, 63). La Parola di Dio – scrive Tommaso d’Aquino – «spira Amore», perché, appunto, è: Verbum Patris spirans Amorem. Tutto è trinitario, perché Lui, Dio, è Trinità.

Dunque, se la Parola, per essere ascoltata e accolta chiede l’eco, in noi, di quel divino, vertiginoso Silenzio che è il Padre; essa, per essere accolta e incarnata – secondo lo stile di Gesù e in sintonia coi segni dei tempi – invoca il soffio dello Spirito.

Ma qual è la Parola che “spira l’amore”? Come si accoglie, come s’incarna, come si annuncia la Parola che “spira l’amore”?

Solo uno spunto. Anche qui, bisogna farne esperienza. Se tutti sappiamo che cosa significa aver a che fare con parole vuote, tutti anche sappiamo che cosa significa aver a che fare con parole chiuse: e cioè con parole che non sbocciano e non comunicano. Sono parole che non arrivano all’interlocutore o al destinatario a cui dovrebbero essere dirette. O perché incomprensibili, o perché lasciano indifferenti, o perché suscitano reazioni di contrasto e di ripulsa, o perché sono spente e finiscono anche con lo spegnere quel “lucignolo fumigante” che ci può essere in chi le ascolta.

Insomma, non sono “Spirito e Vita”. Tutt’altro. Due esempi decisamente “parlanti” – mi si passi il gioco di parole – sono: quello delle parole che piombano sugli altri come una gragniuola di sassi, parole contundenti, parole come armi di offesa; e quello delle parole che non vengono dette per l’altro, ma per sé, parole che non corrono verso l’interlocutore, ma che tornano indietro verso chi le ha dette. Quella persona “si parla addosso” – si dice, in questo caso, in lingua italiana.

Sono parole che né vengono dal Silenzio né grondano Spirito Santo. Parole che contraddicono, in fin dei conti, la loro natura di “parole”, soprattutto quando dovrebbero comunicare la Parola – quella di Dio.

Ebbene, perché le nostre parole comunichino nello Spirito la Parola, non basta che nascano dall’ascolto né che germoglino da una vita che incarna la Parola. Occorre che siano trascinate dallo Spirito Santo, in modo che Egli, lo Spirito, dia loro ali, respiro, forza, incisività, bellezza. Così che possano toccare, muovere, svegliare, accendere, convertire i cuori, illuminare le menti, destare nuove energie, dischiudere gli orizzonti.

Ciò accade se chi parla è crocifisso con Cristo, così che il Risorto, datore dello Spirito e dei suoi doni, vive in Lui. San Giovanni della Croce scrive che l’anima, quand’è veramente e sino in fondo unita – sul vuoto di sé – a Cristo Crocifisso, spira al Padre nientemeno che lo stesso Spirito Santo che il Padre spira a lei nel Figlio fatto carne.

La spiritualità di comunione – così come, ad esempio, la delinea la Novo millennio ineunte sulla scia del Concilio (cf n. 43) – implica che lo Spirito Santo vada e venga da cuore a cuore, da mente a mente, attraverso le parole e i gesti che traducono nelle nostre relazioni reciproche e verso tutti il nostro essere “uno in Cristo Gesù” (cf Gal 3, 28).

Non scrive il Concilio nella Dei Verbum, descrivendo l’evento della rivelazione, che «Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e s’intrattiene con essi (ecco la conversatio!), per invitarli e ammetterli alla comunione con Sé» (n. 2)? Se Dio in persona ci evangelizza così, che altro stile ha da scegliere e da assumere la Chiesa?

Ecco quella straordinaria, attualissima, profetica lettera enciclica che è l’Ecclesiam suam di Paolo VI: de quibus viis catholicam Ecclesiam in praesenti munus suum exsequi oporteat (1964). La Chiesa oggi – scrive Paolo VI – «ha bisogno di sentirsi vivere ... di sperimentare Cristo in se stessa» (n. 27), così che lo Spirito Santo «apra alla santità nuove espressioni, svegli l’amore a diventare geniale, provochi nuovi slanci di virtù e di eroismo cristiano» (n. 45).

È nel soffio di questo Spirito che «la Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere» (n. 67). Ma che cosa significa, allora, dialogo? Questa parola così bistrattata, così stiracchiata, così malintesa e così – persino – dileggiata, significa, per Paolo VI, che «la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio» (ibid.).

Ecco il significato esistenziale, e non solo teologico, del grande concetto che, sin dal n. 1 della Lumen gentium, orienta il Concilio e come bussola – diceva Giovanni Paolo II – a cinquant’anni dal Concilio ha da orientare la “nuova evangelizzazione”: «La Chiesa è, in Cristo, sacramento, e cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano».

Già nel 1950, quasi a presagio – nel soffio dello Spirito – di questo orientamento, Chiara Lubich scriveva:

«Il Vangelo predicato da Gesù era la Buona Nuova, l’Amore annunciato.

Ora dopo venti secoli quest’Amore ha preso concretezza nella Chiesa, la quale prosegue l’Incarnazione ed ha quindi Cristo per Capo e ripete l’Incarnazione ed ha quindi Cristo per Sposo.

Per questo il Vangelo predicato allora era Amore.

Quello predicato ora è Unità cioè Amore consumato: Amore organizzato, per così dire, Amore che ha preso forma e bellezza nella Chiesa: Trinità in unità».

Sono questi – credo – la chiave e l’obiettivo della “nuova evangelizzazione” oggi, in ascolto del soffio dello Spirito: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi uno in noi perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17, 21). Questa è la Parola che oggi lo Spirito dice alla Chiesa e che la Chiesa ha da dire, incarnata nella sua vita, al mondo nel soffio dello Spirito.

L’unità in Cristo, e cioè nel Padre, l’essere quindi fratelli e sorelle veri, il vivere Cristo nell’unità a tutti i livelli, è l’annuncio, già realizzato nel non ancora del tempo, del destino integrale e ultimo dell’umanità; e perciò è il lievito spirituale, culturale e sociale della civiltà nuova dell’amore e della verità che il nostro mondo attende.

La “nuova evangelizzazione” o è a servizio del cammino di questo progetto – accaduto come germe e inizio, per Cristo, nei fragili vasi d’argilla che siamo noi, sua Chiesa (cf 2Cor 4, 7) – lungo i sentieri della nostra storia, o semplicemente non è.

 

Paradigma «mariano»

Concludo. Benedetto XVI, nella Verbum Domini sottolinea con energia che il guardare a Maria «è di importanza capitale per operare anche oggi un concreto cambiamento di paradigma nel rapporto della Chiesa con la Parola» (n. 28).

L’espressione e l’impegno cui allude – impegno che, prima di tutto, è grazia da invocare – sono forti: un concreto cambiamento di paradigma. È la “riforma” di cui la Chiesa ha bisogno per rispondere, in apertura disarmata all’azione trasformante di Dio, ai problemi e alle sfide dell’oggi.

È per questo che non possiamo non guardare a Maria. Perché Maria – son sempre parole del Papa – «si identifica con la Parola, entra in essa... parla e pensa con la Parola di Dio; la Parola di Dio diventa parola sua, e la sua parola nasce dalla Parola di Dio» (ibid., cf Deus caritas est 41). Qui è tutto.

 

Piero Coda